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"Io sono figlio di due culture diverse – quella russa e quella italiana – ma anche di una terza cultura, perché quando ho raggiunto l'età della ragione andava molto l'esistenzialismo francese, quindi sono anche figlio di Camus, in un certo senso... Comunque essere un bastardo mi ha sicuramente arricchito. Mi ha dato una visione singolare del mondo".

Riccioli al vento. I capelli in disordine sono il primo tratto distintivo, ciò che forse rappresenta al meglio la sua vita. Disordinata. Una vita piena di vizi, all’insegna dell’eccesso: alcool, tabacco, gioco d’azzardo, divorzi, bestemmie… Si sta parlando del lato umano di Massimo Fini, giornalista e scrittore. Proprio lui che, ormai da decenni, riporta nei suoi libri e nei convegni il monito inciso sul Tempio di Delfi: “Nulla di troppo”. Monito preceduto però dall’esortazione “conosci te stesso”. Ed è infatti quello che oggi cercherò di fare. Conoscere al meglio Massimo Fini attraverso le sue stesse parole, tramite un’intervista intima, per capire se, come e quanto conosca se stesso.

Secondo tratto distintivo: il ghigno beffardo, gettato in faccia all’obiettivo quasi in segno di sfida. Come a dire: nonostante tutto, ce l’ho fatta! Ve l’ho fatta! Sono ancora vivo, e resto qui ad agitare le acque. Acque tutt’altro che limpide. Perché lui, nella sua vita di giornalista, è sempre stato un agitatore. I socialisti che si erano presi la “Milano da bere” lo detestano… Ma, ecco la sorpresa: lui è amico personale di Stefania Craxi, la figlia di Bettino.

Terzo tratto distintivo: la contraddizione. La distanza che divide la sua vita professionale da quella privata fa spavento. Un anarchico che ha condotto – e probabilmente conduce ancora – una vita sregolata, da una parte; dall’altra, un cronista d’assalto pronto a smascherare corruzione e affarismi. Un moralista, insomma. O un giustizialista, se si volesse applicargli un’etichetta. Ma a lui le etichette non piacciono e non gli stanno bene addosso. Anzi, scivolano per terra come olio sul teflon. Ecco però un’altra sorpresa. Il “giustizialista” Massimo Fini nutre grande rispetto per Renato Vallanzasca, il bandito della Comasina, da lui considerato un bandito onesto. Non si riconosce in nessuna fazione, ma ama il calcio e i guerriglieri: tifa per il Toro e ha una maglia che dice “Onore al Mullah Omar”. Le contraddizioni in lui non finiscono mai. Ma non va scambiato per un incoerente; senza contraddizioni non c’è umanità. C’è però una costante evidente nella sua vita: è da sempre un bastiancontrario. Indicategli la direzione in cui tira il vento, lui andrà dalla parte opposta. Una vita controvento, insomma.
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Quarto e ultimo segno distintivo: polemista. E qui è la sua carriera giornalistica a parlare da sola, dall’approdo all’Avanti, passando per L’Europeo, L’Indipendente, Il Borghese, fino all’ingresso al Fatto Quotidiano. Così come i suoi libri. O meglio, i suoi pamphlet – genere polemico per antonomasia. Ha cominciato nell’85 la sua battaglia contro il modello di sviluppo capitalistico con La Ragione aveva torto? e da lì non ha più rinunciato a smascherarne i vizi, svelarne illusioni e inganni, denunciando gli orrori che l’Occidente compie nei confronti del mondo altro. Ha ormai da anni seri problemi di vista. Ma ci ha visto lungo, anticipando di decenni quanto poi nella società è accaduto. Una sorta di orbo-veggente, alla D’Annunzio. Contesta l’Illuminismo utilizzando la Ragione stessa per dimostrarne il torto. Lui, così carnale nella vita: è Dioniso che tende ad Apollo. Sempre un anti-moderno, è con Zeus contro Prometeo. Il furto del fuoco agli dèi è il vero Peccato Originale.

Ma ora arriviamo alla sua reputazione, al ritratto che gli altri hanno fatto di lui. Lo hanno definito in tutti i modi, sbagliando sempre: un fascista, un comunista, un nazista… Proprio lui che è figlio di un liberale antifascista e di un ebrea russa in fuga dal comunismo. Nessuno è mai riuscito a scattargli una foto che non lo ritraesse in maniera sfocata. Ma è proprio lui stesso che ha dato il miglior ritratto di sé: Il ribelle. Dalla A alla Z. È il titolo di un suo libro-dizionario, ma anche quello di un possibile autoritratto. Lì c’è tutto Massimo Fini.

