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Chissà che cosa farebbe il buon Cossiga il quale si è recentemente scoperto gran difensore, in funzione anti-Leghe, della integrità territoriale e della unità nazionale, se si trovasse al posto del primo ministro canadese Brian Mulroney che deve fronteggiare le sempre più pressanti istanze di indipendenza della regione francofona del Quebec. Probabilmente manderebbe i carri armati. In Canada invece, nonostante il Quebec sia una regione grande cinque volte l'Italia (1.540.680 kmq), non paiono prenderla tanto sul drammatico. Si lavora, naturalmente, per mantenere l'unità nazionale ma non la si considera un tabù e si è consapevoli che, se le proposte di mediazione del governo centrale falliranno e il Quebec insisterà a chiedere la piena indipendenza politica, bisognerà rassegnarsi a dargliela. E a questa prima frantumazione potrebbero seguirne altre perché all'interno dello stesso Quebec ci sono regioni, come Terranova, a popolazione autoctona, cioè indiana, che a loro volta reclamano la propria autonomia e rifiutano di riconoscersi nella maggioranza francofona. Non c'è da stupirsene nè da menare scandalo. Anche se nel Quebec esistono condizioni storiche particolari il fermento indipendentista di questa regione non è, nella sua radice più profonda, che un aspetto di quel più vasto fenomeno che viene impropriamente chiamato «riscoperta delle nazionalità» ma che in realtà è una riscoperta delle etnie, cioè delle omogeneità razziali, culturali, sentimentali, linguistiche. L' esplosione di questo fenomeno, da sempre latente, ha varie cause fra esse intrecciate. Una ha a che fare con la disgregazione dell'impero sovietico che non solo ha direttamente evocato l'indipendentismo dei popoli che vivono dentro i suoi confini (lituani, estoni, lettoni, armeni, azerbaigiani, georgiani, moldavi), ma ha liberato energie autonomistiche sia all'interno dei paesi satelliti (Transilvania, Slovacchia) sia altrove, in Europa e nel resto delle società industrializzate. Finché infatti il mondo era diviso in due blocchi contrapposti, l'un contro l'altro armati, era la stessa rigidità della situazione a soffocare ogni velleità indipendentista e secessionista. Inoltre per seguire un sogno di autonomia si rischiava, nel tentativo di sfuggire a un padrone, di cadere nell'orbita, o per meglio dire nelle fauci, di un altro ancor più estraneo e potente. Ma adesso che quella contrapposizione svanisce la situazione si è fatta più fluida, più aperta. Un'altra causa del risveglio del motivo etnico sta nel fatto che ci si sta ormai avviando a grandi passi verso una integrazione mondiale su base economica e tecnologica. In quest'ambito gli Stati nazionali, con i loro confini,le loro dogane, i loro dazi, stanno diventando anacronistici. E l'indebolimento dello stato nazionale rafforza di per sé il localismo. Ma, dirà il lettore, qui c'è un controsenso: si ritengono obsoleti i confini nazionali e poi ci si rifugia in limiti ancora più angusti. Ma l'incongruenza è solo apparente. Il localismo su base etnica persegue l'indipendenza politica e culturale, non l'autarchia economica (il Quebec, per tornare da dove siamo partiti, si immagina indipendente e sovrano, ma associato economicamente al Canada e integrato con gli Stati Uniti e con l'Europa ancor più fortemente di quanto non sia ora; lo stesso discorso si può fare per la Lituania nei confronti dell'Urss). Ecco inoltre perché è possibile pensare a un'Europa unita economicamente, e anche militarmente, ma i cui punti di riferimento periferici, largamente autonomi o addirittura pienamente sovrani, non siano più, necessariamente, gli Stati nazionali, quasi sempre disomogenei, spesso screditati, ma comunità regionali più omologhe etnicamente e culturalmente. Insomma un'Europa dei popoli, non degli stati.Ma l'integrazione economica mondiale porta in sé un altro elemento del risveglio delle «piccole patrie». Essa infatti omologando l'intero esistente a un unico, totalizzante, modello (quello capitalistico-tecnologico-industriale di tipo occidentale) e quindi azzerando, tendenzialmente, diversità, specificità, valori, tradizioni, culture, linguaggi, provoca, per contraccolpo, uno struggente e prepotente bisogno di identità e quindi di ricerca e di riscoperta delle proprie radici.In tale movimento si inserisce anche il fenomeno italiano delle Leghe che sono nate si per motivi contingenti e molto particolari (la lotta alla partitocrazia), ma si innestano in un alveo di portata ben più ampia e profonda. Per questo non credo che sarà possibile liquidarle tanto facilmente come tuona, dal suo ristretto orizzonte, Bettino Craxi. Oltretutto degli Stati nazionali europei quello italiano è uno dei più fragili. Il suo collante principale resta quello, gracilissimo, del Risorgimento che fu un movimento voluto da minoranze e mai accettato fino in fondo dalle popolazioni, del Nord come del Sud. L'acme della coesione su basi nazionali fu raggiunta durante il fascismo. Che non è un bel precedente. La debolezza di questo Stato nazionale si rivela anche nella debolezza, spinta fino alla comicità, delle argomentazioni che vengono usate per difenderlo. Come quella messa in campo da Giovanni Spadolini che, pur non avendo mai toccato un pallone da football in vita sua, ha affermato: «Se vincessero le Leghe, Roberto Baggio e Totò Schillaci non giocherebbero assieme». Quando ci si ritira dietro queste trincee vuol dire che si è arrivati al capolinea.