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Molti giornali hanno pubblicato in prima pagina la fotografia di Saffie Rose Roussos la più piccola delle vittime (8 anni) della strage di Manchester. Uccidere dei bambini è una cosa orribile, ma strumentalizzarli è qualcosa che sta solo un paio di gradini sotto. Nella prima guerra del Golfo furono uccisi dai bombardieri americani e della Nato 32.195 bambini, dati inoppugnabili perché forniti, sia pur involontariamente, dal Pentagono. Se dovessimo stare nella stessa logica i giornali occidentali dovrebbero pubblicare ogni giorno, per riparazione, la fotografia di uno di questi piccoli, cioè almeno per una decina di anni. Non è che i bambini degli altri sono diversi dai nostri, se non per qualche caratteristica fisica (i bambini dei paesi musulmani, i piccoli Alì, sono in genere tutti riccioluti).

Sul Corriere della Sera Cazzullo si chiede “quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto”. Nessuna, ovviamente. Ma quale responsabilità potevano portare i bambini uccisi a Baghdad e a Bassora e le altre decine di migliaia uccisi dai bombardieri americani e Nato in Afghanistan, in Iraq, in Libia?

Certo, in questi macabri conteggi, c’è un’indubbia differenza fra i bambini uccisi a Manchester e i bambini uccisi dai bombardieri americani e Nato. L’attentatore jihadista di Manchester e i suoi complici (perché tutto fa pensare che questa volta non si tratti di un ‘lupo solitario’ ma di una cellula incistata sul suolo britannico) non solo sapevano che avrebbero ucciso dei bambini ma volevano uccidere dei bambini. I piloti, e anche i non piloti nel caso dei droni, americani e Nato non volevano premeditatamente uccidere dei bambini, anche se sapevano che li avrebbero inevitabilmente uccisi e in una misura molto maggiore di quella che può fare un kamikaze. Gli jihadisti non fanno differenze. Noi occidentali qualche differenza la facciamo ancora. In questa orribile ‘guerra asimmetrica’ c’è in questa differenza il solo punto di vantaggio a nostro favore, sul piano morale, rispetto alla jihad.

Sul Foglio Giuliano Ferrara, questo acrobata professionale nel manipolare i fatti, scrive: “Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati…E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio”. Ferrara riprende in toto, quasi aggravandola, la teoria di George W. Bush: esportare la democrazia con la violenza. Questo irresponsabile individuo sembra non rendersi conto, non so se volutamente o meno, che proprio da questa esportazione violenta della democrazia, in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Libia, è nata la guerra che oggi ci contrappone non solo all’Isis ma, sia pure in forme diverse, all’intero mondo musulmano e anche a quei pochi altri mondi che ci sono restati estranei. Gli effetti devastanti, sia nelle terre arabe che nelle nostre, della ‘teoria Bush’ sono sotto gli occhi di tutti. Ma non di quelli di Ferrara. Che, pare capire (“con una violenza incomparabilmente superiore”), non sarebbe alieno da gettare qualche atomica sul “mondo della violenza e dell’odio”.

Mi piacerebbe anche capire come “l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace” si concili, per fare un esempio recente, con le armi che Trump si appresta a fornire nella misura di 120 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, secondo l’accordo firmato l’altro giorno a Riad.

Questo totalitarismo della violenza, dell’odio, dell’orrore non appartiene solo agli jihadisti, appartiene anche a noi. Anzi siamo stati proprio noi, ubbriacati e resi irresponsabili dalla nostra apparente superiorità militare, a provocarlo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2017