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Enrico Letta, segretario del Pd, ha proposto, alcuni giorni fa, di alzare al 20% la tassa di successione per i redditi che superino i cinque milioni di euro, e solo sull’eccedenza. Il ricavato, secondo Letta, sarebbe sufficiente per dare una “dote” di 10.000 euro alla metà dei 560.000 ragazzi che ogni anno compiono i fatidici 18.

Finalmente un segretario del Pd ha detto qualcosa “di sinistra”. Si sono opposti quasi tutti, a cominciare da una buona metà del suo partito argomentando che non è il caso di proporre nuove tasse in periodo elettorale. A parte che l’Italia è sempre, per una ragione o per l’altra, in periodo elettorale o preelettorale, l’argomentazione è risibile perché è una tassa che colpirebbe solo l’1% della popolazione e soggetti che certamente non votano Pd. Per le destre, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, ogni tentativo, sia pur minimo, di una ridistribuzione sociale della ricchezza, si tratti di tassa sull’eredità o di patrimoniale, è come l’apparizione stessa di Belzebù, come un “esproprio proletario” dei tempi di Lotta Continua. In quanto al premier, Mario Draghi, ha affermato che un provvedimento del genere va inserito nel più generale riordino del sistema fiscale italiano che è la classica “fuga in avanti” per annullare qualsiasi iniziativa poco gradita tante volte usata dai nostri politici di professione. Del resto da un banchiere di professione non ci si può certo attendere un occhio di attenzione per le classi più disagiate come del resto mi pare venga fuori dal intricatissimo piano di riforme presentato nei giorni scorsi all’Ue in cui è pressoché certo che, a parte la sacrosanta abolizione della incomprensibile norma che concede l’appalto all’azienda che fa il massimo ribasso e non a quella che offre le garanzie migliori, sarà dato il via libera a tutti i famelici e assatanati fautori di “mega opere” compreso l’inutilissimo e ambientalmente devastante Ponte di Messina.

In tutti i principali Paesi occidentali la tassa di successione è molto più alta che in Italia (dove l’aliquota è attualmente al 4%): in Francia varia tra il 5 e il 60%, in Germania la massima è del 30%, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna del 40.

Del resto la tassa di successione è perfettamente coerente col pensiero liberista che vuole un’uguaglianza, almeno teorica, sulla linea di partenza (mentre su quella d’arrivo vince il più bravo, ma anche qui non senza dei limiti perché sia Adam Smith che David Ricardo sono contrari al monopolio e agli oligopoli perché violano un altro dei cardini della dottrina liberista, quello della libera concorrenza). Sul versante opposto di questa posizione liberista c’è l’umanissimo desiderio di lasciare i frutti del lavoro di una vita ai propri figli. Ma questo riguarda le persone normali, le eredità, diciamo così, normali, non certamente quelle enormi che al contrario pongono dei problemi ai discendenti. Perché se ci si ritrova ad avere, senza alcun merito personale, una montagna di soldi, poi non si sa più che cosa fare della propria vita. I suicidi di Edoardo Agnelli e di Christina Onassis dovrebbero aver insegnato qualcosa.

Ma la proposta di Letta, che certamente non risolverà la questione, è importante perché segnala un fenomeno in atto da almeno cinquant’anni in Occidente: i ricchi diventano sempre più ricchi, e anche un pochino più numerosi, mentre i poveri diventano sempre più poveri e molto più numerosi finendo così per assottigliare il ceto medio che è il collante necessario di ogni società perché rende meno evidente il divario fra le classi sociali. E questa divaricazione non ha fatto altro che aumentare. Ne La Ragione aveva Torto? (1985), che fotografa la situazione dell’Italia degli anni ‘80, scrivevo: “Il decile più ricco, cioè il 10% che sta alla sommità della piramide sociale, ha il 29,9% del reddito complessivo rispetto al 2,4% del decile più povero, i ricchi cioè hanno un reddito che è 12,5 volte quello dei più poveri”. Ma il dato più sconcertante lo si ha se si mettono a raffronto le ricchezze invece dei redditi. Nell’Italia degli anni Ottanta il 6,7% delle famiglie deteneva il 42% della ricchezza totale e il 15,8% si spartiva il restante 66%. Per contro il 47,8%, cioè quasi la metà della popolazione, aveva lo 0,8%. Da allora la situazione in Italia, ma il problema è mondiale, non ha fatto che peggiorare. Secondo un rapporto della Banca d’Italia del 2018 “Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200”. Ma oggi assistiamo, ammirati ma anche spaventati, all’accumularsi di ricchezze (Bezos, Musk, Zuckerberg) che non erano pensabili non dico in era preindustriale, ma fino a una decina di anni fa. Oggi il normale cittadino, lo “schiavo salariato” come lo chiama Nietzsche, è più lontano da Bezos, come ricchezza ma anche come status sociale, di quanto lo fosse il contadino della società preindustriale rispetto al più ricco dei feudatari o forse allo stesso re. Bisogna allora ammettere un fatto piuttosto imbarazzante: lo sviluppo economico, industriale ma oggi soprattutto finanziario, aumenta a dismisura le diseguaglianze. È un processo che si autoalimenta e sembra ormai del tutto fuori controllo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2021

 

"Oggi chi lavora non può diventare ricco: perde troppo tempo a lavorare." (Il Ribelle dalla A alla Z)