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«Quem Deus perdere vult, dementat prius». colui che Dio vuoI perdere prima lo fa uscire di senno, così dice la sapienza degli antichi. Come se a Botteghe Oscure non ci fossero già abbastanza guai. Cesare Salvi. responsabile per il Pci dei problemi dello Stato e membro della Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna, si è fatto latore di una proposta delirante del tutto degna del suo quasi omonimo, il cantante demenziale Francesco Salvi. Secondo Salvi (Cesare), per aumentare la rappresentanza femminile in Parlamento bisognerebbe, d'ora in poi, dividere le circoscrizioni elettorali non solo per territorio ma per sesso. Inoltre in ogni seggio dovrebbero esserci due urne: una per i votanti maschi, l'altra per le femmine. Come corollario necessario, anche se Salvi (Cesare) su questo punto è stato piuttosto oscuro, ci dovrebbero essere anche due liste, una formata da sole donne, l'altra da soli uomini, altrimenti la proposta perderebbe anche il suo senso demenziale, riducendosi a una sorta di «apartheid» che colpirebbe, Dio sa perché, gli uomini e le donne al momento del voto. È un progetto, quello di Salvi (Cesare), che fa giustizia d' un sol colpo di quattro principi costituzionali. Quello della universalità della rappresentanza, quello della libertà del voto, per cui ciascun elettore, uomo o donna che sia, deve poter scegliere il proprio candidato, uomo o donna che sia,  senza  condizionamenti di sorta.  Quello della segretezza del voto che qui verrebbe invece individuato se non per il singolo per una quota di elettori. Infine questo progetto, nonostante si proponga l'esatto contrario, viola il principio d'uguaglianza favorendo elettoralmente il sesso più numeroso. Ha detto Salvi (Cesare) a difesa della proposta che il suo intendimento «è di tener conto della differenza sessuale anche nella sfera della politica». Forse il parlamentare comunista si è dimenticato che proprio per annullare quella differenza sul piano dei diritti civili, di cui quello elettorale, attivo e passivo, è uno dei più importanti, le forze progressiste hanno compiuto un lungo cammino che, partendo dalla Rivoluzione francese, è sfociato nell'art. 3 della Costituzione che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...». Voler ripristinare quella differenza, sia pure a pro delle donne, è un nonsense storico, giuridico, sociale. In realtà sotto il manto progressista la proposta di Cesare Salvi, come quell'altra di riservare in ogni azienda una quota di posti di lavoro alle donne, partorita anch'essa tempo fa dalla insonne e perniciosa Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna (un'invenzione demagogica del governo Craxi), è intimamente reazionaria, razzista e dovrebbe essere sentita come offensiva proprio e innanzitutto dalle donne. Perché le tratta come delle handicappate, come una razza a sé, come una specie protetta alla stregua delle foche monache. Una donna dovrebbe essere eletta (o assunta) perché ritenuta capace di svolgere bene il lavoro che è chiamata a fare, non per altro, cioè per decreto o in virtù di ambigue corsie preferenziali. Spiace che Cesare Salvi abbia affrontato un argomento del genere come se fosse Francesco Salvi, inserendolo così in un filone comico-demenziale ricco di sviluppi esilaranti (che ne farebbe, per esempio, Cesare-Francesco Salvi dei travestiti? Metterebbe una terza urna? Istituirebbe davanti al seggio un controllo medico per individuare il sesso prevalente?). Perché il problema, seppure così malposto, esiste. È vero che, in Italia, le donne sono scarsamente rappresentate in Parlamento nonostante i partiti facciano ormai a gara per candidarle nel tentativo di ingraziarsi l'elettorato femminile. Secondo l'imperversante paleofemmÌnista Elena Gianini Belotti ciò dipenderebbe «dall'insuperabile disgusto che le donne hanno per questa politica». Tesi anch'essa razzista che tende a presentare le donne come esseri angelicati rispetto agli uomini corrotti, e senza fondamento alcuno. Non  risulta da nessuna parte, per esempio, che l'astensionismo femminile sia superiore a quello maschile. La verità è che esiste un pregiudizio sfavorevole alle donne, che le si ritiene inadatte alla politica, pregiudizio della cui idiozia sono buone testimoni Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Indira Gandhi. Ma di questo pregiudizio sono portatrici più le donne che gli uomini. Perché -nonostante tutte le balle femministe sulla «sorellanza»- la realtà è che le donne si fidano poco delle donne, nella vita e quindi anche nella politica. Però questa fiducia non può essere imposta per legge, come pretenderebbe Salvi, costringendo le donne a votare per le donne. È un fatto di costume che può evolvere, se ha da farlo, solo col costume. Secondo Tina Anselmi e Giuliano Amato sarebbero invece le lobbies elettorali a penalizzare le donne (dove per lobbies si devono intendere gli apparati dei partiti). Ma questo non è un problema delle donne, è la questione cardine della democrazia rappresentativa e una delle ragioni principali, se non la principale, che ne mette in dubbio la stessa validità. Nella democrazia rappresentativa infatti il peso del voto del singolo è solo apparente. Per la ragione intuita da Gaetano Mosca già nel 1896 quando gli apparati dei partiti non avevano certamente la consistenza di oggi: «Cento, che agiscano sempre di concerto e d'intesa gli uni con gli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno che non avranno alcun accordo fra loro». Cioè il voto libero, proprio perché libero, si diversifica e si disperde, laddove i veri detentori del potere elettorale, vale a dire gli apparati dei partiti, facendo blocco su questo o quel candidato, hanno un peso decisivo. Il gioco elettorale si riduce quindi ad una gara truccata di cui, a parte qualche marginalità, si sanno in partenza i vincitori. Che poi questi, in un tal sistema, siano uomini o donne cambia poco o nulla.