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Adesso che è finita la tragicommedia del governo, che di per sé sola dice di che pasta sia fatta in realtà la democrazia (trucchi, imbrogli, agguati, imboscate, menzogne, ricatti), col nano malefico che si è fatto da parte (apparentemente perché dai nani c’è sempre da attendersi il peggio per la fisiologica ragione, come scrisse Gianna Preda di Fanfani, che “hanno il cuore troppo vicino al buco del culo”) possiamo riprendere a parlare di cose serie. Di calcio.

Anche la Nazionale, come la nostra politica, non se la passa bene. Non è riuscita ad andare ai Mondiali. Ci sarebbe da stupirsi del contrario. Le squadre di A e anche di B sono zeppe di stranieri, spagnoli, brasiliani, argentini, colombiani, marocchini, egiziani e persino coreani del Nord (robb de matt) ma soprattutto serbi, croati, bosniaci che se ci fosse ancora la cara, vecchia e mai troppo rimpianta Jugoslavia formerebbero la Nazionale più forte del mondo. Il bacino in cui può pescare il nostro Ct, si tratti di Mancini o di chi l’ha preceduto, è estremamente ridotto. Ma anche le altre nazioni europee, a livello di club, non è che siano un granché. Il Barca, dopo il ritiro di Xavi e l’inesorabile declino di Iniesta, non è più quello. Il Madrid non è una squadra ma un insieme di singoli, alcuni anche scarsi. Il Bayern è il peggior Bayern della sua storia. Il Paris Saint-Germain, che ha speso una follia per Neymar (240 milioni) sottraendolo al Barcellona dove era inutile (molto meglio ‘Pedrito’ che adesso gioca nel Chelsea) non riesce ad emergere perché Edison Cavani non è mai diventato Van Nistelrooy, il suo idolo giovanile. Rimangono i velocissimi ragazzini del Liverpool che il 26 maggio, a Kiev, nella finale infilzeranno il borioso ed eternamente aiutato Real (puntate e vi sarà dato).

Ma la questione non è questa. Ci si diverte anche a vedere giocare gli scarsi. I problemi veri nascono altrove.

In Italia dal 1982, anno dell’introduzione del ‘terzo straniero’, il calcio da stadio ha perso il 40% degli spettatori. Chiunque abbia masticato calcio (e nella mia generazione lo abbiamo fatto tutti –tranne Mughini che preferiva le parallele- perché lo sci lo conosceva solo chi stava in montagna, il tennis era uno sport da ricchi o per raccattapalle, il basket era troppo americano) sa che differenza ci sia, dal punto di vista dell’atmosfera ambientale ma anche tecnico, fra il vedere una partita allo stadio e vederla in Tv.

Per ragioni televisive, quindi economiche, il calcio è stato spalmato sull’intera settimana e in ore diverse: venerdì ci sono gli anticipi di B, il sabato la B e due anticipi di A, al mezzogiorno della domenica una partita di cartello, il pomeriggio, alle tre, giocano gli sfigati, alle 18 e 30 altra partita, alle 20 e 45 il clou. Il lunedì il posticipo di A (addio, fra l’altro, al subrito della schedina giocata sabato al bar con gli amici). Al martedì e mercoledì la Champions che ha sostituito la Coppa dei Campioni (giocata, ad eliminazione diretta, solo dalle vincitrici dei rispettivi campionati europei) per poterla organizzare a gironi e quindi più partite, molte delle quali inutili, più televisione, più quattrini. Al giovedì la ridicola Europa League, ma son quattrini anche quelli. Un’abbuffata che stroncherebbe anche il più focoso degli amanti.

Squadre con dieci e anche undici stranieri, giocatori che, in un giro di valzer vorticoso, cambiano società ogni anno per fame di ‘novità’ (e spesso sono dei brocchi inguardabili) e anche durante la stagione, con tanti saluti alla regolarità del Campionato, per esigenze degli sponsor maglie diverse da quelle tradizionali, se la squadra gioca in trasferta, forsennata e costosa politica degli abbonamenti (denaro che arriva in anticipo) che schiaccia i ragazzi dietro le porte e nelle curve dove si vede poco o nulla ai quali quindi interessa tutto tranne il gioco e, raggruppati insieme, diventano dei teppisti di cui poi ipocritamente ci si lamenta.

L’economico (e anche la tecnologia, il famigerato Var) ha svuotato il calcio dei suoi contenuti identitari, rituali, mitici, simbolici, sentimentali che, al di là del gioco e dello spettacolo, hanno fatto la fortuna secolare di questo sport nazional popolare: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli ‘anziani’ e i giovani del vivaio e della Primavera.

Inoltre, ed è forse la cosa più grave, il calcio ha perso la sua funzione sociale, di sport interclassista dove allo stadio si trovavano insieme, fianco a fianco, tutti, l’imprenditore e il suo operaio, il manager e l’impiegato, l’artigiano e il suo ricco cliente.

Oggi nel calcio circolano cifre enormi e spropositate, per i giocatori, gli allenatori, i direttori tecnici, i procuratori. E naturalmente per i grandi network televisivi. Proprio in questi giorni MediaPro, Mediaset e Sky si stanno scannando con cifre che superano il miliardo di euro per i diritti televisivi della serie A.

Nel 1982, dopo l’introduzione del ‘terzo straniero’, scrissi per Il Giorno un articolo in cui dicevo che il calcio, ridotto da sport sul campo alla dimensione di uno spettacolino televisivo, che come tale, fra una telefonata al cellulare e l’altra, una visita al frigo, la moglie che rompe, perde quella concentrazione che in un rito (perché il calcio è innanzitutto rito) deve essere assoluta e quindi man mano interesse, sarebbe andato fatalmente a morire. E così sarà. Morirà per overdose. Come tutto il resto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2018