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Qualche anno fa Giampiero Mughini, con l’enfasi che lo contraddistingue e che per la verità l’ha sempre accompagnato anche quando era un giovane e brillante intellettuale, dichiarò che aveva un undicesimo comandamento che recitava così: "Non parlare mai più di Massimo Fini". Da allora non ha perso occasione per violare questo sacramento. Evidentemente è un uomo di salde convinzioni. In questo caso il pretesto è l’Afghanistan, ma stia tranquillo il lettore, non mi dilungherò su questo argomento che ormai ci esce dalle orecchie e sul quale mi sono stufato di ribadire da vent’anni, inutilmente, le solite cose, ma prendo a pretesto a mia volta le affermazioni di Mughini per affrontare un problema di fondo che lo stesso Giampiero pone.

Mughini comincia la sua perorazione affermando di non sapere "nulla di nulla dell’Afghanistan, della sua gente, delle sue particolarità". Più avanti aggiunge che preferisce una società "dove non c'è cretino che non abbia il diritto di pontificare su questo e su quello" pur non sapendone nulla. Insomma data la sua premessa il povero Giampiero, senza accorgersene, si dà involontariamente del cretino.

In realtà Mughini polemizza con la chiusa di un mio precedente articolo pubblicato sul Fatto (A Kabul il baco era l'Occidente, 25/08/2021) dove affermo di preferire il "Medioevo sostenibile" sognato dal Mullah Omar al nostro "modernismo insostenibile che ci sta portando al fosso". Per la verità Mughini che dice di conoscermi "meglio delle mie tasche" (le mie, di tasche, non le conosce affatto e se le conoscesse sul serio gli si rizzerebbero i capelli in testa) dovrebbe perlomeno sapere che la mia posizione ῾antimodernista᾿ data almeno dal 1985 quando scrissi La ragione aveva torto? che è "la madre di tutte le battaglie" cioè di una serie di libri successivi, sulla stessa linea, raccolti oggi ne La modernità di un antimoderno pubblicato nel 2016 con la prefazione di un illuminista a tutto tondo come Salvatore Veca.

Quella posta da Mughini, se pur in modo un po’ scomposto, del resto naturale in un articolo di giornata, è l’eterna querelle fra coloro che pensano, e sono la stragrande maggioranza, che l’attuale modello di sviluppo partorito dalla Rivoluzione industriale ci abbia consegnato "il migliore dei mondi possibili" e una minoranza che pone dei dubbi. E del resto uno dei portati più fecondi dell’Illuminismo è l’esercizio del dubbio sistematico che si pratica innanzitutto su se stessi. Cosa di cui Mughini, e tutti gli illuministi alla Mughini, sembrano refrattari. A questo filone di pensiero, depurato però della componente reazionaria cattolica (de Maistre), appartengo anch’io.

Ma prima di entrare `in medias res` voglio presentare a Mughini e ai nostri lettori un bozzetto che ci riporta ancora in Afghanistan. Nel governo dell’emirato islamico d’Afghanistan (1996-2001) Abdul Salam Zaeef, dopo un breve periodo passato alla Difesa, era ministro dei Trasporti. Un giorno il Mullah Omar lo convoca a Kandahar per riaffidargli il ministero della Difesa. Zaeef recalcitra. Accampa mille scuse. "`Lo sai che per questo rifiuto potrei anche metterti in prigione?` `Tu puoi fare quello che desideri Amir-ul Momineen, ma io là non ci torno`. `Magnifico!` sorrise Omar. `Ho capito. Vorrà dire che ti affiderò un incarico nel civile`. E Zaeef aveva ottenuto il più tranquillo posto di ambasciatore a Islamabad (Il Mullah Omar, p.79). Zaeef non era quindi un talebano `duro e puro`, particolarmente coraggioso. Sapendo di questa sua indole gli americani lo avevano torchiato a dovere. Dopo avergli inflitto il consueto trattamento Abu Graib, erano passati alle torture vere e proprie: deprivazione del sonno e l’esposizione a temperature altissime, intollerabili. Da lui volevano sapere solo due cose: dove si trovavano il Mullah Omar e Osama Bin Laden. In cambio gli offrivano la libertà e un mucchio di soldi. Dove fosse Osama Zaeef non lo sapeva, dove fosse Omar sì. Rispose: "Non c’è prezzo che possa valere la vita di una amico e di un compagno di battaglia". Come premio fu spedito a Guantanamo dove rimarrà quattro anni.

Ecco, caro Giampiero, io preferisco un mondo dove ci sono persone di questo tipo al nostro dove, senza bisogno di alcuna tortura, uomini e donne, anche con incarichi politici e dirigenziali d’alto livello, si vendono per quattro soldi.

Resta comunque aperta la domanda di fondo se "si stava meglio quando si stava peggio". Nel settembre del 1974 intervistai Pier Paolo Pasolini che stava girando allora Il fiore delle mille e una notte in Yemen. Tu sai, come me, che Pierpaolo detestava il mondo nato con la Rivoluzione industriale ("darei tutta la Montedison per una lucciolata") e amava quel mondo, popolano contadino e sottoproletario che lo aveva preceduto. Era insomma un `antimodernista`. Alla fine dell’intervista gli feci una domanda scontata: "Lei in fondo in questa società ci sta bene o, perlomeno, il suo malessere è molto ben ripagato, non le pare?" Rispose: "Io mi trovo malissimo. Malissimo. Lei mi parla di due cose che sono incommensurabili. Se lei mi dicesse scegli un po’, io preferirei essere un regista che non può fare i suoi film, molto più povero di quello che sono, fare l’insegnante, ma che il mondo che ho intorno a me fosse quello che ho amato, che amavo, che desidero, che amo ancora. Non ho il minimo dubbio su questo. Preferirei essere uno dei poveri delle Mille e una notte piuttosto che il Pasolini di oggi".

Come vedi, caro Giampiero, sono in buona compagnia. Tu non so.

Il Fatto Quotidiano, 11 Settembre 2021