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Mosca, dicembre. Ogni mattina uscendo dal mio albergo, il Metropol, a due passi dalla piazza Rossa, venivo fermato all'altezza della stazione del metrò del Museo di Lenin da alcuni ragazzi che volevano vendermi caviale, salmone siberiano, pellicce, colbacchi e scambiare rubli contro dollari. Con uno di questi, un bel biondino molto sveglio che parlava bene l'Italiano ed una mezza dozzina di altre lingue, avevo finito per fraternizzare un poco anche se non gli avevo comprato mai nulla perché desideravo evitare ogni tipo di possibili grane con le autorità. Anche la mattina successiva al furto il biondino mi abbordò, testardo. Gli dissi: «Caschi male, carino, perché proprio ieri mi hanno “ripulito”. e gli raccontai la cosa. «Ah, allora avrai bisogno di soldi. Potresti vendermi il tuo orologio, disse lui adocchiando il mio modesto Seiko. «l 'orologio non te lo vendo, perché mi serve, risposi «però ho dei maglioni, dei jeans e delle cravatte che forse ti possono interessare». Rientrai in albergo e ritornai, poco dopo, con un sacchetto in cui avevo messo i vestiti. Il biondino cercava un posto tranquillo dove trattare la cosa. Provammo ai giardinetti di piazza Sverdlov, ma secondo lui c'era troppa gente. Finì per condurmi nei gabinetti d'un grande albergo e ci infilammo, insieme, in un cesso. Mi fece segno di far silenzio mentre esaminava la roba. A gesti concordammo il prezzo. Furtivamente uscimmo con i nostri sacchetti, proprio mentre un corpulento signore, vestito di grigio, entrava nell'androne dei gabinetti. l 'uomo mi guardò fisso. Io impallidii. Poi arrossii violentemente, ma respirai di sollievo. Dal suo sguardo di rimprovero avevo capito che non era un agente del Kgb, ma solo un bravo borghese russo molto indignato: m'aveva preso per un «uomo azzurro».  Di polizia a Mosca se ne vede pochissima, molto meno che a Roma o a Milano o a Parigi o a New York. Sì, ci sono molti miliziani in divisa in giro, ma hanno la cartella e l'aria frettolosa di chi sta andando a far compere. Polizia schierata non ce n'è, neanche davanti ai grandi palazzi governativi del Cremlino dove bastano un paio di poliziotti col fischietto a far tenere alla gente la distanza di rispetto (una cinquantina di metri, del resto nell'area del Cremlino, come sulla piazza Rossa, bisogna muoversi su percorsi obbligati segnati, in calce bianca, sull'asfalto). Un miliziano monta la guardia, infreddolitissimo, davanti ai quartieri-ghetto dove sono concentrati i giornalisti e i diplomatici occidentali ed un miliziano, piazzato a gambe larghe nel centro della strada, controlla che sulle grandi arterie di Mosca le macchine dei comuni mortali non invadano la corsia di centro riservata alle Zil, alle Caika, alle Volga della nomenclatura. Ma, a parte questi casi, è abbastanza raro vedere un poliziotto nell'esercizio delle sue funzioni. La vera polizia è Quella che non si vede Però, a Mosca, la vera polizia è proprio quella che non si vede, è nella ragnatela fittissima degli agenti in borghese, nelle finte guide dell'lntourist, nei giornalisti, negli impiegati degli alberghi, nei telefonisti, nei falsi operai che fan finta di riparare qualcosa. È  una presenza impalpabile. ma che si sente, che si sa che c'è e la cui forza non sta tanto nell'efficienza (volendo controllare tutto e tutti infatti la polizia sovietica finisce, di fatto, per non controllare niente), ma nella paura che riesce ad incutere e che paralizza la gente, la rende timorosa di tutto. Due sere prima di partire una delle mie amiche russe mi chiese se potevo portare con me una lettera che, arrivato in Italia, avrei dovuto spedire a Roma. Era stata molto gentile e non potevo dirle di no. Ma, per prudenza, una volta in albergo, lessi la lettera con un po' di tremarella ed un pizzico di curiosità: era una lettera d'amore, anzi l'anticamera d'una lettera d'amore. Il giorno dopo chiesi alla mia amica se pensava che tutta la posta in uscita dall'Urss fosse controllata e se era proibito corrispondere con gli stranieri. Mi rispose di