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Once upon a time l’editore ‘puro’ che aveva come oggetto in ditta la vendita di giornali e libri, nient’altro. Ai miei tempi quando entrai in giornalismo, nei primi anni Settanta, gli ‘editori puri’ più importanti erano Rizzoli e Mondadori. Arrivai in Rizzoli, all’Europeo, nel 1972 quando Angelo Rizzoli senior, il fondatore della Casa editrice, era morto da due anni. Di lui si raccontavano storie leggendarie.

Figlio letteralmente di nessuno, era un ‘martinitt’, si era fatto da solo. Certamente anche a lui, da buon milanese, piaceva fare i danee,  ma aveva quello spirito umanistico che apparteneva alla buona borghesia del Nord, ad Adriano Olivetti, a Leopoldo Pirelli  e persino ai Crespi. Poiché non aveva avuto modo di farsi alcuna cultura, diceva ”quel Tolstoj lì che sarebbe poi il Dostoevskij”, aveva voluto che anche i poveri potessero farsela creando la Bur, una collana di grandi classici, a 50 lire a volume, su cui tutta la mia generazione si è formata. Non sapeva di cultura ma, a differenza di suo nipote Angelo junior, sapeva scegliersi i collaboratori che è la vera qualità dell’imprenditore. Affidò la Bur a Paolo Lecaldano. Fu un grande successo, ma naturalmente a prezzi così stracciati la Rizzoli ci perdeva, anche se lui non voleva ammetterlo (tanto che, morto Angelo, la Rizzoli fu costretta ad appiccicare materialmente su ogni volume un sovraprezzo, per esempio Il libro della norma di Lao-Tse fu portato a 100 lire).

Quegli imprenditori a differenza dei manager d’oggidì erano anche degli uomini, conservavano il gusto dello scherzo e della burla. Nel 1959 Arturo Tofanelli, il mitico editore-direttore di Tempo Illustrato, il primo settimanale italiano a colori, si trovò in mano il ‘pacchetto’ della Dolce vita. Ne capiva l’importanza, ma non aveva i 200 milioni per produrlo. Andò da Angelo Rizzoli e gli propose di fare a metà. “A metà no, disse Angelo, solo io”. Tofanelli, che aveva una moglie e una mezza dozzina di amanti, si girò e rigirò per qualche notte nel letto poi cedette. La Dolce vita ebbe il successo che tutti conosciamo. Mi raccontò Tofanelli: “Ogni volta che incontravo Rizzoli, in treno o in aereo, per andare a Roma, lui dopo un po’ tirava fuori dal taschino un rotolino di carta, lo svolgeva e mi diceva: caro Arturo, alla data odierna i vostri mancati guadagni ammontano a…”.

Ma sul lavoro quegli imprenditori non scherzavano affatto. Mi ha raccontato Angelo Rizzoli junior: “Un venerdì pomeriggio, saranno state le quattro, mi affaccio all’ufficio di mio nonno e gli dico: cumenda, lo chiamavamo così anche in casa, vorrei partire adesso per Saint Moritz perché se lo faccio più tardi trovo tutta la coda. Se credi di poter andar via un’ora prima degli altri, mi rispose, puoi anche non ripresentarti lunedì”.