Torniamo quindi alle parole incise sul Tempio di Delfi e che ripete da anni al suo pubblico. “Nulla di troppo”. Detto da lui è veramente troppo. Ora tocca scoprire cosa c’è a separare le due vite di Massimo Fini: quella privata e quella professionale. In mezzo scorre un fiume. E spetta a me scandagliarne il fondo, per capire cosa c’è sotto. Voglio conoscere il ribelle Massimo Fini. Dalla A alla Z. Lui è un inguaribile narcisista, quindi dovrei riuscire nell’impresa: portare a casa una foto finalmente a fuoco, un ritratto definitivo.

Lo chiamo allora al telefono e, una volta accordata l’intervista, gli chiedo: “beve ancora il vino?”. E lui, sulla difensiva: “perché questa domanda insidiosa?”. “Perché volevo portarle una bottiglia di rosso”. “Portala pure allora!”. Eccomi da lui. Milano, quartiere Repubblica. Mi riceve sulla porta con l’immancabile camicia di jeans. Sono in casa. Non manca nulla, tutto come al solito: odore di tabacco ovunque, Olivetti Lettera 32 sul pavimento e ritagli di giornali tutt’intorno. Non poteva certo mancare il famoso divano rosso sdrucito su cui si accomoda per l’intervista. Non apre la bottiglia di vino, anche se mi ringrazia. Mi dice che vuole andarci piano. Il dottore gli ha detto : “tre bicchieri al giorno”, ma si sa come vanno a finire queste cose. Tre bicchieri diventano quattro… meglio evitare, non esagerare. Mai nulla di troppo. Eccomi nella tana.Cominciamo.
Riccioli al vento e ghigno beffardo

Mai nulla di troppo. È la frase che ricorre più spesso nei suoi libri. Eppure Lei ha avuto una vita a dir poco scriteriata, piena di eccessi. Come spiega questa contraddizione? Predica bene e razzola male?

No, il “mai niente di troppo” si riferisce alla società, al modello di sviluppo che abbiamo invocato, che sorpassa continuamente il limite. Il “mai niente di troppo” era inciso sul frontespizio del Tempio di Delfi. Cioè il senso del limite di quella cultura profonda, che è la cultura più profonda che noi abbiamo alle spalle, almeno in Occidente. Per cui ci sono tutta una serie di miti per cui se tu eccedi ti procuri la phthons, l’invidia degli dèi, che poi ti castigano. La frase è attualissima nel senso che, ripeto, noi, sia in campo economico sia in campo scientifico, stiamo andando a violentare in tal modo la Natura – ma non parlo qui del problema ecologico, che è un problema di secondo grado, parlo di noi stessi che ci siamo allontanati così tanto dalla Natura in una maniera tale – che prima o poi pagheremo questo scotto. I greci, con Pitagora e Filolao, avevano la possibilità di fare macchine molto simili alle nostre – non fino agli smartphone – ma non lo fecero, perché capirono che andare a manipolare e replicare la Natura è pericoloso. Per quello che riguarda invece la vita delle singole persone… certo, io confesso che ho vissuto. Abbiamo questo tempo per vivere e io ho cercato di viverlo, diciamo, più pienamente possibile. Non credo a cose del tipo far qualcosa per ammazzare il tempo, quando so benissimo che è il tempo che ammazza te. Ecco, questo cerco di evitarlo.


In vacanza nel Monferrato, nel 2017

In merito alla questione Natura che Lei ha sollevato. La cosiddetta emergenza Covid-19, che ha conseguito la pandemia, è dovuta al fatto che l’uomo ha invaso l’habitat degli animali, non rispettando gli spazi naturali. O almeno questa è la tesi di David Quammen, autore di Spillover, un libro oggi visto come profetico, che spiega come il passaggio di specie del virus, dall’animale all’uomo, avvenga per una serie di motivi legati al mancato rispetto degli spazi naturali. Se ciò non fosse accaduto non ci sarebbe cascata addosso questa pandemia globale.

È ovvio che le epidemie non avvengono a caso. Avvengono quando c’è troppa concentrazione di popolazione o troppa popolazione: noi oggi abbiamo città che sono di quindici milioni di abitanti. Avvengono quando devono sfoltire. Questo è un fatto assolutamente naturale. In merito all’atteggiamento adottato dal nostro governo ­– io ho la mia filosofia, non sono il Presidente del Consiglio – avrei lasciato libero campo. La cosa avrebbe fatto tot morti, non molti più di oggi, e la pandemia se ne sarebbe andata naturalmente. Comprimendola così si ha un effetto molla che poi può, per così dire, rimbalzare e tornare indietro restituendo la forza con cui è stata compressa.

