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Quello che si respira nell’aria non è solo il Coronavirus, ma una paura collettiva, alimentata anche dall’immagine spettrale della città, deserta, metafisica come in un quadro di Savinio e di De Chirico o in un qualche romanzo di fantascienza. E c’è il modo sordido di questo morire, monitorizzati, intubati, oggetti, senza la possibilità che la salma del ‘caro estinto’ sia vegliata e portata a quella che pudicamente viene chiamata ‘l’ultima dimora’ da coloro che gli hanno voluto bene (quest’ultima cosa non mi riguarda, non credo che l’anima, se mai esiste, continui ad albergare nel corpo, se ne andrà altrove come narra Alberto Savinio in un bellissimo racconto raccolto nel libro Tutta la vita intitolato appunto “Anima”).

Ghiacciai che si sciolgono, foreste che scompaiono, le barriere coralline che perdono il loro colore per sbiadirsi progressivamente. Si respira un’atmosfera da fine del mondo, di un certo mondo, quello creato, con l’ottuso ottimismo di Candide, dall’uomo occidentale negli ultimi due secoli e che ha invaso ormai quasi l’intero pianeta. Ma non è la fine del mondo, di questo mondo, ne è solo una inevitabile anticipazione, perché le crescite esponenziali su cui si basa, e che gli uomini politici continuano stolidamente a cavalcare, esistono in matematica non in natura e alla fine l’attuale modello di sviluppo collasserà su se stesso. Si salverà la gente di campagna o chi, anticipando gli altri, vi si sarà ritirato, avrà imparato a lavorare di zappa, a mungere una mucca e si sarà provvidenzialmente provvisto di un paio di kalashnikov. Si salveranno le comunità autoctone, gli indigeni delle Isole Andamane che sfuggirono allo tsunami e cacciarono a colpi di freccia l’elicottero indiano che veniva ad accertare quel che ne era di loro, si salveranno gli indios dell’Amazzonia che nessun Bolsonaro potrà abbattere con le sue armi modernissime perché non ci sarà più nulla per alimentarle. Si salveranno insomma i “disconnessi”.

Ma potrebbe anche andare diversamente. Finalmente rinsaviti ci convinceremo a fare parecchi passi indietro abbandonando un mondo che, anche in situazione normale, rulla a un ritmo che ci fa basculare fra nevrosi e depressione, la nevrosi di chi cerca di starne al passo, la depressione di chi non ci riesce, si sente inadeguato e inesorabilmente tagliato fuori.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2020