Ad Angelo senior succedette il figlio Andrea e fu l’inizio del disastro. Andrea era un brav’uomo (quando ti incontrava nei corridoi, a differenza dei manager che vennero dopo, ti salutava e faceva anche finta di aver letto il tuo ultimo pezzo), mite, fisicamente fragile (quando ebbe il primo infarto Angelo senior, che era ormai vicino agli ottanta, andò dal medico e chiese stupito: “Ma può capitare anche a me?”) ma soprattutto sodomizzato da tanto padre che gli dava del “cretino” in pubblico, anche davanti alle maestranze. Il sogno di Angelo Rizzoli senior, che aveva sempre editato solo settimanali, era di fondare un quotidiano. Ne aveva già trovato il titolo “Oggi. Il quotidiano di domani”, che ha campeggiato per anni in via Civitavecchia oggi via Rizzoli, e il direttore Gaetano Afeltra. Ma alla fine si era reso conto che non c’era lo spazio. Il figlio Andrea per spirito di rivincita nei confronti di quel padre ingombrante decise che la Rizzoli doveva avere un quotidiano e comprò il Corriere della Sera. I Rizzoli non erano attrezzati, politicamente e psicologicamente, per un colosso come il Corriere dove avere agganci col potere è fondamentale. Il direttore del più importante settimanale della casa, l’Europeo, Tommaso Giglio, non aveva e non voleva avere contatti con i politici, e per la verità con nessuno, quando fu invitato a Roma da Gianni Agnelli si rifiutò di andarci perché avrebbe dovuto prendere l’aereo (era un tipo stranissimo, non si muoveva mai dal suo ufficio, ma sapeva tutto, viveva di carta stampata che divorava a quintali). Così quando in Rizzoli ci fu uno sciopero non erano nemmeno in grado di telefonare a Luciano Lama. Affidarono l’incombenza all’ultimo scagnozzo della redazione romana.

Nel frattempo alla Rizzoli era cominciata l’ascesa, come direttore finanziario, di Bruno Tassan Din. Con mia grande sorpresa. Tassan Din lo avevo conosciuto anni prima in tutt’altro contesto. Una sera il mio ‘compagno di merende’, Diego, col quale andavo un giorno sì e un giorno no a Campione, mi disse: “C’è anche il fidanzato di mia sorella, si chiama Bruno”. Andammo a prenderlo a casa. Alla frontiera il coglione non aveva né la carta d’identità né il passaporto. Tassan Din, che era allora direttore finanziario della Fidenza Vetraria, si comportò nel classico modo all’italiana: “Lei non sa chi sono io!”. Ma con i doganieri svizzeri questi metodi non funzionano. Dovemmo ritornare a Milano per prendere i documenti. Finalmente al Casinò, mi accorsi che Tassan Din guardava con un certo stupore il volume di gioco che facevamo Diego e io, naturalmente allo chemin. Lui azzardava qualche puntatina alla roulette. Sarebbe diventato molto più disinvolto con i quattrini degli altri.

La tattica di Tassan Din alla Fidenza Vetraria era stata quella di occupare la stanza più vicina al Capo per carpirne i segreti e ricattarlo. Ma con Cefis e simili queste manovre infantili non funzionavano. La tattica gli riuscì in Rizzoli approfittando delle debolezze di Angelo junior. Angelo aveva avuto un’adolescenza e una giovinezza difficili. Era brutto, così grasso che quando camminava i pantaloni di vigogna scricchiavano e i compagni del Berchet, dove c’ero anch’io, lo chiamavano “coscia rovente”. A quell’epoca Andrea, il padre di Angelo, era proprietario del Milan. Noi ci facevamo dare da Angelo i campi, le magliette, le scarpe, ma di giocare non era neanche da parlarne, lo avevamo nominato DT ma in realtà la squadra la faceva il capitano, un certo Guerrero un bel ragazzo biondo. Insomma un’umiliazione dopo l’altra, cui si aggiungeva una leggera zoppia dovuta alla sclerosi multipla. Nel 1960 mio padre fu invitato, insieme ad altri direttori di giornale, da Angelo Rizzoli senior che li ospitava all’Hotel Regina Isabella di Ischia, di sua proprietà. Mio padre avrebbe voluto che lo accompagnassi, così avrei conosciuto persone importanti, ma quell’estate io stavo ai Bagni Umberto di Savona e filavo con la più bella ragazzina della spiaggia, Anna, e col cavolo che ci andavo a Ischia. Quando ritornò mio padre mi raccontò di quel ragazzo strano, solitario, che non socializzava con nessuno. Si diceva avesse un tumore.