Stacchiamoci dall’attualità e torniamo a parlare di Lei. L’hanno definita in tutti i modi: fascista, comunista, nazista… forse anche antisemita. Qual è l’etichetta che più le è sgradita… se ce n’è una?

Sono tutte sbagliate, ma la più sgradita è antisemita. Io sono figlio di una ebrea, però non accetto, per così dire, le loro leggi razziali, insomma. Ho poi avuto polemiche con la comunità ebraica che mi ha inserito in una sorta di gotha insieme a Hitler e Goebbels. Quindi mi da fastidio. Ma io sono, in un certo senso , trasversale. Non sono né comunista, né fascista, né nazista.


Con Umberto Bossi, nella prima metà degli anni ’90

Lei è infatti figlio di un liberale antifascista, tra l’altro anche giornalista, Benso Fini. Qual era il rapporto che aveva con lui? Cosa vi legava e cosa vi divide?

Ci legava poco perché lui come giornalista era un giornalista del suo tempo. Era un uomo dell’Ottocento, quindi con la rigidità di un uomo dell’Ottocento. Con mio padre non ho avuto nessun rapporto fisico, tranne dei sacrosanti schiaffoni che evidentemente meritavo. Nella mia autobiografia l’ho forse trattato un po’ troppo male. Poi, sai, è morto che io avevo 17 anni, quindi non c’è potuto essere un dialogo effettivo.

E sua madre com’era?

Mia madre era una russa e il rapporto con lei è stato difficilissimo. Io avrei dovuto capire che questa sua scorza molto dura era dovuta al fatto di aver avuto una vita tale che se non avesse avuto questa scorza non sarebbe sopravvissuta. Ma questo l’ho capito un po’ tardi, insomma… Avrei dovuto capirlo prima ma, sai, quando sei nei tuoi trent’anni, nel pieno della vita, è difficile capirlo. Quindi l’ho lasciata molto sola. E oggi me ne pento.

Questo bagaglio storico e famigliare (padre liberale antifascista e madre ebrea russa) quanto ha influito sulla sua vita. È stato un fardello per Lei, oppure la cosa la ha arricchita?

No, è stato fruttuosissimo, perché io sono figlio di due culture diverse – quella russa e quella italiana – ma anche di una terza cultura, perché quando ho raggiunto l’età della ragione andava molto l’esistenzialismo francese, quindi sono anche figlio di Camus, in un certo senso… Comunque essere un bastardo mi ha sicuramente arricchito. Mi ha dato una visione singolare del mondo. Tieni presente che – è importante e io ho potuto farlo – al di là di queste cose di famiglia, col mio lavoro di inviato ho conosciuto culture diversissime. Ed è questo che ti dà il senso della relatività di tutte le cose. Su una cosa però voglio essere preciso, siccome detesto il nepotismo. Mio padre è morto quando io avevo 17 anni, e io sono entrato nel giornalismo dieci anni dopo, in un giornale socialista (L’Avanti!), in cui se avessero saputo chi era mio padre non mi avrebbero preso. Poi ho avuto anche dei vantaggi, naturalmente, perché mio padre veniva a casa con la mazzetta dei giornali, aveva una buona biblioteca, e io mi precipitavo sul Tempo illustrato in cui c’era una bellissima donna in copertina… Ricordo in particolare Ava Gardner. Io frugavo tra i giornali e trovavo, chessò, Il Battibecco di Malaparte. Ho avuto dei vantaggi oggettivi, ma non nel senso che abbia avuto spinte da parte di mio padre.


Intervista ad Amintore Fanfani, fine anni ’70

Cosa pensa che direbbero di Lei i suoi genitori, vedendola oggi?

Mia madre lo so, perché per lei ero sempre rimasto il bambino che voleva fare il tramviere. Perché, sai, a Milano è il tram il vero simbolo, non il Duomo. Per cui, quando le portai il mio libro Il Conformista, con la prefazione di Montanelli, per lei non contava, non c’era nulla da fare. Eppure sapeva benissimo chi era Indro Montanelli. Mio padre credo che sarebbe contento. Perché ha avuto un figlio che andava male a scuola, che prendeva tre in greco… insomma, il peggio da questo punto di vista. E sarebbe contento che da quel casinista che ero ne è uscito qualcosa di un pochino più concreto.

E lei invece, come padre, come si vede?

