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Quattro settimane di bombardamenti a tappeto, oltre , ad aver aggravato irrimediabilmente la situazione degli albanesi kosovari, non sono riuscite a piegare d'un pollice la resistenza dei serbi. Questa resistenza non ha radici solo nella tradizionale fierezza di questo popolo (che è l'altra faccia della sua ferocia in combattimento) ma anche nelle sue ragioni che sono state troppo spesso trascurate. Per capire è necessario fare, sia pur a volo d'uccello, la storia recente della Jugoslavia. Nell'estate del '91, a dieci anni dalla morte di Tito e a due dal crollo del muro di Berlino, Slovenia e Croazia proclamarono, l'una dopo l'altra, a breve intervallo, l'indipendenza dalla Jugoslavia. L'uscita della Slovenia protetta dal cuscinetto territoriale croato, e da sempre sostanzialmente estranea al mondo slavo e molto più vicina a quello tedesco, fu indolore. In Croazia ci furono alcuni scontri fra le milizie territoriali e l'esercito federale jugoslavo, ma in breve tempo la scissione fu un fatto compiuto. L'indipendenza dei due nuovi Stati fu immediatamente riconosciuta da Germania e Vaticano, nemici storici della Serbia, e poco dopo dalla comunità internazionale. Anche se rompeva, per la prima volta dal '45, l'intangibilità dei confini di uno Stato europeo, l'indipendenza di Slovenia e Croazia era sacrosanta in base al principio dell'autodeterminazione dei popoli solennemente sancito a Helsinki nel 1975. La comunità internazionale, Vaticano compreso, non poteva però non sapere che l'indipendenza di Slovenia e Croazia apriva immediatamente il problema Bosnia. Una Bosnia multietnica, a maggioranza serba ma a guida musulmana, aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia unita e multietnica. In un certo senso la Bosnia era una Jugoslavia in miniatura. Disgregandosi questa, si sarebbe disgregata anche l'altra. E infatti i serbi di Bosnia chiesero di poter proclamare a loro volta l'indipendenza o di unirsi alla madrepatria. Ma quello che la comunità internazionale aveva concesso tanto facilmente e rapidamente a Slovenia e Croazia non lo concessero ai serbi di Bosnia. Dopo aver accettato la violabilità dei confini di uno Stato che esisteva da settant'anni, la Jugoslavia, la comunità internazionale proclamò invece l'intangibilità di quelli di uno Stato fittizio, che non era mai esistito, la Bosnia. Non solo: la comunità internazionale, salvo qualche eccezione, non riconobbe nemmeno la Repubblica federale jugoslava (Serbia e Montenegro), cioè quello che rimaneva della Jugoslavia, cosicché il seggio di quest'ultima all'Onu rimase vacante. Così i serbi di Bosnia iniziarono la guerra appoggiati da Belgrado. Quella guerra la Serbia la stava vincendo sul campo, spargendo molto sangue proprio e altrui, ma la Nato decise che bisognava fermare i massacri, intervennero militarmente e, con gli accordi di Dayton, creò uno Stato fantasma, tenuto insieme con lo sputo, la Bosnia, e una fragile pace pronta a deflagrare in qualsiasi momento in un conflitto ancor più devastante del precedente. In Bosnia i serbi hanno fatto la cosiddetta «pulizia etnica» e compiuto massacri sui civili. Ma non sono stati i soli, i croati si sono comportati nello stesso modo, i musulmani bosniaci un po' meno ma solo perché erano i più deboli sul campo non avendo un retroterra. Però davanti al tribunale internazionale dell'Aja sono chiamati solo serbi, nessuno ha mai pensato di processare o ha mai definito «criminale» il presidente croato Tudjman, ex comunista e attuale fascista, autore della più grande «pulizia etnica» della guerra di Bosnia, quando, da un giorno all'altro, cacciò dalla Krajna settecentomila serbi. E per questi profughi non ci sono stati pianti ne comprensione ne aiuti. L'indebolimento contro natura della Serbia ha provocato e aizzato la guerriglia indipendentista kosovara. In Kosovo si fronteggiano due diritti altrettanto validi: il diritto degli albanesi, diventati nel tempo la stragrande maggioranza, all'indipendenza e il diritto della Serbia a difendere i propri confini secolari perché il Kosovo è considerato la culla di quella Nazione. Sotto Tito il Kosovo godeva di un'ampia autonomia che nel 1989 Milosevic limitò drasticamente con una decisione stolida e gravida di conseguenze ma non priva di qualche ragione: l'autonomia , del Kosovo era infatti superiore allo stesso potere della Serbia perché si inquadrava nel più ampio equilibrio dello Stato federale jugoslavo. Senza contare che Tito, da dittatore autentico, aveva un potere tale che di quelle autonomie faceva poi quel che voleva. In Kosovo l'esercito e la polizia serbe hanno compiuto, prima dell'intervento della Nato, alcuni eccidi di civili. Ma anche la guerriglia dell'Uck, che come tutte le lotte partigiane è costretta a far uso del terrorismo, non è andata per il sottile. Però i «verificatori» dell'Osce, guidati dall'americano Walker, hanno dato conto solo delle atrocità dei primi, ignorando quelle degli altri. A ogni buon conto la Serbia aveva accettato da tempo di negoziare sull'autonomia del Kosovo, si era opposta solo al fatto che a esserne garante fossero forze militari straniere, in particolare della Nato, che, secondo Rambouillet, avrebbero avuto competenza e diritto non solo sul Kosovo ma sull'intero territorio jugoslavo. Dopo che la Nato ha imposto, di fatto, il proprio protettorato sulla Bosnia mascherandolo dietro una parodia di democrazia (un paio di mesi fa il presidente della Repubblica serba di Bosnia, regolarmente eletto, è stato esautorato d'autorità perché ritenuto troppo poco «democratico», cioè antioccidentale), lo avrebbe esteso alla Jugoslavia. Quale Stato europeo avrebbe accettato una simile situazione, che ne cancella la sovranità non solo su una porzione di territorio conteso ma su se stesso? Nessuno. Ecco perché la Serbia non cede e per averne ragione, a queste condizioni, bisognerà distruggerla.