Angelo che aveva già delle gravi difficoltà con le ragazze doveva anche subire Ljuba Rosa, la matrigna, la seconda moglie di Andrea, che si intrometteva nelle sue conversazioni telefoniche e le interrompeva. Tassan Din si era assunto il compito di procurargli le ragazze. Ma come visto che Tassan Din, col suo aspetto meschinetto di allora, di donne per le mani non ne aveva? Si faceva forte del nome di Rizzoli. Ma Angelo non avrebbe potuto farlo in conto proprio? No, era troppo timido, troppo introverso. Il riscatto avverrà con Eleonora Giorgi. Si conobbero a una festa a Roma. “Restammo a parlare tutta la notte, fu l’incontro di due dolori” mi raccontò Eleonora. Non è affatto vera la storia, raccontata dalle gazzette, dell’attrice che sposa il produttore cinematografico per interesse. La loro è stata una vera storia d’amore, ma arrivava troppo tardi. La Rizzoli stava già cadendo a pezzi, spolpata da Tassan Din che nel frattempo era diventato, per non si sa quali meriti, ‘socio d’opera’ con il 10,2% nella disponibilità della Fincoriz Sas di Bruno Tassan Din & C, decisivo quel 10,2% perché ago della bilancia fra il 40% di Rizzoli e il 40% di Calvi. Comprava giornali a manetta sia per aumentare il suo potere personale sia per indebitare sempre più Angelo, con la complicità del sindacato, perché il patto era che non avrebbe licenziato nessuno. Tutti rubavano in quella Rizzoli, anche nomi famosissimi cui venivano affidate consulenze farsa ma milionarie. Finché anche Angelo Rizzoli decise di rubare a se stesso e finì in galera. Così andavano le cose. Ma arriva il colpo di fulmine: la Guardia di Finanza il 17 marzo dell’81 perquisisce la villa di Gelli a Castiglion Fibocchi e trova le liste della P2. Con una certa sorpresa scoprimmo che il vero potere non stava né a Torino né a Milano né nella Roma ufficiale ma a Castiglion Fibocchi o all’Hotel Excelsior dove svernava Gelli che tutti, veramente tutti, andavano a omaggiare, una volta anche Indro Montanelli. Che Tassan Din fosse nelle liste della P2, insieme ad altri importanti personaggi, Franco Di Bella, direttore del Corriere, Maurizio Costanzo, Silvio Berlusconi, non era sufficiente per affermare che la P2 era la vera proprietaria del Gruppo Rizzoli-Corriere. Il busillis, su cui tutti si assillavano, poteva essere risolto solo individuando i misteriosi “& C” della Fincoriz. Fui io a farlo. Per pura induzione logica arrivai alla conclusione che gli “& C” fossero Gelli, Ortolani e Calvi e lo scrissi sul Giorno: “Corriere: il 10,2% di Tassan Din (?) è il vero mistero”, 13.1.1982. Tassan Din mi querelò per 50 miliardi. Il caso volle che pochi giorni dopo entrassi in possesso di un documento che spazzava via ogni dubbio. Mi ero recato nello studio di Gaetano Pecorella, allora avvocato di Tassan Din, col quale avevo buoni rapporti perché, assistente di Pisapia, aveva curato la mia tesi. Non ero lì per ragioni professionali, ma personali: mi stavo separando da mia moglie e volevo qualche consiglio. Ad un certo punto Pecorella si alzò, uscì dallo studio e restò fuori dieci minuti. Proprio davanti a me c’era una cartellina azzurra. La aprii: era un documento segreto del 18 aprile del 1980 in cui Angelo Rizzoli si impegnava a “mettere a disposizione di società indicata dall’Istituzione (l’”Istituzione” nel linguaggio di Gelli era la P2, ndr) numero 918.000 nuove azioni pari al 10,2% del nuovo capitale”. Il 10,2% risultava a sua volta suddiviso in quattro quote del 2,55% intestate a Gelli, Ortolani, Calvi e Tassan Din. Se fossero esistiti gli smartphone mi sarebbe stato sufficiente fare una foto, invece con velocità da stenografo copiai tutto e lo pubblicai sul Giorno del 26 gennaio ’82 in un articolo intitolato “Tassan Din è l’uomo della P2 nel Corriere”. Tassan Din non fiatò più e della querela si perse ogni traccia. Ma la storia non finisce qui. Con la pubblicazione delle liste della P2 fatta dal governo Forlani