Mah… giudicare se stessi è difficilissimo e nessuno può vedere la propria nuca. Però io con mio figlio ho un bellissimo rapporto, l’unico problema è che non ci ha mai dato un problema. Abbiamo un ottimo rapporto e ci comprendiamo molto bene. Negli anni poi lui ha assunto un atteggiamento quasi protettivo, atteggiamento che aveva fin da piccolo, nei confronti di questo padre un po’ sciammannato. Oggi questa cosa si è accentuata ulteriormente. Sì, ho detto male dei miei genitori, ma di mio figlio dir male sarebbe veramente molto scorretto.

Ci manca però l’immagine di Lei bambino, al di là dell’accenno al tram di poco fa. Com’era da piccolo? Tranquillo, obbediente, o ribelle fin da allora?

Be’, ti racconto un aneddoto. C’erano i miei che giocavano a carte e io, che avevo tre o quattro anni, ero lì intorno a rompere i coglioni. Allora mio padre: “Massimino, vai in giardino!… Massimino, vai in giardino!” e io niente. Mia madre, che evidentemente aveva capito il tipo che ero, disse: “Massimino, guai a te se vai in giardino!”. E io subito sono andato in giardino. Quindi questa è una cosa che sta nel mio DNA.

Quale immagine conserva della sua infanzia?

La mia è stata una bellissima infanzia, perché vivevo questo mondo magico infantile – in cui tu non sai bene quali sono i rapporti tra le cose – solo tormentato dall’idea che sarebbe finita. C’è una bellissima canzone di Marisa Sannia, si chiama Casa Bianca, che dice: Tutti i bimbi come me/Hanno qualcosa che/Di terror li fa tremar. E la Casa Bianca è la giovinezza.

Un momento della sua vita che Lei ricorda come decisivo, come momento fatale?

Io questa ossessione del tempo l’ho avuta fin da subito. Avevo tre anni, ero lì nel mio lettino e ho sentito un ritmare come di un treno: ciuf, ciuf, ciuf… Mi sono alzato urlando e ho capito che era il mio cuore. E come allora batteva un giorno si sarebbe fermato. Quindi risale agli albori della mia vita. Detto questo, ho avuto un’infanzia in cui me ne stavo chiuso in me stesso perché in casa c’erano mia madre, mia sorella, la domestica (quindi tre donne)… mio padre lavorava e io me ne stavo rinchiuso nel mio mondo di giochi. Le bambine non volevo neanche sapere cosa fossero, perché non giocavano o giocavano a giochi troppo idioti.

Un ricordo invece dell’adolescenza?

Avevo 16 anni ed ero incredibilmente stato promosso, perché io baravo agli esami, intortavo i professori. Quindi vengo promosso, è estate e vado al mare. Mi appoggio a questa balaustra e vedo sulla spiaggia una bellissima ragazzina che si rotola con un moretto con gli occhiali, e io sono pieno di invidia, naturalmente. Il giorno dopo – io non avevo la ragazza –, stavo giocando a poker con dei ragazzi più grandi, dietro le cabine. A un certo punto sento due manine ribalde che si infilano nella mia Lacoste. In quel momento faccio un rilancio, vinco il piatto e uno dei ragazzi, un ventenne di cui ricordo ancora il nome, Giorgio, dice: “guarda, vince e si fa anche ruscare!”. Bene: se fossi morto in quel momento la mia vita sarebbe stata tutta felicità.


A 24 anni

Lasciamo un attimo da parte la sua vita privata e parliamo della sua vita professionale. Si sente più un giornalista o uno scrittore?

Oggi uno scrittore, senz’altro. Ho molti dubbi, sempre più dubbi sul mestiere del giornalista, anche perché– non dico una novità – è degradato in una maniera incredibile. Ci son troppi dilettanti allo sbaraglio. Più di un tempo, perché, per esempio quando io ho iniziato a L’Europeo Rizzoli era un editore puro. Dopo, diciamo, verso la fine dei Settanta, sono entrati i partiti. Sia direttamente che indirettamente, attraverso i sindacati. E questa è stata una prima gravissima degenerazione che poi ha portato al fatto che, appunto, oggi trovare un giornale che sia libero, sul serio, è cosa molto, molto difficile. Devi andare forse sul Web. Oppure possiamo considerare tale il giornale per cui lavoro adesso, Il Fatto Quotidiano, dove la proprietà sono i giornalisti stessi. Un caso raro.

Quindi la sua passione per il poker nasce lì, in quell’estate al mare?

