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Mentre i più importanti giornali erano impegnati a scovare anche il più piccolo granello di sabbia nell’ingranaggio dell’alleanza fra Cinque Stelle e Lega e poi a fare le pulci al ‘decretone’ del governo, di cui Conte, Di Maio, Salvini si dimostravano giustamente orgogliosi, a me il fatto più grave, e anche impressionante, è sembrato l’incriminazione di 15 magistrati calabresi (15) da parte della Procura di Salerno per reati che vanno dalla corruzione alla corruzione in atti giudiziari al favoreggiamento mafioso.

Durante il Fascismo la Magistratura ordinaria fu incorruttibile. Tanto che il Regime dovette inventarsi i Tribunali Speciali per giudicare i reati politici, soprattutto quelli di opinione di cui il Codice di Alfredo Rocco, che era un grande giurista ma pur sempre un fascista, era zeppo. Nel dopoguerra, dopo gli anni dello slancio della ricostruzione e una classe politica che si era temprata in quel conflitto, cominciò a insinuarsi nelle nostre élites, chiamiamole così, il tarlo della corruzione. E la Magistratura, o almeno una parte di essa, fu connivente. Il Tribunale di Roma veniva chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiare le inchieste che avrebbero potuto rivelarsi insidiose per ‘lorsignori’. E a Milano, col Procuratore generale Carmelo Spagnuolo, gran frequentatore di bische, le cose non andavano tanto meglio. Ai Procuratori generali o ai Procuratori capo era facile tagliare le unghie ai Pm fastidiosi: avocavano a sé le inchieste e non se ne sapeva più nulla. Successivamente, con il Pci che si era consociato col Potere, divenne praticamente impossibile indagare sulla corruzione dilagante e sistematica fra i politici e gli imprenditori. Perché mancava l’opposizione.

Il crollo dell’Urss, nel 1989, cambiò completamente la prospettiva. Il pericolo sovietico non esisteva più, la DC divenne meno indispensabile in funzione anticomunista (il “turatevi il naso” di Montanelli) e molti voti in libera uscita andarono alla Lega, che sarà stata anche ‘brutta, sporca e cattiva’ (per me non lo era affatto) ma era una vera forza di opposizione con la quale bisognava fare i conti e non si poteva più dilapidare allegramente, a proprio uso e consumo, il denaro dei cittadini (Giuliano Cazzola ha calcolato che la corruzione fino al 1992 ci è costata circa un quarto dell’attuale debito pubblico, stima abbondantemente per difetto perché tiene conto solo dei reati corruttivi scoperti che sono in genere, come per tutti gli altri reati, un decimo di quelli effettivamente commessi). La presenza della Lega liberò le mani alla Magistratura e nacque Mani Pulite con lo straordinario pool dei Pm di Milano, alcuni dei quali ricordati da Marco Travaglio nel suo editoriale del 17/1. Non capisco però perché Marco si sia dimenticato nei polpastrelli Antonio Di Pietro che di Mani Pulite fu il motore e che nel biennio 1992-94 veniva osannato da tutti, soprattutto da chi aveva la coda di paglia (famoso e imperituro, mi dispiace per lui, rimane un editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, intitolato “Dieci domande a Tonino” come se ci avesse mangiato insieme, fin da ragazzo, a Montenero di Bisaccia). Io distinguo le persone fra quelle che hanno una percezione positiva di Di Pietro e quelle che lo hanno odiato fin dall’inizio (“Di Pietro è un uomo che mi fa orrore”, Berlusconi) e tuttora lo odiano, perché si può star certi, o quasi, che questi ultimi hanno qualcosa di losco da nascondere. Parlo naturalmente del Di Pietro magistrato, il politico, ingenuo, pare aver smarrito quella furbizia contadina (“che ci azzecca?”) che gli permise a suo tempo di mettere nel sacco gli indagati e il loro truffaldino politichese. Mi spiace comunque che oggi i magistrati o gli ex magistrati di Mani Pulite, con l’eccezione di quel gran signore che è Francesco Saverio Borrelli, abbiano isolato umanamente Di Pietro. Mi pare una brutta storia di razzismo sociale.

Passarono pochissimi anni e, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, ‘lorsignori’, sostenuti da quasi tutta la stampa, riuscirono, con un gioco delle tre tavolette, a capovolgere le carte in tavola: i veri colpevoli divennero i giudici, le vittime i ladri, assurti, spesso, a giudici dei loro giudici.

Era ovvio che con un simile, incoraggiante, precedente la corruzione esplodesse coinvolgendo tutti i settori della vita pubblica e privata, normali cittadini compresi. Ma se le inchieste della Procura di Salerno dovessero essere confermate l’effetto sarebbe devastante. Una corruzione così ampia all’interno della Magistratura, massimo organo di garanzia in uno Stato di diritto, minerebbe alla radice la fiducia dei cittadini di essere uguali almeno davanti alla legge e significherebbe che questo Paese è marcio fino al midollo. E si potrebbe dire, parafrasando un antico e famoso titolo dell’Espresso: “Magistratura corrotta, Nazione infetta”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2019