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La mattina delle elezioni mi ha telefonato Beppe Grillo, preoccupatissimo: “ Il Sì vincerà col 70 percento”. Credo che il vecchio marpione, e belinone, parlasse per scaramanzia e anche per scaricare una comprensibile tensione su qualcuno che è suo amico e che vede con favore l’ascesa dei Cinque Stelle ma non appartiene a nessun partito e quindi nemmeno al suo (sul Fatto del 17 novembre avevo scritto un pezzo in cui, benché astensionista cronico, mi dichiaravo per il No. Ma a parte questo endorsement, per quel che vale, a votare non ci sono andato perché la mia religione non me lo consente. Non voglio quindi appropriarmi di una vittoria che è mia solo a metà).

Certo che la sconfitta di Matteo Renzi, in quelle proporzioni, ha dello sbalorditivo. Il premier aveva usato e abusato del suo potere. Già il quesito referendario era suggestivo. Se il cittadino vede scritto sulla scheda che il Sì porta alla “riduzione dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” non è facile che capisca quello che ha poi invece capito: e cioè che si trattava di trabocchetti. Renzi, sdoppiandosi furbescamente ma illecitamente nelle parti di premier e di segretario del Pd, aveva scritto una lettera a ciascuno degli italiani all’estero che conteneva una chiara indicazione per il Sì. Per più di un mese si è calato nelle vene, sue e nostre, un’overdose di apparizioni e partecipazioni su tutte le Tv nazionali, le radio, i più importanti giornali. Sotto elezione ha distribuito mancette a destra e a manca. Ma la maggioranza dei cittadini non c’è cascata.

Credo che Matteo Renzi abbia pagato anche, e in misura rilevante, la sua sbruffoneria, il suo atteggiamento guascone, il delirio di onnipotenza che lo aveva preso dopo l’ubbriacatura delle elezioni europee, insomma, per dirla con i Greci, quell’hybris che provoca la fzonos zeon, l’invidia degli Dei, e l’inevitabile punizione. Ma il No degli italiani, come la vittoria di Donald Trump, si inserisce in una rivolta popolare in Occidente (i cosiddetti ‘populismi’, anche se bisogna fare qualche distinguo) contro gli establishment che fanno il bello e cattivo tempo da decenni.

Ma adesso rendiamo allo sconfitto l’onore delle armi. Aveva detto che in caso della vittoria del No si sarebbe dimesso e lo ha fatto, in un Paese dove non si dimette mai nessuno, neanche per cariche molto meno prestigiose. E’ l’unica delle sue promesse che ha mantenuto, ma è importante. In politica estera si è portato bene. Dopo una prima esibizione muscolare a Erbil ha capito che non era il caso che l’Italia si facesse vedere troppo attiva nel caos mediorientale, seguendo la linea di Angela Merkel, e noi di attentati jihadisti non ne abbiamo avuti. Non credo che abbia agito per viltà ma perché è dovere di un Premier salvaguardare la vita dei suoi cittadini e di non metterli in pericolo se non ce n’è un’assoluta necessità.

Nei mille giorni del suo governo si è speso moltissimo e in soli tre anni è invecchiato di colpo. Quindi, caro Matteo, adesso vai a riposarti per un po’, ma ritorna, con atteggiamento diverso, modesto e meno fanfarone, perché il Paese ha bisogno anche delle tue energie che non sono, e non sono state, solo negative.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2016