No, la passione per il poker era nata prima. Comunque divenne una passione quasi esclusiva durante tutto il periodo universitario e fino a quando ho cominciato a lavorare seriamente. Noi giocavamo almeno tre volte a settimana. Ci sono miei cari amici che hanno perso la ragazza per il poker, che invece di uscire con lei venivano a giocare. Giocavamo qui in genere, oppure in altri posti, perché poi la posta si è alzava in continuazione. Abbiamo giocato anche con Raul Gardini, senza sapere chi era Raul Gardini, per intenderci. Ma a posteriori potevi capire che avrebbe fatto la fine che ha fatto, perché Gardini non teneva conto che un altro può avere un numero più forte. Perché a poker vinci sui punti medi. Su un punto medio tu devi fare tre volte quello che fa l’altro. Sui punti forti devi stare molto attento, perché puoi incontrare un punto più forte… Purtroppo non fui io a dargli la mazzata. Lo accompagnai alla macchina – lui allora aveva una Benkley. Simpatico ragazzo, comunque. Bel ragazzo.

E il vizio per l’alcool invece, come è nato?

Be’, credo che sia nato senza che io me ne rendessi conto, dopo la morte di mio padre. Lì per lì quella morte non mi aveva fatto nessuna impressione, ma evidentemente ha poi scavato dentro. Tant’è vero che la prima depressione – io ho avuto tre depressioni nella mia vita – viene qualche anno dopo. Montanelli ne ha avute sette, io sono ancora indietro.


In Sicilia per un servizio, metà anni ’70

    Lasciamo un attimo da parte la sua vita privata e parliamo della sua vita professionale. Si sente più un giornalista o uno scrittore?

Oggi uno scrittore, senz’altro. Ho molti dubbi, sempre più dubbi sul mestiere del giornalista, anche perché– non dico una novità – è degradato in una maniera incredibile. Ci son troppi dilettanti allo sbaraglio. Più di un tempo, perché, per esempio quando io ho iniziato a L’Europeo Rizzoli era un editore puro. Dopo, diciamo, verso la fine dei Settanta, sono entrati i partiti. Sia direttamente che indirettamente, attraverso i sindacati. E questa è stata una prima gravissima degenerazione che poi ha portato al fatto che, appunto, oggi trovare un giornale che sia libero, sul serio, è cosa molto, molto difficile. Devi andare forse sul Web. Oppure possiamo considerare tale il giornale per cui lavoro adesso, Il Fatto Quotidiano, dove la proprietà sono i giornalisti stessi. Un caso raro.


Mentre scrive un articolo in vacanza, una ventina di anni fa

     Essendo da sempre un suo lettore, credo che il libro che la rappresenti maggiormente sia Il Ribelle. Dalla A alla Z, anche se ha scritto due autobiografie. A quale dei suoi libri è maggiormente legato e crede che la contenga al meglio?

Dunque, i finiani di stretta osservanza dicono quello che dici tu. Il ribelle. Dalla A alla Z, pur essendo un libro fatto per voci, esprime più compiutamente il mio pensiero, è vero. Il libro a cui sono più legato, che secondo me poi ha miglior qualità di scrittura è Ragazzo. Storia di una vecchiaia, la prima autobiografia, solo lievemente mascherata. Di fatti, il mio narcisismo è fuori dal comune. Perché Ragazzo è una autobiografia, il Di(zion)ario erotico idem, e poi c’è quella ufficiale Una vita. Un libro per tutti. O per nessuno, dove ho dovuto parlare anche fin troppo di giornalismo.

    È un narcisista consapevole allora!

Molto consapevole! [ride]. Il mio narcisismo è indubbiamente una parte importante della mia personalità.

    Quali sono stati i suoi modelli come giornalista?

Come giornalista, innanzitutto Malaparte, che considero il più grande giornalista italiano di tutti i tempi, che rispetto, poniamo ad esempio, a Indro Montanelli aveva un respiro più internazionale e aveva una cosa che nessun giornalista ha nemmeno oggi. Aveva una cultura che potremmo definire visiva, una cultura da storico dell’arte, una cultura figurativa che nessuno oggi ha. Molto simile in questo ad Alberto Savinio, che Breton definì un surrealista.