il 20 maggio del 1980 Gelli e Ortolani sono costretti a fuggire dall’Italia e dall’estero non possono far valere il patto segreto. Tassan Din era stato fino ad allora solo il prestanome  di Gelli e Ortolani nel Gruppo Rizzoli-Corriere, ma adesso, nella sua testa, comincia a balenare l’idea di liberarsi dell’antico servaggio nei confronti dei due e di diventare lui, finalmente, in prima persona, il vero padrone del Gruppo Rizzoli-Corriere. Tanto che ho il sospetto, solo il sospetto, che sia stato proprio Tassan Din a fare la soffiata alla Guardia di Finanza (e questo spiegherebbe il singolare comportamento di Pecorella che per dieci minuti mi lascia da solo davanti a quella cartellina azzurra che conteneva il ‘mistero’). Fatto sta che scaricati Gelli e Ortolani (“Bruno non è più quello di una volta” dirà Gelli in una famosa telefonata intercettata dalla polizia) Tassan Din cambia completamente la strategia del Gruppo. Adesso i soldi sono suoi o almeno così si illude. E quando i soldi sono suoi Tassan Din non scherza. Sono di questo periodo le chiusure dell’Occhio e dell’Informazione e un progetto di drastica riduzione del personale oltre che di altre testate in passivo. Ma, crollata la P2, Tassan Din ha bisogno di qualche appoggio. Lo cerca e lo trova nel Pci tramite il sindacato dei giornalisti del Corriere che dal Pci era controllato attraverso Raffaele Fiengo. Lo conferma lo stesso Tassan Din in una lettera che scriverà a Feltri, per il Giornale, molti anni dopo, nell’ottobre del 1994. Ma di questa conferma non c’era alcun bisogno. Che il sindacato del Corriere, guidato allora da Raffaele Fiengo, fosse la cinghia di trasmissione del Pci lo ha detto la storia di quegli anni. Io posso aggiungere un curioso particolare di cronaca. Nel giugno dell’81 si tenne a Bari il Congresso nazionale della Stampa. Io vi partecipavo come delegato di Stampa Democratica. Il primo giorno c’erano tutti i capataz del sindacato tranne, curiosamente, Fiengo. Nel primo pomeriggio, già stufo del bla bla sindacalese, rientrai in albergo e mi stesi sul letto per riposare un poco. Il caso volle che, pochi minuti dopo, arrivasse, direttamente dall’aeroporto, anche Fiengo che entrò proprio nella stanza vicino alla mia. Si attaccò subito al telefono. Anche se avessi voluto non avrei potuto non ascoltare perché parlava a voce altissima sicuro che tutti fossero nella sala del Congresso e che in albergo non ci fosse nessun collega. Ma devo confessare che se anche avessi avuto quell’intenzione me la sarei ricacciata in gola dopo aver sentito le prime parole di Fiengo. Parlava di Ronchey e di Cavallari. Erano infatti i giorni in cui si decideva della nomina dell’uno o dell’altro alla direzione del Corriere. Fiengo riferiva al suo interlocutore come fosse riuscito a bloccare la nomina di Ronchey e dava quella di Cavallari come ormai fatta. Dalla conversazione si capiva che Fiengo e il suo interlocutore avevano concertato in precedenza certe mosse. Altre ne prepararono nei lunghi minuti di quella telefonata. Chi era il misterioso interlocutore di Fiengo? Era, come si evinceva senza possibilità di equivoco da tutto il contesto, un esponente di alto livello di Botteghe Oscure.

I piani di Tassan Din andranno in fumo, sarà incarcerato, la Rizzoli finirà in Amministrazione controllata e in seguito verrà comprata per un tozzo di pane dalla Fiat, cosa che roderà sempre il fegato del povero Angelo, il più innocente dei colpevoli.

Montecarlo, primi anni Ottanta. Andrea Rizzoli, ammalato di diabete, giace da anni inerme nel suo letto. Raffaello Gelli, che conobbi negli anni Duemila a Talamone, un bel ragazzo che girava in Rolls décapoté, il primogenito di Licio Gelli, è l’amante di Ljuba Rosa: la moglie di Andrea tradisce il marito col figlio di colui che ha distrutto la Rizzoli. E così si chiude la saga Rizzoli. Come nel Servo di Losey.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2020