sì, che riteneva che le lettere per l'estero fossero tutte controllate. La corrispondenza con gli stranieri non era formalmente vietata, ma si sapeva che le autorità non la vedevano di buon occhio e che potevano venirne delle grane. Infatti un'altra delle grandi forze del sistema di polizia sovietico sta nella indeterminatezza di ciò che è lecito e di ciò che non lo è, per cui il cittadino vive in uno stato di perenne senso di colpa e, proprio per questo, finisce spesso per smascherarsi da sé.Ma in realtà tutto è indefinito a Mosca. Non esiste una guida del telefono, non esiste uno stradario. Anche le mappe più complete di Mosca, quelle che riportano le vie più piccole, ne dimenticano però delle altre molto più grandi. Per cui, molto spesso, bisogna affidarsi ai sentito dire, alle indicazioni vaghe, agli amici, ai taxisti se ne han voglia. Sulla guida stradale di Mosca cercavo appunto la via Granovskij e non la trovavo. I taxisti la ignoravano e anche Masha diceva di non saperne nulla. Perché cercavo proprio via Granovskij? Perche Hedrick Smith, nel suo libro l russi, scrive che al numero 2 di questa via c'è un magazzino dove i dirigenti del Comitato centrale e le loro famiglie si possono rifornire d'ogni ben di Dio. E naturalmente volevo verificare. Alla fine Masha decise di ricordarsi dove era questa via Granovskij e mi ci portò. Ma aveva talmente paura che le dissi di lasciarmi solo e di tornare a casa. Mi inoltrai per la via Granovskij, una delle strade-bene di Mosca, non lontana dal Cremlino. Sulla facciata d'una stupenda casa barocca, d'un rosa cupo, una lapide ricordava che lì aveva abitato Kossighin (per la verità in quella casa aveva vissuto anche Trotskij, nel 1927, quando era stato espulso dal partito e aveva dovuto lasciare il suo alloggio al Cremlino). Davanti a questa storica casa e fino all'angolo della via stazionavano una ventina di Volga nere e qualche grossa Mercedes. Di fronte, sul lato opposto della strada, c'era un nudo e grigio edificio sulla cui porta d'ingresso era scritto semplicemente: «Ufficio lasciapassare». Gli autisti delle Volga uscivano da questo edificio con dei grossi pacchi, li caricavano sulle macchine e partivano. tra un movimento continuo. alle Volga e alle Mercedes che se ne andavano se ne sostituivano altre in arrivo. A volte sui sedili posteriori erano sedute delle eleganti signore. Su una limousine intravidi un uomo di mezza età con un bel cappotto grigio ed il cappello. Faceva una certa impressione, devo dire, vedere quella gente che si portava via, in tutta tranquillità, quello che I'enorme folla di Mosca cerca affannosamente, e spesso inutilmente, per tutta la sua giornata oltre a generi di lusso come caviale, salmone, storione in scatola, carne scelta, vini pregiati della Georgia e della Moldavia e prodotti d'importazione inabbordabili per le masse russe: cognac e profumi francesi, whisky scozzese, sigarette americane, cravatte italiane, radio tedesche, apparecchi stereo giapponesi. La società sovietica è divisa in caste che hanno vite diverse, regole diverse, negozi diversi, soldi diversi e quasi nessun contatto fra loro. Le tre caste più evidenti sono: la nomenclatura (cioè il vasto ceto politico), gli stranieri, la gente comune. Poi ci sono una serie di sottocaste, i militari, gli artisti, gli scienziati, gli sportivi, la potentissima unione scrittori, ognuna con i suoi privilegi particolari. «Superato il cancello grigio trovai tre miliziani...» Anche i cimiteri sono divisi in caste, ci sono i cimiteri popolari, quelli un po' più su, come il Vagankovskoie, e quelli della gente-bene, come il cimitero del Novodievici Monastir, dove si entra solo se muniti di lasciapassare. Proprio qui, al Novodievici, volevo recarmi perché ci sono la tomba di Kruscev, quella di Allelujeva Stalina, l'ultima e infelice moglie di Stalin, quella del musicista Scriabin e, secondo mia madre, ci dovrebbero essere anche le tombe dei miei bisnonni. Ma Masha me lo disse subito: «Guarda che non ti faranno entrare, ci vuole il lasciapassare». «Figurati se ci vuole il lasciapassare