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La questione dell’“autonomia differenziata” ha richiamato alla mia memoria Bossi, il senatur, il mio vecchio e caro Umberto, il solo uomo politico con cui abbia avuto confidenza (in linea di massima il giornalista deve tenersi alla larga dai politici, simpatici o antipatici che gli siano).

Quando la Lega al Nord cominciò a prendere quasi il 50 percento dei voti Bossi puntò all’indipendenza della mitica “Padania”. A differenza dell’usurpatore Matteo Salvini, un razzista antropologico, Bossi non era razzista. Disse “la Padania è di chi ci vive e ci lavora” senza andare a fare l’esame del sangue sulle sue origini. Si inventò anche dei riti e dei miti (“il Dio Po”, “l’ampolla”) poveri miti ma pur sempre meglio del nulla che su questo versante hanno offerto i partiti tradizionali. Erano miti sentimentali, non politici.

All’indipendentismo, fortemente appoggiato da Feltri e da me sull’Indipendente, Bossi rinunciò presto perché avrebbe portato a una guerra civile. Era un visionario, non un folle.

Le tre “macroregioni” Nord, Sud, Centro, coese per socialità, cultura e anche clima ci sarebbero state molto utili adesso dove con l’autonomia differenziata non si capisce più quali sono le competenze dello Stato mentre fra le Regioni ci si fa la guerra. Le “macroregioni” furono stoppate dall’ostilità compatta della partitocrazia (“le tre repubblichette”, copyright, ahimè, Ugo Intini, è la sorte delle idee intelligenti).

L’Indipendentismo di Bossi, coadiuvato da Gianfranco Miglio, grande costituzionalista, si inseriva in un progetto più ampio anche se, come quello di un altro grande visionario, Gianroberto Casaleggio, troppo in anticipo sui tempi (è destino dei precursori, Nietzsche vendette settantacinque copie dello Zarathustra, oggi quel libro profetico è il più venduto al mondo dopo la Bibbia che però ha una rendita di posizione). Bossi pensava che in un’Europa realmente unita, politicamente, i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali, che sarebbero scomparsi ma “macroregioni” europee coese, dal punto di vista sociale, culturale, climatico, eccetera. Non c’è nessuna ragione, per fare un paio d’esempi, che il Tirolo non sia unito sotto la bandiera di un'unica entità, quell’Europa politicamente unita che allo stato non c’è ancora ma a cui si dovrà necessariamente arrivare perché non sia stritolata dai grandi agglomerati, Stati Uniti, Cina, Russia, come la guerra ucraina dimostra, o che la riviera ligure di ponente non sia unita con le Alpi marittime francesi.

Bossi, anche se non era affatto un uomo semplice, conduceva una vita semplice. Emblematica è la foto in canotta in Sardegna con Berlusconi, il cui primo governo farà cadere con un esemplare discorso in Parlamento in perfetta lingua italiana. Quel discorso si concludeva così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Si illudeva povero senatur, e poveri noi (era il periodo in cui Bossi chiamava Berlusconi “Berluscaz”, “Berluschì”, “Berluscaso”, “Berluscosa”).

Uomo semplice, ho detto, dai gusti e dai modi semplici, la pizzeria era il suo luogo d’elezione. Ogni tanto, a me e a Daniele Vimercati, il suo primo biografo, verso mezzanotte, veniva in mente di chiamare l’Umberto e lui se non aveva altro di importante da fare arrivava, solo, senza scorta. Una volta mi telefonò dicendomi che voleva darmi la direzione dell’Indipendente sceso a livelli di tiratura molto bassi dopo il tradimento di Vittorio Feltri che, amante della lira, dell’euro, del dollaro come nessuno, aveva scelto Berluscaz. Gli dissi: “Beh, vieni a casa mia”. Ora, qualsiasi giornalista che abbia frequentato i politici sa che anche il più squallido dei portaborse ti fa passare per una decina di sottoportaborse che ti chiedono favori indebiti, altro che venire a casa tua. Quando fu da me l’Umberto, impressionato dalla mia libreria, volle fare il fenomeno e indicando un libro posto negli scaffali più alti disse: “Quella è La ragione aveva torto”. Non lo era, ma io gli risposi “Sì, Umberto, è La ragione” del resto Bossi, in fondo un timido, non aveva alcun bisogno di quegli escamotage. Era un grande assimilatore, prendeva da ciò che vedeva, sentiva, ascoltava e da quel poco che aveva letto o leggeva, ciò che gli serviva e lo riutilizzava poi ai suoi fini.

Una notte ero a cena con lui, in pizzeria naturalmente, e gli chiesi: “Sei più di destra o di sinistra?”. “Sono più di sinistra ma se lo scrivi ti faccio un culo così” (io poi lo scrissi, anche se qualche tempo dopo, mai dire nulla a un giornalista perché prima o poi lo tira fuori).

Bossi è un uomo di passione. E come tutti gli uomini di passione ha pagato con la salute. Nel 2004, a soli 63 anni, gli venne un primo ictus, piuttosto pesante. SI riprese. Venne a casa mia. E giocando ironicamente, perché l’ironia non gli mancava, rifacemmo lo sketch de La Ragione che questa volta indicò correttamente. Ma quella malattia alla lunga l’ha logorato. Ci incontrammo casualmente ai funerali di Gianroberto Casaleggio (2016). Quasi non mi riconobbe, ma quel che è peggio non riconobbe la mia bella segretaria di allora. E all’Umberto le donne, nordiste o sudiste che fossero, sono sempre piaciute (quando mi incontrava con belle ragazze diceva, sospettoso e ironico: “ah questi intellettuali…”).

AI funerali di Berluscaz mi ha fatto senso vederlo, ormai inerme, in carrozzella. Mi sento di dire che in un certo senso quel Bossi, ridotto com’era ridotto, era una fotografia dell’Italia attuale. Povero Umberto, poveri noi.

Il Fatto Quotidiano, 26.09.2023