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No. Non sarò così disonesto con me stesso e con i lettori scrivendo che mi sciolgo in lacrime per quanto accadde vent’anni fa a New York. Non lo feci nemmeno allora mentre la tragedia era in corso. Quando accendendo la televisione vidi quello che tutti noi abbiamo visto fui preso da un sentimento ambivalente: da una parte un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano, ma d’altro canto pensavo che quell’evento avrebbe potuto essere un utile insegnamento per gli americani, colpiti, per la prima volta nella loro storia, sul proprio territorio. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano bombardato a tappeto, con tranquilla coscienza, Dresda, Lipsia, Berlino, col preciso intento, come dichiararono i loro comandi politici e militari, di uccidere milioni di civili “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco” e avevano sganciato una terrificante bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell’Atomica erano diventati evidenti. Adesso con l’11 settembre sapevano anche loro cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli crollare su se stessi lasciando sul terreno migliaia di vittime. Invece il cowboy, stordito da quel colpo imprevisto, cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l’Afghanistan. Non c’era nessuna seria ragione per attaccare l’Afghanistan. Non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nei commandos che colpirono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre (do you understand? Adesso mi tocca parlare in inglese perché l’italiano ormai non lo capisce più nessuno). Il problema era semmai Osama Bin Laden. Ma ottenere la consegna dell’ambiguo Califfo saudita da parte dei Talebani – il Mullah Omar lo disprezzava, lo chiamava “un piccolo uomo” – non sarebbe stato difficile sol che gli americani non si fossero comportati con la consueta arroganza. Del resto durante l’amministrazione Clinton, dopo gli attentati del 1998 in Kenia e Tanzania, c’erano già stati, per iniziativa dello stesso Clinton, dei contatti tra l’amministrazione Usa e i Talebani per uccidere Bin Laden. Perché il Califfo era un problema per entrambi: per gli americani ma anche per i Talebani perché per uccidere Bin Laden gli yankee bombardavano a tappeto le alture di Khost, dove pensavano si trovasse Osama, uccidendo centinaia di civili afghani che con Osama non avevano nulla a che fare. Ma all’ultimo momento fu proprio Clinton a tirarsi indietro. Dopo l’11 settembre fu il modo con cui gli americani pretesero la consegna di Bin Laden ad essere decisivo. Il Mullah Omar chiese che fossero fornite delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden fosse davvero alle spalle degli attentati dell’11 settembre. Gli americani risposero arrogantemente: ”le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. A questo punto il Mullah Omar replicò che a quelle condizioni non poteva consegnare una persona che stava sul suo territorio. Cioè si comportò come avrebbe fatto qualsiasi Capo di Stato di un Paese sovrano. O meglio: come non avrebbe fatto nessun Capo di Stato, perché con quella decisione, presa per motivi di principio, il Mullah Omar si giocava il potere e in definitiva anche la vita. Come poi avverrà.

In un lucido articolo scritto per il Fatto (Dalle Torri Gemelle a Kabul: così è crollato l’impero Usa) Pino Arlacchi sostiene che dopo il collasso dell’Urss gli americani avevano bisogno di ricreare un nemico per legittimare la propria egemonia sul mondo occidentale. Ma come nemico mortale l’Afghanistan era un po’ deboluccio. Così vennero le successive demonizzazioni dell’Iraq (per carità, le armi di distruzione di massa Saddam gliele avevano date gli americani, i francesi e i sovietici, in funzione antiiraniana e anticurda, ma al momento dell’attacco del 2003 non le aveva più perché le aveva già usate sugli iraniani e sui curdi) e della Libia di Gheddafi le cui conseguenze disastrose sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma a furia di creare pericoli inesistenti l’atteggiamento degli americani, seguiti come cani fedeli dagli europei con l’eccezione della Germania di Angela Merkel, ha finito per diventare, come scrive ancora Arlacchi, “una profezia che si autoavvera”. E la profezia che si è autoavverata è oggi l’Isis. Proprio la distruzione dello Stato Islamico di Al Baghdadi ha messo in circolazione i veri terroristi internazionali che adesso scorrazzano in tutto il mondo e potrebbero diventare un pericolo che colpisce l’Occidente non solo dall’esterno ma anche dall’interno. Gli Isis sono oggi in Afghanistan (ma verranno spazzati via dai Talebani che adesso non devono più combattere anche gli occupanti occidentali), in Pakistan, in Somalia, in Mali, perfino nelle Maldive, come ha documentato la bravissima Francesca Borri, in altre aree dell’Africa ex nera, in particolare, nella forma più truce, in Nigeria col gruppo Boko Aram. Isis non è uno stato è un’epidemia ideologica. E potrebbe anche contagiare molti occidentali che finora si sono fatti sedurre dalla sua ideologia totalitaria solo in piccoli gruppi (i foreign fighters). Ma di fronte al vuoto di valori che contraddistingue l’Occidente molti più europei potrebbero esserne attratti. Meglio il Male del nulla.

Il Fatto Quotidiano, 14 Settembre 2021