per entrare in un cimitero». «Prova...». Ed infatti provai, ma avevo appena superato il grigio cancello socchiuso che tre miliziani mi si fecero incontro e mi allontanarono in modo duro, sgarbato, respingendomi su] portone proprio mentre vi entrava una bionda signora esibendo il lasciapassare marrone avvolto in una elegante custodia di pelle. Gli stranieri hanno i loro negozi, i beriozka, e, fra le altre cose, godono del curioso privilegio di non far le lunghissime i file che si creano davanti al mausoleo di Lenin o per entrare alla galleria Tretiakov o in qualsiasi altro museo di Mosca. Per essere più precisi gli stranieri possono, mostrando il passaporto, inserirsi a metà della fila. Non è una forma di cortesia nei confronti dell'ospite venuto da lontano, come si potrebbe pensare, è che gli stranieri appartengono ad una casta diversa, che ha un regime particolare e fra i cui diritti c'è anche quello di fare mezza coda. Come vivono i russi questo sistema che ha istituzionalizzato il privilegio e il principio di un doppio livello di vita, uno per l' elite, l'altro per le masse? Lo subiscono passivamente, con fatalismo, cercando di non vedere. Del resto la nomenclatura è sufficientemente accorta per non ostentare i propri privilegi (l'atmosfera di discrezione in cui sono avvolti i traffici di via Granovskij ne è un esempio), cerca di farsi vedere il meno possibile in giro, ha calato fra sé e la gente una parete di segretezza: vive in ghetti residenziali, frequenta club riservati. ha le sue cliniche, addirittura i suoi aeroporti (il Vnukovo II), gira per Mosca solo in macchina e con le tendine grigie perennemente abbassate per sottrarsi agli sguardi. La gente comune, come si è detto, subisce tutto questo con una certa indifferenza. Del resto l'indifferenza, almeno così mi è sembrato, è il sentimento che la maggioranza dei russi nutre nei confronti del regime. Non c'è adesione, ma non c'è nemmeno rifiuto. Ogni russo cerca di arrangiarsi come meglio può sotto il regime, gli rende l'omaggio formale che viene richiesto, e che è utile per non aver grane, eppoi si fa i fatti suoi. Un pomeriggio, con Masha, entrai in un negozietto del vecchio Arbat che vendeva poster. C'erano manifesti.di Lenin, di Marx, di Engels, del Politburo al completo e altri che raffiguravano “il lavoratore socialista”, il volto scolpito e severo, in quegli atteggiamenti scultorei così cari alla retorica sovietica. «Ma chi li compra?»,  chiesi a Masha, «nelle vostre case non ne ho mai visti». «Li compriamo noi», rispose lei, «quando ci sono feste nazionali e li mettiamo nei nostri uffici». A parte i dissidenti, che comunque sono un gruppo ristrettissimo, i russi non hanno una coscienza politica come la intendiamo noi. Proteste politiche contro il regime non sono nemmeno pensabili da parte della maggioranza e non solo per una questione di polizia. Il dissenso, quando c'è, si esprime semmai in forme molto indirette come al cimitero di Vagankovoskoie dove la tomba di Vladimir Vissozkij, un cantore di ballate che sotto Breznev conobbe la prigione per ii suo spirito anticonformista, è letteralmente sommersa dai fiori, mentre, proprio accanto, quella di un famoso partigiano moscovita che si immolò contro le truppe tedesche è lasciata desolantemente abbandonata (cosa che ha provocato, a quanto pare, l'ira di Gorbaciov). Ma tutto si ferma qui. Del resto di politica e di storia i russi conoscono quello che gli hanno insegnato la scuola e la propaganda. Di Trotskij non sanno che fu il comandante dell' Armata Rossa, ma che litigò con Lenin e che non volle firmare la pace con i tedeschi, cosa che provocò grandi lutti. E tutto va di conseguenza. Così Masha, che è una ragazza intelligente, colta, sensibile, che non è iscritta al partito, che vive anzi ai limiti consentiti dal regime, una volta che le chiesi cosa pensasse dell'intervento sovietico in Afghanistan, rispose: «Hanno fatto bene». In un'altra occasione mi disse: «In un libro giallo italiano ho letto che il Kgb tortura la gente e mi sono indignata. Queste cose da noi non succedono».Dei