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Cominciamo col fatto più semplice, quello che ha dato inizio a una sorta di ‘Mafia Capitale 2’: lo stadio della Roma. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai nella Capitale la Roma dovrebbe costruirsi un nuovo stadio quando uno stadio già c’è, efficiente e sufficiente. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai si dovrebbe fare questo nuovo stadio quando negli stessi uffici amministrativi della Capitale, nel 2017, si riteneva che sarebbe stato “una schifezza”. Così lo definiva Carlo Notarmuzi, titolare dell’ufficio per la concertazione amministrativa. Una schifezza, ma necessaria secondo lo stesso Notarmuzi. Perché necessaria? Elementare Watson. Lo spiega quanto è avvenuto, nel 1990, per lo stadio di San Siro. Secondo i preventivi doveva costare 35 miliardi di lire e invece arrivò a 170, rovinando oltretutto “la Scala del calcio”, il miglior stadio d’Europa insieme a Wembley e al Prater di Vienna. Necessario quindi perché si sapeva che il nuovo stadio avrebbe scatenato gli appetiti illegali di costruttori, amministratori, politici e partiti. La nuova giunta di Virginia Raggi inizialmente si oppose anche perché il nuovo stadio avrebbe distrutto un altro tempio dello sport, l’ippodromo di Tor di Valle. Ma per non fare la parte del nuovo Molotov, il diplomatico sovietico famoso perché diceva niet a tutto, la Raggi, che aveva già dato il suo no alle Olimpiadi, si accontentò di un ragionevole compromesso: il dimezzamento delle cubature in cemento. Ma la sostanza non è cambiata. Gli appetiti si sono ugualmente scatenati dando origine al cosiddetto ‘caso Parnasi’, il costruttore romano che, come a suo tempo Ligresti, ha le mani dappertutto e su tutto. Ma rispetto alla già grave vicenda Ligresti ci sono due differenze. Parnasi non ha solo “le mani sulla città”, per usare il titolo di un film di Rosi, cioè su Roma, ma anche su Milano e altri centri nevralgici del Paese. La seconda differenza è che qui sono coinvolti tutti, ma proprio tutti, gli strati sociali: partiti, politici, amministratori di ogni rango, palazzinari, imprenditori, brasseur d’affaires, avvocati di grido, docenti universitari, l’Opus Dei. Che Roma sia corrotta e parassitaria lo si sa dai tempi dell’Impero. Ma adesso questa corruzione, discendendo giù per li rami, ha creato metastasi in tutto il Paese.

Lo spartiacque sono state le inchieste di Mani Pulite del 1992-94 quando i magistrati di Milano chiamarono anche ‘lorsignori’ a rispondere a quelle leggi che tutti noi siamo tenuti a rispettare. Per un momento sembrò che questa fosse l’occasione per la nostra classe dirigente per emendarsi di atavici vizi che avevano già fatto capolino fin dai primi anni Sessanta e che poi si erano estesi a tutti i partiti e a buona parte degli imprenditori. Il pool di Milano acquisì una risonanza non solo nazionale ma anche internazionale e l’Italia venne indicata come “Paese esemplare” che sapeva rimediare ai propri atavici difetti. Antonio Di Pietro divenne un eroe nazionale omaggiato e corteggiato da tutti (le famose “dieci domande a Tonino” di un editoriale di Paolo Mieli sul Corriere; il nuovo premier Berlusconi voleva fare di lui il proprio ministro degli Interni). Fu solo un lampo. Bastarono due anni per capovolgere, in un drammatico gioco delle tre tavolette, l’orientamento non solo della classe politica ma anche, attraverso i media berlusconiani e non solo, della popolazione: i magistrati divennero i veri colpevoli, i ladri le vittime e Di Pietro l’uomo più attaccato d’Italia.

Da allora, nel totale disgregamento etico degli italiani, non è venuta a mancare di fatto solo la sanzione penale, ma anche quella, forse ancor più importante, sociale, che pur nei primi anni ‘90 esisteva ancora. Emblematico è il caso di Luigi Bisignani. Piduista, condannato a due anni e sei mesi di reclusione per reati contro la PA e radiato dall’Ordine dei giornalisti. Si penserebbe che un simile soggetto non avrebbe più potuto metter piede nemmeno nel più marginale degli uffici pubblici. Invece lo ritroviamo coinvolto come consigliere dell’amministratore delegato delle Ferrovie Lorenzo Necci nella cosiddetta ‘Tangentopoli due’. Diventa poi consigliere di Scaroni presidente dell’Eni, per i suoi rapporti privilegiati con la Libia. Coinvolto poi ancora nella vicenda 'P4' lo troviamo oggi indagato per lo scandalo dello stadio della Roma. Nel frattempo è diventato editorialista e un ambito ospite dei talk show televisivi.

