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“C'è una casa bianca che mai più io scorderò, mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù. Era tanto tempo fa, ero bimba e di dolore io piangevo nel mio cuore, non volevo entrare in là. Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos'è. Quella casa bianca che non vorrebbero lasciar è la loro gioventù che mai più ritornerà” (Marisa Sannia).

Questa canzone fu portata al Festival di Sanremo del 1968 da Ornella Vanoni e Marisa Sannia ed arrivò seconda dietro Sergio Endrigo che ne presentava una non delle sue migliori, Canzone per te (Aria di neve è un’altra cosa). Ornella, che era già famosa, volle dare una sua interpretazione musicale al brano, ma in questo caso la musica c’entrava poco, contava il testo che Marisa Sannia cantò in modo piano con la sua bellissima, straordinaria voce. Casa Bianca rimase quindi la canzone di Marisa Sannia. Io non la ascoltai al Festival, non perché snobbassi questa grande manifestazione nazional popolare che ha segnato anche parte del costume italiano, ma perché a ventiquattro anni avevo altro da fare. La sentii in macchina in un viaggio Bari-Milano che, con le strade di allora, dovevo fare in giornata. E mi colpì. In un’epoca in cui la canzone italiana era, fatta qualche debita eccezione, tutta una lagna di maschi belanti ai piedi di lei, che non ci stava o giocava al ‘vedo e non ti vedo’ o mentre era con te guardava già un altro (Io fra di voi, Charles Aznavour) e comunque ti faceva soffrire, o di donne che erano sulla stessa falsariga, però in genere più declinata verso una certa malinconia per un amore perduto, Domani è un altro giorno di una Vanoni questa volta in gran forma, o Pazza idea di Patty Pravo, la migliore (il rock era già alle spalle e comunque noi, che non avevamo fatto l’Erasmus, non capivamo i testi che del resto credo non vogliano dir nulla, “Tutti frutti” che ha dato la fama ad Elvis che cazzo vuol dire?) insomma erano tutte canzoni  che giravano intorno all’amore, questo disturbo psicosomatico inventato dalla Natura per fare incontrare due sessi (ho detto sessi, non generi) altrimenti incompatibili, Sannia parlava di qualcosa che non c’entra con l’amore ed è più importante: parlava della linea d’ombra, del passaggio delle stagioni della vita, doloroso fin dall’infanzia, anche se percepito confusamente (“Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos'è”) e poi, in prospettiva, dall’infanzia alla giovinezza, dalla giovinezza alla maturità da questa, per chi sciaguratamente ci arriva, alla vecchiaia. Parlava insomma del Tempo.

Sul Tempo in senso, diciamo così, metafisico, sul rapporto Tempo/Spazio, gli scienziati, in particolare i fisici, si sono esercitati da Einstein in poi e anche molto prima di Einstein per lo meno dagli inizi del Novecento. Carlo Rovelli, un grande fisico e anche un divulgatore, ha dedicato tutta la sua vita allo studio del Tempo, ma nel suo ultimo libro, L’ordine del tempo (2017) alla fine confessa, onestamente, di non aver cavato un ragno dal buco. Non voglio mettermi in competizione con questi scienziati, ma secondo me il Tempo, sempre in senso metafisico, è trasformazione. Se mentre sto scrivendo la mia pelle non cambiasse sia pur di pochissimo, se i libri che ho davanti non ingiallissero sia pur di pochissimo, se l’automobile che vedo dalle mie finestre si immobilizzasse, noi saremmo pietrificati in uno spazio senza tempo, in un Tempo senza Tempo (“Tutto scorre” dice Eraclito, il più sapiente).

Ma non è questo Tempo metafisico che qui ci interessa. Ci interessa il tempo concreto, e anche psicologico, della nostra esistenza. Il Tempo è il padrone inesorabile della nostra vita, un conto è avere vent’anni, altro è averne quaranta, altro ancora è averne sessanta e oltre. Tu puoi essere anche, nei casi più fortunati, in perfetta forma fisica e intellettuale come George Clooney, ma sessant’anni di vita hanno comunque inciso su di te.

Da un paio di decenni si declama che “vecchio è bello”. È il marketing che si è accorto che le popolazioni stanno invecchiando e che quindi il vecchio diventa interessante se da debole consumatore quale è lo si incoraggia a consumare di più. E quindi il vecchio non può nemmeno lasciarsi andare a uno dei pochi piaceri della vecchiaia che è lasciarsi andare a essa. Deve sgambettare impudicamente nelle discoteche, deve fare maratone in cui regolarmente si infartua, deve scopare con Viagra o Chalis anche se non ne ha più nessuna voglia. È lo stesso fenomeno, con segno contrario, che accadde verso la fine degli anni Sessanta quando il marketing scoprì che i giovani, dopo il boom, a differenza dei loro fratelli maggiori che avevano dovuto stringere la cinghia durante la ricostruzione, avevano qualche soldo in tasca. E nacque il “giovanilismo” per cui ai giovani veniva passato tutto, anche quando facevano stronzate e anche qualcosa di peggio delle stronzate.

“L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari. ‘Perché non possiamo metterci insieme?’ mi chiede una graziosa ragazza trentenne. ‘Perché tu stai entrando nella vita e io ne sto uscendo. Il tempo conta. Non possiamo ignorarlo’ (…) ‘Caro agli Dei è chi muore giovane’ scrive Menandro. Ma forse ad esser baciati in fronte dagli Dei sono coloro che non sono mai nati. Perché una volta che ci sei dentro, nella vita, non hai più scampo, non puoi più evitare il torturante confronto con il Tempo. Sei entrato nel Tempo e non ne puoi più uscire. Nemmeno la morte può cancellare il fatto che hai vissuto. E finché ci sei te la devi giocare questa partita col Tempo (…) Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Sei un sopravvissuto.” (Ragazzo. Storia di una vecchiaia, 2007).

Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2021

 

Si dice "ammazzare il tempo". Ma è il tempo che ammazza noi. (Il Ribelle dalla A alla Z).