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Quando cinque anni fa Komeini rovesciò lo scià e prese il potere in Iran l'atteggiamento dell'opinione pubblica internazionale di sinistra fu quello di vedere nella rivoluzione komeinista una rivoluzione marxista e nell' Imanun epigono terzomondisti dell' ottobre russo. Il lettore ricorderà, forse, le comiche equazioni che facevano allora i giornali come l' Unità e la Repubblica: Baktiar uguale Kerenski, Komeini uguale Lenin. Ma Komeini, fra l'imbarazzo delle sinistre, uscì subito da questi schemi posticci dimostrando che il suo odio antimarxista e antisovietico era perlomeno uguale all'odio antiamericano e anticapitalista. Da quel momento l'iman divenne, a sinistra come a destra, il pazzo, il criminale, il sanguinario, una mina vagante nei rapporti Est-Ovest dove è considerato razionale solo ciò che rispetta la logica del patto di Yalta e la spartizione del mondo fra Usa e Urss che li si sancì.  Io credo che Komeini e la sua rivoluzione meritino un'attenzione meno prevenuta (prevenuta in un senso o nell'altro) di quella che gli è stata dedicata dopo che è caduta l'illusione di potergli appioppare un' etichetta marxista e ci si è fatti prendere dal raccapriccio perché in Iran si imponeva il chador alle donne. C' è qualcosa di più importante del chador in quanto sta facendo Komeini. E proprio la guerra Iraq-Iran (scatenata peraltro dall'Iraq) lo sta dimostrando. In questa guerra abbiamo infatti da una parte, quella dell'Iraq, un esercito regolare, tradizionale, equipaggiato con armi modernissime, per metà con l'aiuto della Francia e per metà con quello dell'Unione Sovietica, e per di più foraggiato dai milioni di dollari forniti dai paesi del Golfo Persico. Dall'altra, quella dell' Iran, un paese con un esercito regolare scalcagnato, povero d'armi, di mezzi e di quattrini, ma che, come scriveva l' altro giorno su questo giornale Romanello Cantini, ha potuto buttare sul fronte «centinaia di migliaia di uomini esaltati dalla predicazione della guerra santa». Si tratta quindi, indiscutibilmente,  da parte dell'Iran, di una «guerra di popolo» nel senso in cui la intendeva Clausewitz. Clausewitz sosteneva infatti che, dopo la Rivoluzione francese, le guerre non avrebbero più potuto essere che «guerre di popolo», fatte da eserciti di uomini, consapevoli ed entusiasti per la causa per la quale combattevano, i quali avrebbero preso il posto dei soldati-macchina dello Stato Assoluto. Questa è l'opinione anche di quel fine scrittore («Una sfida nel Kurdistan», «Elogio funebre del generale von Lignitz» ) e, insieme, grande studioso della guerra che è Jean-Jacques Langendorf («Il pensiero militare prussiano fra l'illuminismo e il romanticismo») che ho incontrato il mese scorso a Vienna: «Non sono un ammiratore di Komeini, per niente -mi ha detto-, ma devo ammettere che, dal punto di vista politico-militare, la guerra Iraq-Iran è molto interessante. Perchè abbiamo la stessa condizione delle guerre dell'epoca di Valmy, subito dopo la Rivoluzione francese. Da una parte infatti c'è un paese tradizionale, con un esercito tradizionale, l'Iraq, che ha scatenato una guerra di reazione contro l'Iran proprio come i tedeschi e gli austriaci fecero con la Francia per ricacciarle in gola la Rivoluzione. Dall'altra parte, gli iranianiani hanno fatto un'incredibile mobilitazione di massa. Anche i vecchi generali dello scià hanno combattuto, anche i bambini hanno combattuto. E' un esempio di “guerra di popolo” e della sua efficacia. L'Iran, in pratica, s'è battuto solo con gli uomini, per di più male organizzati perchè la gente è partita per il fronte senza nessuna preparazione, avendo ricevuto una divisa, un fucile e avendo visto al cinema qualche film americano sulla guerra». Ma la cosa più straordinaria è che Komeini è riuscito a fare una «guerra di popolo» in un'epoca tecnologica dominata dagli eserciti professionali (in un certo senso c'è stato infatti un ritorno, nell'era moderna, ai soldati-macchina dello Stato Assoluto) e in cui si pensava che l'uomo non contasse più niente. Si dirà, pensando al Vietnam o all'Afghanistan, che «guerre di popolo» se ne sono già viste anche nell'era tecnologica. Ma, secondo me, v'è una differenza fondamentale. In Vietnam e in Afghanistan abbiamo avuto o abbiamo, più che una guerra, una guerriglia condotta contro un esercito occupante invasore e la motivazione e la mobilitazione polare erano e sono relativamente facili perchè vengono da quell'antico e incoercibile impulso che è la liberazione nazionale tanto è vero che la sua  guerra con l'Iraq, da difensiva, è potuta diventare, con la stessa efficacia, offensiva e oggi il suo esercito di «straccioni» sembra poter prevalere su quell'Iraq che pur è in possesso delle più sofisticate armi tecnologiche. Insomma la «Jihad», la guerra santa, la guerra condotta con fortissime motivazioni esistenziali prevale (o perlomeno tiene botta) sulla guerra tecnologica, la fede sulla  fredda razionalità delle armi, l'uomo sulla potenza dei mezzi. lo non so fino a che punto Usa e Urss lasceranno correre Komeini, quello che mi pare certo è che la rivoluzione iraniana è la più grave sfida finora lanciata contro la razionalità e la potenza tecnologica e quindi anche contro il biimperialismo russo-americano che su di essa fonda  la propria egemonia. Ed è quindi del tutto coerente che Komeini, sia pur nel suo modo sanguinario (ma io non vedo minor sanguinarietà, anzi, in ciò che fanno Urss e Usa, non mi pare che il sangue sia meno sangue perchè sparso da asettiche armi tecnologiche che evitano il corpo a corpo), abbia espulso dall'Iran tutto ciò che è estraneo alla cultura islamica, dall'alcool ai consumi occidentali, agli americani, ai marxisti del Tudeh. Se anche Komeini si serve della tecnologia, la sua forza è un'altra: è l'uomo, l'uomo islamico. Komeini cerca di conservare al mondo islamico la propria identità culturale e di sottrarlo a un destino coloniale che offre in cambio, (quando lo offre) solo un mediocre benessere e una vita senz'anima.