In redazione all’Europeo con il collega Salvatore Giannella, fine anni ’70

    Come Longanesi, forse…

Ma, vedi, Longanesi è un caso, altro caso molto diverso. Anche se lui e Malaparte sono per certi versi simili, fanno parte della stessa linea, insieme a Flaiano, Prezzolini, Maccari… Un altro modello come giornalista è senz’altro Buzzati, oltre ai già citati. Quella linea di personaggi anti-sistema, diciamo. Ho ricevuto il Premio Montanelli alla carriera e per la scrittura. Per carità, Montanelli è stato un grande, però non è che mi possa identificare in lui. E poi, ammesso che tu abbia un maestro, non devi mai cercare di imitarlo, devi prendere qualcosa e poi rielaborarlo per conto tuo. Come scrive Nietzsche, non fa onore al suo maestro chi rimane sempre allievo. Comunque, una volta, parlando con Bocca, insieme a Tobagi che è morto subito dopo – l’unico amico che ho avuto del mestiere – mi disse: “Io e Montanelli siamo spesso accomunati, ma in realtà non abbiamo nulla a che vedere l’uno con l’altro. Invidio a Indro l’eleganza della scrittura, il bel giro di frase, ma non credo fosse un uomo profondo”. E credo che Bocca avesse ragione. Stiamo parlando di giornalisti da Champions League, naturalmente…

    Torniamo per un secondo al Fini privato e coniughiamolo col Fini pubblico. Lei si è sempre concesso tanti vizi, lo abbiamo detto: il bere, il fumare, il poker… ma quali sono invece le sue virtù? Lei nei suoi libri si è sempre rifatto a quelli che chiama dei valori pre-politici: il coraggio, l’onestà, la lealtà, la fedeltà alla parola data…

Le mie virtù sono proprio queste, i valori pre-politici, pre-ideologici e pre-religiosi che hai appena elencato. Coraggio, onestà, lealtà e protezione nei confronti dei più deboli. Catilina è tra i miei personaggi storici quello che ha tutti questi valori. Ma non in un modo bigotto, non è Catone. Infatti è un libertino, si scopa le vestali, si lava le mani insanguinate nell’acqua sacra di Apollo… però lui si rifà ai valori dell’Antica Roma. Non è un rivoluzionario, è un reazionario per cui i valori erano questi: coraggio, lealtà, onestà e protezione dei più deboli. Come dice lui, scrivendo questa lettera al capo del Senato: “Ho assunto la causa generale dei disgraziati”. Catilina è un vero uomo, uno che va fino in fondo alla sua storia. E sa benissimo che in fondo non c’è che la morte. Poi c’è questa morte in battaglia che è formidabile. Io non sono Catilina, però questi sono i valori di riferimento per me.

    C’è stato uno di questi valori a cui non ha mantenuto fede nella vita, oppure sente di essere stato coerente?

Secondo Liguori io ho una coerenza cretina. E credo che avesse ragione. Sì, io sono stato coerente, e finché ho avuto la spavalderia e l’energia della giovinezza, la cosa non mi è pesata. Adesso che ho 76 anni… certo, avere molto meno denaro di quanto avrei potuto averne, eccetera, mi pesa un pochino. Comunque non mi pento di niente.

    Non ha nemmeno un rimorso che si porta dentro?

Sul piano pubblico no di sicuro. Sul piano privato sì. Nel senso che a volte ho fatto soffrire le persone  – spesso ho fatto soffrire le persone… molte donne per esempio. Anche loro comunque hanno fatto soffrire me.

    Ha avuto molte donne nella sua vita?

Mah, guarda, su di me circolano tre leggende metropolitane: che io sia misogino, che sia omosessuale, che sia un tombeur de femme. Nessuna di queste corrisponde alla realtà, ma in ognuna di queste c’è un pizzico di verità.


Con la moglie, fine anni ’70

    Ma ritornando ai valori, al coraggio in particolare. Lei ha scritto di recente due articoli sul Fatto Quotidiano, analoghi per tema trattato, in merito all’emergenza Covid-19, intitolati “Per paura di morire non viviamo più” e “Aver paura è già morire”. Eppure c’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui non vi era questa vigliaccheria istituzionalizzata. Ai tempi dei miei genitori la paura era motivo di vergogna. Si era tenuti ad avere coraggio, per affrontar la vita. Come si è passati dal dovere al coraggio al diritto alla paura?

È stato il benessere che ha distrutto i valori di cui parlavamo prima, tra cui c’è il coraggio, fisico e morale. Il benessere ci ha proprio infiacchiti, a noi italiani in particolare. Perché se c’è una rapina in banca colui che reagisce è un serbo, un rumeno, un nero africano, mai un italiano. Quando c’è stata quella scena, disgustosa, a Torino, dove per paura di un boato la gente è fuggita in modo scomposto, un bambino era caduto a terra. Uno allora si ferma, allarga le braccia e grida: “c’è un bambino a terra!”. Ecco, è un nero africano.

    Ma ha scritto anche un articolo in cui si figurava una vacanza senza mare, di questi tempi. Che estate è senza mare?