protagonisti recenti della storia sovietica sanno con infallibile sensibilità qual è la loro esatta collocazione negli umori attuali del Cremlino. Dopo aver visitato il mausoleo di Lenin si gira dietro, dove ci sono le tombe dei più alti dirigenti del partito sormontate dai loro busti. La prima è quella, recentissima, di Cernenko, poi viene Andropov e così via. Quando, seguendo la fila, arrivammo alla penultima vidi l'effigie inconfondibile di Stalin. Mi fermai un attimo, stupito di trovarlo lì. Ma Masha mi spinse subito avanti: «Per carità. Via, via. Non fermarti proprio qui». Stalin infatti oggi è parzialmente riabilitato anche se non è più il «piccolo padre». Ma la consegna tacita è che meno se ne parla e meno lo si nota e meglio è. I russi sono nazionalisti. Ma in modo ingenuo, quasi candido. A differenza degli americani non si inorgogliscono della potenza militare, del prestigio, delle ricchezze ma d'altro: loro sono più belli, sono più generosi, sono più buoni, la Russia è il Paese più vasto del mondo e così via. Degli americani hanno paura e non si può dire, dal loro punto di vista, che abbiano tutti, i torti. Parlo della gente. Un picchetto di soldati fisicamente identici Di qualità tutta diversa è, naturalmente, il nazionalismo del regime il cui carattere è bene espresso, simbolicamente, dall'impressionante cambio della guardia davanti al mausoleo di Lenin. Ogni giorno una folla enorme si raccoglie sulla piazza Rossa per assistere a questa cerimonia, una folla che s'ingrossa man mano che si avvicina il momento del cambio, allo scadere di ogni ora. I soldati, due reclute giovanissime, il viso arrossato dal freddo, il fucile imbracciato, stanno immobili, impassibili, uno di fronte all'altro, davanti all'ingresso del mausoleo, mentre il vento gelido fa oscillare le lunghe palandrane grigie. Pochi minuti prima dello scadere dell'ora si sentono dei forti e cadenzati passi di stivali: al di là della folla che preme si vede venire avanti un ufficiale con i due soldati destinati a dare il cambio alle sentinelle. Il picchetto sale i gradini del mausoleo, si ferma per qualche secondo davanti alla porta chiusa, le spalle rivolte alla folla. Quando la Spasskaia, la torre del Cremlino, suona l'ora, con un movimento rotatorio quasi impercettibile avviene il cambio: i soldati del picchetto sono ora al posto delle sentinelle e queste ai fianchi dell'ufficiale, il viso verso la folla. I soldati sono scelti fisicamente identici, o molto simili, in modo da accentuare la spettacolarità del cambio. C'è ancora un momento di pausa, poi l'ufficiale ed i soldati del picchetto alzano a dismisura la gamba stivalata e la tengono così, alta, rigida, puntata verso la folla, per un istante interminabile, calandola poi di colpo, con un tonfo di stivale, per alzare l'altra. La folla si scioglie, ridendo di nascosto. L 'immensa piazza si fa quasi deserta, ma là sotto la Spasskaia le tre figurette continuano a marciare rigide nel loro grottesco passo dell'oca, burattini tragici mossi da fili invisibili. È la stessa rigidità, se si vuole, che si trova nei cosiddetti «russi ufficiali», cioè i russi del regime. Sono stato un tardo pomeriggio da Cecilia Kin, italianista insigne, membro dell' Unione scrittori. Ho bevuto il tè nella sua bella casa, protetta dalle file di aceri e di tigli della Crasnoarmescaia, una delle vie più belle di Mosca, una casa che si può permettere anche il lusso della portinaia (una vecchina, l'Unione Sovietica si regge sulle vecchine, che dorme in una brandina piazzata in un sottoscala). La Kin, una piccola e anziana signora, conosce tutti in Italia, da Sciascia ad Einaudi, da Scalfari a Montanelli, ed è straordinariamente addentro alle cose italiane, alle beghe italiane, agli intrallazzi italiani. Mi chiese del Corriere, del Giorno, di Zucconi («democristiano, ma grande giornalista»). Ma ogni volta che io spostavo il discorso sulle vicende russe mi rispondeva: «Non ricordo, non so. lo vivo ormai chiusa in casa, vado pochissimo fuori». Le chiesi allora di Giuliano Gramsci, il figlio di Antonio che vive