Adesso nel malcostume generale sono stati coinvolti anche dei rappresentanti dei 5Stelle, i vessilliferi della legalità. Credo che rimontare una situazione del genere che perdura da quasi quarant’anni sia impossibile anche per chi abbia le migliori intenzioni. Come scrissi in un articolo sul Fatto di qualche tempo fa: in Italia ci sarebbero così tante cose da fare, che ormai non c’è più nulla da fare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2018

 

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Su Youtube si assiste a un fenomeno curioso, interessante e anche vagamente inquietante. Un certo Gab Loter, nome chiaramente di fantasia, che preferisce restare nell’anonimato (si sa solo che ha una trentina d’anni), ha la stessa, identica, voce, lo stesso timbro, le stesse lente cadenze, le stesse pause di Fabrizio De André. Ma non canta i brani del celeberrimo aedo (che Paolo Villaggio, esagerando un po’ come suo solito, definiva “il più grande poeta del Novecento”) ma dei rapper oggi in voga, da Fedez in giù. Ora, i versi dei rapper paiono non solo a noi, che siamo del pleistocene, ma anche a un sessantenne, a un cinquantenne, a un quarantenne, di una banalità sconcertante (“Tu sei come il mare/ volevo dirtelo” di Ermal Meta, ma che roba è?). Cantate però dallo pseudo De André acquistano se non un’abissale profondità certamente un senso che a noi ‘vegi’ (intendo le persone dai quaranta in su) senza l’intermediazione di Gab Loter sfugge. Evidentemente riportati su codici musicali che conosciamo o riconosciamo, quelli di De André, riusciamo a capirne anche i testi. Per i ventenni e i trentenni invece la comprensione è immediata. Non hanno bisogno di codici. Li hanno già dentro di sé.

Bravo, dirà il lettore, hai scoperto l’acqua calda: il gap generazionale, che è sempre esistito. Fino a un certo punto. Un tempo, non poi così lontano, diciamo nei Cinquanta, i sociologi e la gente comune misuravano il gap generazionale in vent’anni. Se andiamo solo un po’ più indietro, i valori della generazione di mio padre, che era del 1901, restavano ottocenteschi, non molto dissimili quindi da quelli delle generazioni precedenti. Il gap c’era, ma molto più dilatato nel tempo. Andando ancora più indietro, scavalcando a ritroso la Rivoluzione industriale, nella società statica medioevale il gap era praticamente inesistente.

Una ventina di anni fa ho assistito a un divertente siparietto fra mio figlio, che aveva allora 22 anni, e un ragazzetto di 17 che c’era capitato in casa. Naturalmente per mio figlio, che era allora appassionato, mi pare, di R&B (anche se c’era una fondamentale distinzione fra l’R&B classico e quello contemporaneo) io non capivo nulla di musica moderna, e non solo, ero un uomo del pleistocene. I due si misero a discutere: secondo il piccolo ospite era mio figlio a non capire un cacchio di musica, era lui il pleistocenico. Eppure fra i due correvano solo cinque anni di differenza (se mio figlio legge queste righe anticipa l’eutanasia cui gli ho dato diritto).

Ritorniamo a Gab Loter. Mi pare che il suo esperimento metta il dito, non so quanto coscientemente, su uno degli ‘idola’ della nostra società: la velocità. Il ritmo di Gab Loter è lento e quindi il suo dire comprensibile a tutti, quello dei rapper precipitoso e quindi ciò che vogliono comunicare incomprensibile se non ai loro adepti.

Usciamo dal campo della musica. Sono le violente e continue accelerazioni cui ci costringe la società tecnologica a farci viver male. Negli Stati Uniti, soprattutto in campo digitale, si è obsoleti già a quarant’anni. Se in Italia i cinquantenni non trovano lavoro non è solo perché non c’è ma anche perché il loro know-how è superato (qualcuno ricorderà, forse, il bel film di Soldini “Giorni e nuvole”). E’ difficile, logorante, sfibrante tener dietro ai continui cambiamenti.

Ma c’è qualcosa di più profondo e di più grave. La velocità ci impedisce di riflettere. C’è un bel libro, “La scoperta della lentezza” di Sten Nadolny. Racconta la storia di un ragazzo che, rispetto ai suoi coetanei, è lento di riflessi, quasi torpido, sempre ultimo nei giochi. Si chiama John Franklin. Diventerà un grande esploratore polare e lo scopritore del leggendario passaggio a nord-ovest nell’Artico. Cos’era successo? Mentre i suoi compagni si sfrenavano nei giochi lui rimuginava, osservava, incamerava, assimilava.

Sì, dovremmo andare più lenti, molto più lenti. Perché la velocità ci impedisce di riflettere e finisce per offuscare l’intelligenza e la sensibilità. Non è un caso che non nascano più, almeno nell’ultradinamico Occidente, scrittori del livello di Proust, di Céline, di Kafka, di Dostoevskij e di tutta la straordinaria filiera dei grandi autori russi. Non è certamente un caso che l’ultimo filosofo degno di questo nome sia stato Martin Heidegger, attivo negli anni Trenta del Novecento, che pose al centro della sua riflessione proprio la Tecnica. E mi rifiuto di pensare che se, imitando Gab Loter in altro campo, leggessimo Massimo Cacciari con i ritmi della scrittura heideggeriana il pensiero del filosofo veneziano risulterebbe diverso da quello che appare: privo di senso.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2018

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Il problema dell’Europa non è l’Italia, col suo pesantissimo debito pubblico accumulato soprattutto negli anni del glorioso CAF, con le pensioni di vecchiaia fasulle, di invalidità inventate, con le ‘pensioni d’oro’ e tutto lo smercio del voto di scambio, né la Spagna con l’indipendentismo catalano, né la periclitante Grecia.

