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Giovedì si celebra il Santo Natale, la Festa della natività di Cristo. Come disse Benedetto Croce, si sia credenti o no, “non possiamo non dirci cristiani”. Indubbiamente il cristianesimo, tripartitosi, nel tempo, in cattolicesimo, ortodossia, protestantesimo, ha potentemente influenzato per secoli la nostra cultura e la nostra società.

Al tempo in cui nacque Cristo le religioni, nel mondo allora conosciuto, erano orientali. La più estesa era quella di Zoroastro, che partita dalla Persia, occupava l’Asia centrale e parte dell’India. Non era una religione aggressiva, tanto che, secondo la leggenda, i Magi che venendo da Oriente andarono a rendere omaggio al neonato di Betlemme, erano sacerdoti  zoroastriani. Il problema nasce con un’altra religione orientale, per meglio dire mediorientale, l’ebraismo che si inventa la favola del “popolo eletto da Dio”, relegando tutte le altre a genti di serie B, e affermando che esiste un solo e unico Dio, il Suo. Lo scontro con un’altra religione monoteista, anche se meno integralista, pur essa mediorientale, il cristianesimo, sarà inevitabile. Gli ebrei otterranno la testa di Cristo nonostante il governatore della Giudea, Pilato, cerchi finché gli è possibile di salvargli la pelle, scontrandosi però con questo affascinante borderline che crede di essere “il figlio di Dio” anche se non è poi del tutto convinto, “padre, padre, perché mi hai abbandonato?” (oserei dire che Cristo si immola più che per convinzione per una sorta di coerenza morale e persino estetica).

Cominciano le zuffe fra ebrei e cristiani, incomprensibili alla mentalità romana. I Romani, e i Greci, cioè quello che possiamo considerare l’Occidente di allora, erano pagani, sostanzialmente dei laici. Quello degli antenati, presente presso tutti i popoli, era il loro unico culto, non avevano rapporti col metafisico, con l’aldilà, se non nella forma della Gloria, cioè del ricordo che si lascia ai posteri. Com’è noto i Romani durante quasi tutto il loro dominio furono tollerantissimi in materia di religione, compreso l’infamatissimo Nerone: “date a Cesare quel che è di Cesare”, cioè il frumento, per il resto ognuno creda a chi gli pare e segua i costumi che preferisce. Solo con Diocleziano cominciano le persecuzioni sistematiche, quando l’Imperatore si rende conto che il cristianesimo sta corrodendo come un tarlo le basi della società romana. Ma sarà troppo tardi.

Per comprendere la mentalità romana è esemplare la storia di Paolo, futuro Santo e fondatore della Chiesa (che troppo spesso tradirà il messaggio di Cristo, che è un messaggio d’amore, un “porgi l’altra guancia” contrapposto all’ebraico, ma certamente non solo ebraico, “dente per dente”). Paolo, fulminato sulla via di Damasco, arriva a Gerusalemme. Vuole subito andare a predicare al Tempio. I cristiani della città gli dicono che non è il caso. Ma Paolo, è o non è un futuro Santo, ci va lo stesso. Viene accerchiato e sta per essere linciato. Interviene il  comandante della piazza Claudio Lisia che lo sottrae ai facinorosi e lo porta a Cesarea davanti al governatore della Giudea Antonio Felice. Costui convoca i maggiorenti degli ebrei e chiede loro di che cosa accusino Paolo. Ne nasce una diatriba lunghissima fra gli ebrei e lo stesso Paolo, che Felice ascolta pazientemente, poi dice: “Se voi accusaste quest’uomo di un qualche fatto io vi darei ascolto, come di ragione, o ebrei, ma qui si tratta di nomi, di interpretazioni, non posso condannare un uomo per queste cose”. Paolo viene trattenuto nei castra nella forma di “custodia militaris”, una sorta di custodia cautelare. Non può uscire perché sarebbe immediatamente ucciso. In questa situazione rimane due anni. Ma Paolo è un cittadino romano e come tale ha diritto di essere giudicato a Roma. I Romani armano appositamente una nave, lo affidano a un vecchio centurione con cui farà amicizia, e lo portano a Roma. A Roma, in attesa del processo, rimarrà altri due anni, potendo predicare liberamente il suo credo, con la sola limitazione di non lasciare la città. Il tribunale di Roma, presieduto dal prefetto del pretorio Afranio Burro, lo assolverà.  Paolo morirà nel 67, in circostanze mai chiarite che comunque nulla hanno a che vedere con la cosiddetta persecuzione neroniana dopo l’incendio del 64.

Passeranno i secoli. Verrà l’Illuminismo, la Dea Ragione sostituirà i vecchi idoli. Quando Nietzsche negli anni 80 dell’Ottocento proclama “la morte di Dio” non crede, prometeicamente, di aver ucciso Dio, ma constata con qualche decennio di anticipo che il sacro è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Oggi in Occidente, come in Oriente, esiste finalmente un solo, vero, e unico dio: il Dio Quattrino che tutti ci unisce, e nel contempo ci divide, nell’individualismo più sfrenato. Delle dolci parole del Cristo è tabula rasa. E, almeno per questo, il Covid ci torna buono. Perché ci impedisce di celebrare, ipocritamente, una Festa spirituale che, da tempo, non esiste più.

Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2020