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Giampaolo Pansa è un caso, assai curioso, di schizofrenia. Scrive contro i giornalisti «dimezzati» fra professione e sudditanza a un partito ed è stato uno degli esempi più preclari di giornalista di questo tipo. Scrive che «la faziosità, la partigianeria, la voglia di schierarsi, rappresentano il tradimento del dovere d'informare» (Carte false, pag. 165) ed è definito dallo stesso giornale di cui è condirettore, L 'Espresso, «un maestro del giornalismo più schierato». Scrive contro gli «articoli che cominciano come una cronaca e al terzo capo verso diventano un fondo» ed è colui che più ha messo a punto questa ibrida formula. Scrive un libro, I bugiardi, che è il suo ultimo, contro i giornalisti che han nuotato nella partitocrazia nascondendo la verità o, che è peggio, dicendo le mezze verità ed è uno dei più navigati cursori di questo modo di far informazione politica. Mi chiedo, a volte, se Giampaolo Pansa sia in totale malafede o se, come sono più propenso a ritenere, creda a quello che scrive, se sia un novello ed invertito dottor Jekyll/mister Hyde che di giorno si dimezza, si schiera, si compromette, venendo meno ai suoi doveri di giornalista e di notte, pentito, scrive libri che sono uno spietato j'accuse a tutto ciò che è diventato. Certo è che, ultimamente, ha aggiunto alla schizofrenia anche una buona dose di paranoia. Ne I bugiardi è in preda a una sorta di fallacesca ipertrofia dell'io (che, del resto, faceva già capolino nell'Intrigo): da quelle pagine infatti Pansa si erge come l'unico, vero, patentato baluardo contro il sistema dei partiti. Sembra che la partitocrazia l'abbia abbattuta lui, Giampaolo Pansa, e non la Lega andando a prendere, al Nord, il 30 o il 40 per cento dei voti. Ma una parola Pansa non la spende nemmeno per coloro che, come i radicali, la lotta alla partitocrazia la conducono da sempre, quando era difficile, minoritaria e poco remunerativa, non adesso che è come sfondare una porta aperta. Questo tardivo e sospetto Lancillotto dell'antisistema porta a suffragio del suo smanioso protagonismo gli innumerevoli attacchi che, insieme al Gruppo Espresso-La Repubblica-De Benedetti, ha ricevuto da Bettino Craxi e i suoi scherani. Pansa se ne decora il petto come se fossero di per sè delle medaglie antipartitocratiche facendo finta di non capire e di non sapere che la battaglia che in questi anni si sono dati i socialisti e gli uomini del Gruppo Espresso non ha nulla a che vedere con lo sbaraccamento del corrotto sistema dei partiti, ma è stata, ed è, solo la feroce lotta per il potere di due lobby contrapposte. Spiace dover dire queste cose di Giampaolo Pansa. Pansa è stato, insieme ad Andrea Barbato, il miglior cronista della sua generazione. Un esempio per la fatica e la diligenza che metteva nel suo lavoro e l'impegno, così difficile quando non si è dei talenti naturali come Montanelli, a dare ai suoi articoli una adeguata qualità di scrittura (fra i tanti mi ricordo un ritratto, stupendo, dell'armatore Costa che cominciava cosi: «C'è un Dio che invecchia in cima a un grattacielo» ). Ma, abbandonata la cronaca per la politica, Pansa ha via via perso le sue doti migliori. Ha creduto di nobilitare il modestissimo materiale con cui aveva a che fare con le maiuscole (la Balena Bianca, l'Elefante Rosso, il Bisciobalena...), ma ha finito per assumere gli stessi tratti di quel mondo politico di cui pretende ergersi a denunciatore. A furia di occuparsi sempre delle stesse cose si è rinchiuso, complice anche la mancanza di qualsiasi esperienza professionale all' estero, in un ristrettissimo orizzonte. I suoi libri mancano di qualunque respiro, non si sollevano dal livello dell'istant book furbesco. Anche lo stile, infarcito di «marroni», di «Santissimi», di «fondelli», si è molto involgarito e stupisce in bocca a quello che era un ragazzo piemontese di buona educazione. Ma, soprattutto, Pansa ha perso ogni distanza critica dai suoi materiali. Oggi è un uomo che, senza rendersene conto, scrive contro se stesso, quello che avrebbe potuto essere e non è diventato.