Il problema è la Francia. Con la sua ridicola e pericolosa grandeur, la sua boria o, per esprimerci con le parole di Palazzo Chigi nei giorni dello scontro con Macron, “col suo atteggiamento di superiorità insopportabile”. Questi credono di vivere ancora l’epopea di Napoleone. Anche se pur sul teppista corso ci sarebbe poi da ridire: con i quattro milioni di soldati messi sul campo abbandonando la civile guerre en dentelles degli austriaci, e la democrazia esportata in Europa sulla punta delle baionette.

Comunque da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Non si era ancora spenta l’eco dei processi di Norimberga e di Tokio, che secondo le intenzioni avrebbero dovuto “escludere la guerra dalla vita della società”, che già le truppe francesi soffocavano con l’atroce brutalità di sempre un disperato tentativo del Madagascar di liberarsi delle manette coloniali. Questa vile e facile vittoria è stata l’unica della loro storia post napoleonica. Dopo non hanno fatto altro che buscarle. Nel 1870 nella guerra franco-prussiana i tedeschi annientarono in un sol mese l’esercito di Napoleone III. Nella prima Guerra Mondiale furono sconfitti dai tedeschi a Charleroi, si ritirarono sulla Marna e furono salvati dagli inglesi, come sempre dagli inglesi fu salvata non solo la Francia ma l’intera Europa nella seconda Guerra Mondiale. L’insuperabile Linea Maginot fu irrisa da Hitler che, passando per il Belgio, dopo pochi mesi passeggiava sugli Champs-Elysée. Il collaborazionismo francese col governo Pétain fu maggiore di quello degli italiani che pur dei nazisti erano alleati. Durante il governo fantoccio di Pètain, Gerhard Heller, il funzionario tedesco che doveva occuparsi di tenere sotto controllo i letterati e gli scrittori francesi sospettati di essere contrari al regime, si meravigliava che le denunce contro costoro venissero molto più dai loro connazionali che dai nazisti e dalla Gestapo. Nonostante tutto ciò, grazie all’escamotage del governo De Gaulle riparato a Londra, riuscirono a sedersi al tavolo della pace da vincitori a fianco degli inglesi, degli americani e dei russi che quella guerra, con enormi sacrifici di sangue, l’avevano combattuta e vinta davvero.

Nel 1954 furono sconfitti rovinosamente dai vietnamiti a Dien Bien Phu.

Però i ‘cugini d’oltralpe’ continuano imperterriti nel loro grottesco “complesso di superiorità” e nei tempi più recenti hanno causato danni gravissimi all’Europa e soprattutto all’Italia. La sciagurata aggressione alla Libia è stata una loro iniziativa. Sono stati poi seguiti dagli immancabili americani e purtroppo anche da noi italiani, eternamente autolesionisti. Il nostro premier del tempo, Silvio Berlusconi, grande amico di Gheddafi, era contrario ma si accodò per sottomissione agli americani come aveva fatto D’Alema nel 1999 nella guerra alla Serbia. Con la differenza che D’Alema non era amico di Milosevic e quindi Berlusconi, nel suo sottomettersi, è stato doppiamente coglione. Per giustificarlo si dice che fu il presidente Giorgio Napolitano a convincerlo. Ma per Napolitano-Berlusconi vale quanto abbiamo scritto per Mattarella-Conte: in una Repubblica parlamentare, qual è fino a prova contraria la nostra, la politica la fa il premier e non il Presidente della Repubblica.

Per non farsi mancar nulla i francesi, forse gli unici rimasti ad avere una mentalità colonialista vecchio stampo, hanno aggredito il Mali del nord abitato da pacifici Tuareg che, per difesa, si sono uniti agli jihadisti locali. Da qui la guerra e l’altrimenti inspiegabile migrazione maliana.

Dopo essere stati responsabili in notevole misura delle migrazioni, adesso i francesi respingono questi disperati ai loro confini, da Ventimiglia a Bardonecchia (per la verità a Bardonecchia sono andati anche oltre, penetrando con i loro militari nel nostro territorio). E nei giorni scorsi si sono permessi di bollarci, per il caso Acquarius, come “irresponsabili, cinici e vomitevoli”.

Però in questo caso una funzione utile l’hanno avuta. Ci hanno restituito un pizzico d’orgoglio d’esser italiani, che abbiamo eterni difetti che eternamente si ripetono (vedi il nuovo ‘caso Roma’ che coinvolge anche i Cinque Stelle), ma almeno non siamo schifosamente sciovinisti come i francesi che non ne hanno di meno.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2018