Non è estate. Quindi sto facendo tutto il possibile, sto ricorrendo a tutti i marchingegni possibili, per andarci. Non vado in Corsica, purtroppo perché non si può. A me piacciono molto i corsi, che ritengo essere degli afgani minori. Cercherò allora di raggiungere la Liguria, sempre che Fontana non tenga chiuse le frontiere. Ma non credo che lo faccia, dato che in Liguria si vive per il 30% di turismo. Sarebbe folle. Spero di raggiungere la Liguria, anche perché io ho bisogno del mare. Il mare è il motivo della mia esistenza, non è solo fascinoso, ma è per me terapeutico. Quando prendevo una sbronza pazzesca, mi cacciavo a bagno e uscivo come se fosse successo niente. Nuotare – cosa che oggi faccio, perché altri sport mi sono proibiti, con questi problemi di vista pesanti – mi fa bene. Quando sono in acqua ritrovo un’agilità, che non è quella dei miei trent’anni, ma è sicuramente un’agilità.


Al mare, vero amore della sua vita, nei primi anni ’80

    Le vacanze più belle che Lei ricorda?

Quella volta in cui a 16 anni filo con quella ragazza bellissima durante la giocata a poker.

    E la peggiore? Dice che sarà questa?

Mah… si prospetta come tale. Poi, non si sa, da un male può nascere un bene. Non lo so. Certamente non posso pensare di rimanere a Milano. Io poi ho sangue russo e detesto il caldo, in un modo!… Lo soffro proprio, quindi devo assolutamente fuggire. Non posso andare sul lago. Ho avuto per dieci anni una donna che viveva sul lago, a Lugano, quindi ho dovuto sorbirmi anche quello. Però come vedo il lago penso al  mare.


A Marrakech con la moglie, primi anni ’80

    L’emergenza Covid-19 ha mostrato gli italiani come un popolo piuttosto obbediente ai decreti imposti per contenere l’epidemia. Dove è finito lo spirito anarchico di cui ci vantiamo da secoli?

[Ride] È il discorso di cui dicevamo prima. È il benessere che ci ha infiacchiti. La paura che c’è è una paura smodata, perché questa non è la peste. Una paura smodata che poi ha convinto tutti a rispettare le regole. Non è un male in assoluto, anche i tedeschi rispettano le regole. Però noi non siamo esattamente tedeschi. Nel bene e nel male. Quel carattere appunto anarchico e individualista che gli italiani hanno sempre avuto si sta perdendo. Infatti figure come quelle che abbiamo ricordato – Longanesi, Maccari, Flaiano, eccetera – non ci sono più. O sono rarissime.

    Parliamo un po’ di donne. Com’è stato il suo rapporto con l’altro sesso e come si è evoluto nel tempo?

Le donne sono una razza nemica. Però io sono entrato nel mondo femminile, nel misterioso mondo della donna, affascinato da questo soggetto. Il mio rapporto con le donne dipende dalle stagioni della vita. Ho avuto un amour passionné. Quello è stato un periodo bellissimo che è durato nove anni, e sono già molti, perché è come un incendio, che brucia tutto ciò che sta intorno. E quindi in genere si esaurisce in poco tempo. Noi abbiamo vissuto così nove anni. Poi eravamo ancora troppo adolescenti, nonostante io avessi 52 anni e lei 48, per accettare che un rapporto che aveva suonato a 10 decibel si riducesse a 8. Quindi non lo abbiamo accettato e ci siamo separati. Quello è stato il momento più pieno, sicuramente, se parliamo di rapporti con donne.


Con il grande amore della sua vita, metà anni ’90

    Una donna bellissima, un’icona che troneggia nei suoi sogni, ce la potrebbe indicare?

Guarda, io, a differenza dei miei coetanei, non ho mai avuto una fotografia appesa in camera. Però se dovessi dire un nome – parliamo della mia generazione – direi Brigitte Bardot. Oppure, su tono minore, Stefania Sandrelli. Brigitte aveva quella malizia che solo le francesi hanno. Siamo nei Sessanta, quindi è una malizia quasi innocente. In lei c’è tutta l’ingenua malizia dei Sessanta.

    Rimanendo in tema di donne. Come spiega la sua amicizia con Stefania Craxi? Lei è stato un nemico del Bettino nazionale. Com’è possibile una cosa del genere?