qui a Mosca (quel Sulik a cui Gramsci, dal carcere, spediva a Mosca, dove la moglie s'era rifugiata, lettere splendide e strazianti, sforzandosi di mantenere, nonostante tutto e contro tutto, un rapporto col figlioletto separato da lui dalle mura del carcere, dal regime, da migliaia di chilometri, da molte frontiere, e da anni di lontananza). Mi disse che Giuliano fa il musicista e mi parlò della.sua ammirazione per Antonio Gramsci che fonde in sé, cosa rarissima, le qualità del grande politico e del grande scrittore. Le dissi che ero d'accordo e che un altro caso del genere mi pareva essere quello di Trotskij. «Trotskij? Ho letto molto poco di lui, non saprei dirle». La Kin si disse entusiasta di Gorbaciov (che del resto qui piace anche alla gente comune se non altro perché quando parla «non legge la lista, come facevano quelli di prima» ). «Noi intellettuali ci attendiamo molto da Gorbaciov» mi disse la Kin, ma quando le chiesi che cosa non funzionasse prima di lui disse che anche prima andava tutto benissimo. Le  chiesi di Tichonov. «Credo alla versione ufficiale. Era malato». Un'altra cosa che piaceva molto a Cecilia Kin era la campagna lanciata da Gorbaciov contro l'alcolismo e la vodka. Molti negozi di alcolici sono stati chiusi a Mosca, agli altri è stato imposto un orario rigido: dalle due alle sette del pomeriggio. Anche i ristoranti vi si devono attenere ( è il motivo per cui ristoranti normalmente zeppi ed inabbordabili come il georgiano Aragvi sono insolitamente vuoti se ci si va verso mezzogiorno e mezzo, l'una). Per ora la campagna contro la vodka ha avuto come unico risultato quello di allungare le già poderose file davanti agli spacci di alcolici, file che adesso si attorcigliano come la coda di un serpente intorno ad interi isolati. In queste file ci sono uomini, ci sono donne, ci sono casalinghe, ci sono vecchi, ci sono operai, ci sono impiegati, c'è tutto il popolo minuto di Mosca. Alla fine quando escono dagli spacci, chi stravolto, chi trionfante, chi con l'aria furtiva ed un po' vergognosa davanti agli occhi del miliziano che vigila, consegnano due delle tre bottiglie che hanno comprato (il massimo consentito) agli amici in trepida attesa e i più spudorati vanno a tracannarsele subito in qualche deserto giardino dei paraggi. Una delle primissime misure prese da Lenin e Trotskij appena giunti al potere fu quella di combattere con i mezzi più drastici «la piaga dell'alcolismo, questa vergognosa eredità della Russia zarista». Ma, come si vede, nemmeno loro arrivarono a capo di nulla. Quella domanda fatta all'improvviso Eravamo seduti sulla panchina di legno di uno di quei graziosi cortiletti d'aceri e di pioppi scampati alla distruzione dell'antica Mosca, in un quartiere di vie strette e di casette liberty, desolato e semidisabitato, che sta alle spalle del vecchio Arbat e del terrificante viale Kalinin. I rumori dell'incessante folla di Mosca ci giungevano attutiti, lontani, estranei. Su uno degli angoli del cortile si alzava una vecchia fabbrica, con le grandi vetrate opache tipiche degli inizi del secolo e la scala di ferro antincendio che si inerpicava su per i muri esterni fino alla ci- miniera spenta. Un bimbetto giocava solitario attorno a una pozzanghera tirando la sua barchetta. Guardavo in silenzio il profilo immobile di Masha, i suoi occhi verdi, melanconici. Era la sera degli addii, partivo l'indomani. All'improvviso Masha mi chiese: «Tornerai ancora a Mosca?». Non era una domanda formale. Dieci giorni fianco a fianco avevano creato fra di noi un'intesa, forse l'abbozzo di un sentimento. Era comunque, come diceva lei, una «tranche de vie», una fetta di vita, che ci lasciavamo alle spalle. Alla sua domanda volevo perciò dare, a mia volta, una risposta che non fosse convenzionale, di circostanza, che riassumesse il senso di quello che avevo vissuto e visto nel mio soggiorno a Mosca. Ma non trovavo le parole e tacevo. Masha chiese di nuovo: «Allora, tornerai a Mosca?». «Sì, con gioia», risposi «quando non ci sarà più bisogno del lasciapassare per entrare in un cimitero».