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E' cominciata la battaglia contro le  modernità. Questo è il senso profondo delle manifestazioni di Seattle, al di là della molteplicità e ella contraddittorietà dei gruppi scesi in campo che vanno dagli ecologisti vecchie-zie del Wwf a quelli po' più seri di Greenpeace, agli autotrasportatori americani che difendono i propri privilegi, ai gruppi più radicali che sono perfettamente consapevoli di qual è la vera materia del contendere. Che non è la globalizzazione ma l'industrializzazione, che ne è la necessaria premessa. È infatti l'industrializzazione che, producendo per il superfluo e non più per l' essenziale, ha posto fin dai suoi inizi le basi della globalizzazione dato che ha il bisogno inderogabile, vitale, di conquistare sempre nuovi mercati se non vuole collassare su se stessa. Era ora. È da quando la Rivoluzione industriale si è messa in marcia che liberali, marxisti e progressisti di tutte le risme ci cantano la melassa delle «sorti meravigliose e progressive» e ci spiegano che quello basato sull' industria e sulla tecnica, nonostante tutte le sue contraddizioni e brutture, è «il migliore dei mondi possibili». Non è vero niente. Il marcio sta proprio nell'industrializzazione e nei continui rilanci sul futuro che essa richiede, sia che venga cavalcata dal liberalismo che dal marxismo. Le varie popolazioni di quello che noi oggi chiamiamo il Terzo Mondo sono più povere rispetto a tre secoli fa. Due terzi della popolazione mondiale sono poveri come non lo sono mai stati e una parte cospicua di questi due terzi è alla fame. Il perché è presto detto. I Paesi del Terzo Mondo, entrando, con le buone o con le cattive, nella globalizzazione, hanno dovuto abbandonare l'economia di sussistenza alimentare su cui avevano vissuto per secoli e millenni. Adesso esportano, cosa che prima non facevano, ma le esportazioni non sono sufficienti a compensare il deficit alimentare che si è così venuto a creare. L' esempio più lineare e drammatico è quello dell' Africa nera. L' Africa era alimentarmente autosufficiente ai primi del secolo e lo era ancora, nella sostanza, nel 1960 (98 per cento). Ma nel 1971 l'indice era sceso all'89 per cento e nel 1978 al 78. Per sapere quel che è successo negli ultimi vent' anni non servono le statistiche, bastano le traumatiche immagini che ci vengono ogni giorno dal Continente nero. E questo nonostante tutti gli «aiuti», economici e tecnici, di know how, che vengono colà inviati. Perché gli «aiuti», anche quando sono dati in buona fede (si pensi ai missionari), non fanno altro che stringere ulteriormente il cappio dell'integrazione. L' Africa stava molto meglio quando si aiutava da sola, cioè quando non era ancora contaminata dal modello industriale. E questo vale per quasi tutti i Paesi del Terzo Mondo. Tanto che qualche anno fa durante un summit del G7, i Paesi più ricchi del mondo, si svolse in contemporanea un controsummit dei sette Paesi più poveri i quali imploravano: «Per favore, non aiutateci più!». Se l'impoverimento delle popolazioni del Terzo Mondo è dovuto, con tutta evidenza, alla rapina sistematica consumata ai loro danni dai Paesi del primo, vorrà dire che almeno questi stanno bene. Non è così. Paradossalmente la povertà aumenta anche nei Paesi ricchi. Cioè la forbice fra ricchi e poveri non fa che allargarsi nei Paesi industrializzati: i ricchi diventano sempre più ricchi e numerosi, ma anche i poveri diventano sempre più poveri e numerosi. Negli Stati Uniti, dove nella sola New York ci sono 400 mila miliardari, i poveri sono 35 milioni, che non sono tali per gli standard americani, sono poveri e basta. E ciò vale per tutti i Paesi industrializzati. Questi sono dati quantitativi, i soli che gli economisti liberali accettano, e quindi indiscutibili perché basati sulle cifre e le statistiche. Poi ci sono gli effetti non economici della industrializzazione e della globalizzazione che sono ancora più importanti: l' omologazione, la perdita di identità, di punti di riferimento, di centinaia di culture, l'anomia, lo stress, l'angoscia, l'aumento esponenziale dei suicidi, delle malattie mentali, dell'uso di psicofarmaci, la droga. Sono perlomeno quindici anni che scrivo queste cose (La Ragione aveva Torto?  1985), irriso, snobbato dalla sinistra e dalla destra. Ora vedo che la compagnia si è fatta più folta. La gente che, povera o ricca che sia, vive male, depressa o nevrotica, alla fame o affogata nella grascia del cosiddetto benessere, comincia a non credere più ai pifferi dell'industrialismo e dello sviluppo che la ingannano da due secoli e mezzo e si pone l'indecente domanda: «Si stava meglio quando si stava peggio?». È la domanda, fondante, con cui inizia il Terzo Millennio.