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Parlare di donne è diventato sempre più pericoloso. Sono esseri angelicati per definizione e a dirne male si incorre nella damnatio collettiva (a meno che non si tratti di Raggi e Appendino, ma qui si passa dall’esistenziale al politico che è un’altra cosa). Non dichiararsi “femministi” è già quasi un reato se non ancora penale, certamente sociale (avvertimento per le donne: gli uomini “femministi” sono nella vita concreta e reale i peggiori maschilisti, così come molto spesso le leader del femminismo sono a letto, dove si gioca una parte notevole del rapporto uomo donna, le più masochiste). Il fatto è che il rapporto fra generi, non sessi per carità, è letto in una chiave teorica che poco ha a che fare con la vita reale di tutti noi. L’attuale ‘narrazione’, termine osceno ma oggi molto in uso, vuole che le donne siano migliori degli uomini, maschi sopraffattori, violenti, sempre in agguato, da tenere a debita distanza. Ma la sopravalutazione della donna, nel momento stesso in cui la esalta, comprime la funzione primaria che madre natura, che non fa né teoria né sociologia ma sta ai fatti, le assegna: quella di madre. La scrittrice britannica J. K. Rowling che ha osato affermare che “la donna esiste in natura” è stata aggredita da omosessuali, lesbiche, trans, travesta, queste ex minoranze che sono diventate arrogante maggioranza, e accusata di omofobia. Ma, almeno per il momento, i figli non nascono dal culo anche se a giudicare dal numero di stronzi che c’è in giro si potrebbe avere qualche dubbio. Il ridimensionamento della donna come madre ha delle pesanti ricadute e conseguenze. L’Italia è il Paese che, dopo il Giappone, ha il più basso tasso di fertilità per donna: 1,3 (anche se questo problema riguarda tutto il mondo occidentale, nei Paesi Mediorientali il tasso è mediamente 2,5, in quelli dell’Africa Subsahariana è del 5). La prima conseguenza è un invecchiamento progressivo della popolazione, e una società vecchia, oltre a rendere cupo e triste il contesto in cui viviamo, è un segno sicuro di decadenza. Continuando di questo passo l’Occidente è destinato a scomparire. Inoltre i vecchi che si vorrebbero salvare a tutti i costi dallo sfoltimento naturale che è il compito di una epidemia, fanno da tappo ai giovani e al loro futuro su cui si spende tanta retorica, falsa e ipocrita come tutte le retoriche.

Noi non viviamo più –è cosa arcinota- in un mondo reale ma virtuale, che non è solo quello dei social ma della Tv, dei programmi che un tempo avremmo definito “spazzatura”, tipo X Factor o Amici per dire solo di alcuni, che sfornano a raffica personaggi del tutto inconsistenti che un giorno appaiono e quello dopo scompaiono. La vita reale, concreta, è scomparsa dai nostri orizzonti. Noi giornalisti (quorum ego) ci dedichiamo alle opinioni, facciamo sottilissime e intelligentissime analisi sociologiche e psicologiche, ma raramente raccontiamo la vita. Il reportage di racconto, che era la cifra che distingueva l’Europeo degli anni Settanta, è quasi sparito. Possiamo ritrovarlo quando muore qualche vecchissima star, tipo Juliette Gréco, di cui si ripercorre l’intensa esistenza. Ma a Montparnos, a Montmartre, c’era la vita, col suo sangue e la sua merda, il virtuale non aveva ancora fatto la sua devastante irruzione.

Non scriverò quindi più di donne e nemmeno del politico e del giuridico che mi escono dalle orecchie e dagli occhi. Scriverò di sport. Meglio: di ciclismo. Due domeniche fa si è corso il Campionato mondiale di ciclismo su strada che, nell’arco dell’anno, era uno di quegli appuntamenti fissi e immancabili come la finale di Coppa dei Campioni, quella di Wimbledon, il Tour e il Grand Prix d’Amerique (ippica, scomparsa in Italia ma ancora presente in Francia). Il ciclismo è stato uno sport popolarissimo da noi, anche i più giovani, sia pur di rimbalzo, hanno sentito parlare dell’epopea di Coppi e Bartali, del famoso passaggio della borraccia fra i due rivali. Si racconta che il giorno dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, in un clima tesissimo (era in pieno atto lo scontro fra il cosiddetto “mondo libero” e l’Unione Sovietica) una vittoria di Bartali in una tappa del Tour scongiurò la guerra civile. Storia? Leggenda? A noi piace ricordarla così, la fantasia è sempre più eccitante della realtà. Scrive Karl Kraus: “La scopata è un surrogato della masturbazione”.

Dunque domenica si correva il Campionato del mondo di ciclismo su strada, in Italia, sul circuito di Imola. La Rai non l’ha trasmessa, Sky che ha il semi monopolio di quasi tutti gli eventi sportivi non l’ha nominata né prima né dopo la corsa (per inciso: vittoria esaltante, per distacco, del francese Julian Alaphilippe) preferendogli nei suoi lunghi report sportivi addirittura il biliardo, peraltro anch’esso scomparso dalla nostra vita quotidiana. La Gazzetta dello Sport ha relegato il Mondiale a pagina 42. Eppure la bicicletta, questo strumento meraviglioso fondato sul principio della leva, senza alcun supporto meccanico e quindi sulla sola forza delle gambe e sulla capacità di soffrire, è stata in passato un autentico mezzo di trasporto collettivo. Le bici avevano la targa, come oggi le automobili. Servivano in genere agli operai per raggiungere la fabbrica e a volte si trattava di fare trenta o quaranta chilometri spesso con salite difficili. Oggi la bicicletta come mezzo di trasporto è ritornata in auge, cosa buonissima, ma solo in città. Nessuno di questi ciclisti della domenica potrebbe affrontare il Ghisallo come pretende invece il ciclismo agonistico. E io interpreto la semi scomparsa del ciclismo su strada, con la sua fatica estrema, il suo sudore, il suo coraggio, a favore di un calcio sempre più azzimato e diventato da scontro fisico, metafora della guerra, un gioco da educande narcisistiche, come uno dei tanti, sia pur minori, segni per dirla con Oswald Spengler (“la scimmia astuta di Nietzsche” secondo Thomas Mann), del “tramonto dell’Occidente”.

Massimo Fini

Lunedì, 5 ottobre 2020