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Non capisco in base a quale diritto la magistratura possa intervenire nei fatti interni di un partito o movimento che sia, e in particolare sui criteri con cui intende selezionare i suoi candidati alle elezioni, com’è avvenuto in Sicilia dove il giudice del Tribunale di Palermo Claudia Spiga ha sospeso l’esito delle cosiddette ‘Regionarie’ dei Cinque Stelle. I partiti, come ho scritto seimila volte, sono delle associazioni private non diversamente da una bocciofila o da un Club dei tifosi del Toro, che al loro interno si danno le regole che più gli pare e piace. A differenza di ciò che scrive Francesco Verderami sul Corriere della Sera non esiste nessun “dettato costituzionale che impone di disciplinare la vita dei partiti”. La Costituzione si occupa dei partiti in un solo articolo, il 49, che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico e determinare la politica nazionale”. Punto e basta.

L’equivoco è sempre lo stesso: queste associazioni private col tempo hanno occupato tutte le istituzioni e i meccanismi della democrazia debordando ampiamente dalla funzione che gli affida la Costituzione. Il problema non è quello di regolare la loro vita interna, il problema sono i partiti stessi. I grandi teorici della democrazia liberale, da Stuart Mill a John Locke, non prevedevano la presenza dei partiti. E come nota Max Weber fino al 1920 nessuna Costituzione liberal democratica li nominava né li prendeva in considerazione. E si capisce bene il perché. I partiti non sono altro che delle lobbies, spesso malavitose o semimalavitose, che ledono il cardine del pensiero liberale che voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità del singolo individuo che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia se esistesse davvero, e che invece ne diventa la vittima designata, conculcato e oppresso com’è da queste lobbies. Se non si associa a un partito (e non c’è bisogno della tessera, basta un legame di tipo intrinsecamente mafioso) il cittadino singolarmente preso avrà vita durissima dovendo combattere da solo contro le centinaia di migliaia, i milioni, di affiliati. La scuola elitista italiana dei primi del Novecento (Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca) l’ha chiarito in modo esemplare. Scrive Mosca ne La classe politica: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. I partiti non sono l’essenza della democrazia liberale, come si dice sempre, ne segnano la fine.

Il Capo della polizia Franco Gabrielli ha dichiarato che vieterà la ‘marcia su Roma’ che Forza Nuova intende organizzare per il 28 ottobre, anniversario di quella mussoliniana. Se c’è un movimento che ci è particolarmente odioso è Forza Nuova, cattolico, papalino, baciapile, beghino, tradizionalista, ma il verboten di Gabrielli è del tutto illiberale. Come, anche qui, abbiamo già scritto seimila volte, in una democrazia liberale tutte le idee, anche quelle che in un determinato contesto storico paiono aberranti, hanno diritto di cittadinanza e di manifestarsi. Pacificamente. Perché l’unico discrimine è che nessuna idea, cattiva o buona che sia, può essere fatta valere con la violenza.

In realtà una ‘marcia su Roma’ non dovrebbe essere prerogativa di un movimento ridicolo come Forza Nuova. Dovrebbero essere i cittadini, vessati in tutti i modi da una democrazia che è solo la parodia di sé stessa, a marciare su Roma. Per abbattere la partitocrazia, che è il vero cancro di una democrazia autenticamente liberale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2017