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Flamenco. “Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna terra di matador e di grandi toreri / Ormai anche laggiù nella caliente Spagna non si ballano più passi doppi o boleri ora ballano il flamenco roack, ora ballano il flamenco roack / Espagna, paradiso di sogni e di donne ardenti d'amore, hai tradito anche tu le più belle canzoni del cuore per il frenetico roack / Alle cinque della sera non c'è il toro nell'arena, alle cinque della sera sono a letto i matador, alle cinque della sera non si vede una mantilla sui bastioni di Siviglia fanno il roack, sì fanno il roack / Espagna, anche tu hai un disco dei Platters in tutte le case dove ballano a ritmo sfrenato le belle andaluse con il frenetico roack / Alle cinque della sera i ragazzi di Granada, alle cinque della sera vanno in giro coi bluejeans, alle cinque della sera i jukebox a voce piena a Madrid e a Barcellona fanno il roack, sì fanno il roack / Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna e ballare con te questo flamenco roack.” (Flamenco Rock, Milva).

La canzone è del 1961. Mi colpisce e mi commuove l’ingenuità, la naivitè, la semplicità di Milva che è poi quella della generazione pre-boom e della mia di pochi anni successiva. Milva era allora “la pantera di Goro” in contrapposizione alla “tigre di Cremona”, Mina. Ed era rimasta ancora “la pantera di Goro” una decina di anni dopo quando andai a intervistarla dalle sue parti, mi pare per Amica. Mi fece l’impressione di una domestica in libera uscita. Mi sbagliavo. Si affinò con Strehler e, senza lasciare la musica, divenne un’attrice di teatro di livello internazionale. Per un certo periodo si trasferì in Germania. Mi ricordo una sua intervista in cui diceva di preferire il mondo e il rigore tedesco alla emergente sciatteria italiana, anche se poi è in Italia che è venuta a morire un mese fa senza che la stampa le facesse quell’omaggio che le era dovuto.

Il rock che già furoreggiava negli States almeno dalla metà degli anni Cinquanta, con Jerry Lee Lewis, Little Richard, “Elvis the pelvis”, era approdato in Italia da pochissimo, tanto che Milva lo pronuncia male, “roack”. Musica di rottura, anche se negli anni diventerà la più consumistica, era scandalosa soprattutto per la destra, ma non solo. Mi ricordo un titolo preoccupato de La Nottedi pochissimi anni prima “Ma arriverà anche da noi?”. Per diventare accettabile il rock aveva avuto bisognodell’intermediazione della musica meno aggressiva dei Platters(“Only you”) e di Paul Anka (“Diana” un successo mondiale, 9 milioni di copie e molte bimbe furono battezzate proprio con quel nome, fra le quali anche la sfortunata moglie del principe Carlo). Eppoi allora c’era di mezzo l’Oceano. La globalizzazione era di là da venire.

“Vorrei tanto visitar la Spagna”. La Spagna appariva come una terra esotica e lontana. Oggi la Spagna è a un’ora e mezza di volo che costa, a seconda delle circostanze, dai 29 a un massimo di 200 euro. Oggi non si possono più avere le ingenue curiosità della “pantera di Goro”, la globalizzazione ha omologato tutto: igrattaceli di Manhattan valgono quelli di Abu Dhabi o della Milano degli ultimi anni. La possibilità dei viaggi invece di aver allargato il mondo lo ha ristretto. Per la verità l’Italia resta ancora un po’ speciale. Lucca e Pisa, che distano una ventina di chilometri, non sono la stessa cosa a causa di quel monte per cui, come dice Dante, “i Pisan veder Lucca non ponno”. E anche se quel monte è oggi attraversato da un tunnel Pisa e Lucca restano molto diverse. Più tosca, più sanguigna, Pisa, più delicata, malinconica, quasi umbra Lucca. E queste diversità, nel temperamento, nel modo di vivere, nei dialetti, sono rimaste in molte altre città italiane pur fra loro vicinissime: Ferrara non è Verona, Verona non è Vicenza, Vicenza non è Padova, per non parlare di Venezia che fa storia a sé. Questa è la vera ricchezza italiana. Ma a lungo andare l’omologazione portata dalla televisione, da internet, dai social network, spazzerà via tutto questo.

Inoltre la società globale è troppo complessa (e anche pericolosa, come il Covid ci dovrebbe aver insegnato). Per me l’IBAN con i suoi 27 caratteri e quei quattro 0 che ti confondono gli occhi è un obiezione sufficiente alla società contemporanea.

Chi mi conosce, chi mi segue, chi mi legge sa che io sono un antimoderno, che considero questi i veri “secoli bui” e non quelli demonizzati dall’Illuminismo trionfante. Ma so anche che tornare al Medioevo è impossibile. Sono un reazionario, è vero, ma per il “qui e ora”  resto un socialista libertario perché coniugare una ragionevole eguaglianza sociale e le libertà civili mi sembra ancora, nella Modernità, l’idea più bella.

Mi accontenterei di tornare a un mondo in fondo non lontanissimo, più semplice, più ingenuo, meno frenetico e di poter ballare un “flamenco roack”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2021