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Una sera – era la fine dei Settanta – ero andato al circolo De Amicis, un feudo di Aldo Aniasi, il sindaco socialista di Milano. Erano anni di passioni e di tensioni ideologiche e la piccola sede del Circolo era stracolma. Seduto nelle prime file avevo visto Gianni Brera e lo avevo salutato. Si parlava di politica, naturalmente. Irruppe un gruppo di extraparlamentari che contestavano il sindaco, il De Amicis, i socialisti, tutto. Ne nacque un violento tafferuglio. Scorsi Brera che cercava di scantonare, di scappare dal parapiglia. Ma intrappolato fra la gente che si prendeva a cazzotti non riusciva a venirne fuori. Lo raggiunsi e lo presi sotto il braccio. Era pallidissimo. Balbettava: “Non mi piace, non mi piace”. Riuscii a portarlo fuori. Ci fermammo sul marciapiede. Se ne stava in silenzio, a capo chino. Capii che si sentiva umiliato.

Brera, come molti uomini della sua generazione, che hanno attraversato il fascismo e la guerra, aveva avuto una vita abbastanza avventurosa. Fascista, giovanissimo, era stato catturato dai partigiani e stava per essere messo al muro. Ma il comandante della Brigata, Nino Seniga, il mio buon, vecchio e caro Nino, un ebreo di grande coraggio e altrettanta umanità, disse che non si poteva fucilare un ragazzo di vent’anni: “Teniamolo con noi e mettiamolo alla prova”. Così Brera divenne partigiano.

Alle cinque del mattino di parecchi anni dopo (mi pare fosse il 1954) Brera, giornalista già famoso, sentì suonare insistentemente alla porta. Andò ad aprire in pigiama. E si trovò davanti Nino Seniga, l’uomo che gli aveva salvato la vita. Quella notte Seniga, segretario personale di Togliatti, era fuggito portandosi via parte della cassa del Pci. I motivi erano politici. Dopo le denunce di Camus, e di altri, sui lager di Stalin, che avevano scosso la Francia e l’Europa, si era reso conto degli orrori del “socialismo reale” e del comunismo sovietico e, di riflesso, delle ributtanti complicità, menzogne e ipocrisie di quello italiano, a cominciare dal suo leader, “il Migliore”. E aveva deciso di filarsela. Con la cassa. Quei soldi non li usò mai per sé. Se ne servì per mettere in piedi una piccola casa editrice di ispirazione anarco-socialista. Viveva in un modestissimo appartamento in via Dogana con la moglie Anita Galiussi, una ‘figlia del partito’ che era stata educata nelle scuole politiche di Mosca, e l’unico figlio.

Quella mattina Seniga veniva a chiedere a Brera di ricambiargli l’antico favore: doveva nasconderlo. Col Pci di allora scherzetti del genere potevano costare la pelle. Brera, rischiando qualcosa, lo tenne in casa sua per qualche tempo. Poi Seniga riparò in Svizzera dove restò un paio d’anni, aspettando che sbollissero le acque.

Gianni Brera ne aveva dunque viste e passate tante e da giovane era stato sicuramente un uomo coraggioso. Ma quella sera, al De Amicis, non aveva più vent’anni, ne aveva quasi sessanta, ed era bastata una semplice zuffa per metterlo in grande agitazione.

Massimo Fini. Da Ragazzo. Storia di una vecchiaia

Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2019