È possibile perché abbiamo sempre distinto i due campi: il campo politico e il campo privato. Infatti la parola d’ordine, quando ci vediamo – ci siam visti anche di recente – è: “io non ho capito un cazzo di Bettino”. Dopodiché parliamo delle nostre cose. Stefania è sempre stata affascinata da uomini più anziani, perché era affascinata dalla figura del padre. Ma noi siamo solo amici, che sia ben chiaro. Mi ricordo una volta in cui scrivo delle cose violente su Craxi e il craxismo. Le mando allora un biglietto, chiedendomi se si potesse continuare a vedersi ancora. E lei mi dice, molto giustamente: “la politica è una cosa, l’amicizia un’altra”.

    Una cosa che il fratello Bobo non avrebbe mai fatto…

C’è un abisso fra i due. Stefania è una donna intelligente e ha anche parte del carattere di Bettino, l’orgoglio soprattutto. C’è una differenza fondamentale tra i due fratelli. Poi all’epoca in cui ci siamo conosciuti il problema di Stefania era sempre lo stesso: se lavorava era perché era figlia di Craxi, se non lavorava pure. Il rapporto con il genitore era davvero molto forte.

    E al Fatto Quotidiano che dicono? Il Fatto è sempre stato un quotidiano moralista, giustizialista e piuttosto bacchettone. Qual è stata la reazione al suo ingresso nel quotidiano? Mi riferisco sempre alle donne, ricordo una polemica…

Ho il privilegio di avere un ottimo rapporto con Marco Travaglio, che oltretutto è un uomo di grandissimo stile, e quindi i rapporti sono con lui, fondamentalmente. Non so come sono visto al Fatto, francamente. Non lo so… vedo che pubblicano i miei pezzi e a me questo basta.

    L’esperienza giornalistica a cui è più legato, quella che ha contribuito maggiormente alla sua formazione?

Sicuramente L’Europeo, un settimanale internazionale in cui di fatto si imparava il mestiere. Però la più esaltante è stata quella de L’Indipendente con Feltri, prima che passasse armi e bagagli al berlusconismo. Perché per la prima volta, realizzavamo un sogno, eravamo padroni di un giornale. L’editore, che era Zanussi, ne aveva voglia Feltri a dire che non era un vero editore, però ci lasciava la massima libertà. Noi, al tempo di Mani Pulite, avevamo pubblicato in grande evidenza l’arresto del nostro amministratore delegato. È stata una bellissima esperienza e io non ho mai perdonato a Vittorio di aver lasciato L’Indipendente. E secondo me la cosa gli ha nuociuto, economicamente forse no, perché L’Indipendente avrebbe potuto essere La Repubblica degli anni Novanta e Duemila. Abbiamo avuto sempre un rapporto conflittuale, di amore-odio, anche perché io non gli perdonavo quella scelta, però anche nei periodi più bui, se avevo un pezzo che nessuno mi avrebbe pubblicato, mi rivolgevo a Vittorio e lui lo pubblicava. Che abbia istinto giornalistico è fuori discussione.


Con Vittorio Feltri, quando Feltri dirigeva l’Europeo. Siamo nel 1990/1991

     Quella che invece avrebbe voluto fare e, per un motivo o per un altro, non ha fatto?

Mi sarebbe piaciuto, a un certo punto, fare l’inviato-scrittore, il reporter di viaggi insomma, anche se ho già fatto queste cose: andare in un Paese per raccontarne la way of life. Questo l’ho fatto soprattutto grazie a Pierluigi Magnaschi quando era alla Domenica del Corriere. Sono stato in questo modo in Unione Sovietica, che è un posto che nessuno potrà mai più rivedere… sono stato in Israele, sono stato in Egitto, in Iran… Poi sono stato, anche se non ne ho scritto molto, nell’Africa Nera, che ho girato parecchio.


In Sudafrica per un servizio, 1989

    Un’ultima domanda: quali sono i progetti per il futuro, alla sua età? Ha ancora qualche desiderio che intende realizzare?

Il progetto per il futuro è morire. Che progetti posso avere? Non ho progetti. Poi non si può mai dire… nel senso che quando scrissi il primo libro La Ragione aveva torto?, dissi a me stesso: “questo è il primo è l’ultimo libro”. Poi ne ho scritti altri diciassette. L’unica cosa che vorrei è continuare a fare dei bagni al mare, finché il fisico me lo permette. Io ho un fisico – mi tocco i coglioni! – molto robusto che mi ha dato mia madre. Non vorrei però raggiungere gli 80 anni. 70 anni sono la vita dell’uomo, dice il biblista. Mi pare una cosa ragionevole. Io ne ho già sgraffignati sei. Né troppo poco ma neanche troppo.

    Mai nulla di troppo allora?

Eh sì [ride]. Mai nulla di troppo.

 

Valerio Alberto Menga

L'Intellettuale Dissidente