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Montanelli aveva già cominciato a morire dieci anni fa, quando era crollata la Prima Repubblica. Nonostante l'avesse avversata da quasi mezzo secolo, e da par suo, quello era il suo mondo. Era un “bastian contrario” ma in fondo nel sistema, pur provandone un reale e profondo disgusto ci stava come il topo nel formaggio (“Turatevi il naso”). Con la caduta del vecchio regime perse il suo punto d'appoggio. L'avvento di Bossi, che in quegli anni voleva davvero far saltare il sistema, lo spiazzò smascherando il suo gioco, condotto con grandissima abilità per tanti anni, di finto oppositore del regime, fine che il leader del Carroccio ha fatto fare anche a Pannella. Il “nuovo che avanza”, la Lega, Berlusconi, non gli garbava e non lo capiva. In questo era un vero conservatore. La Lega prendeva milioni di voti, la magistratura impazzava, cadeva la Prima Repubblica e il Giornale da lui diretto aveva ancora come punto di riferimento, nel 1993, Arnaldo Forlani. Anche La voce fu un fallimento, elegante ma fallimento.La scomparsa del PciIn questa nuova Italia il vecchio Indro non si ritrovava. Una delle cause principali del suo smarrimento era stata, per lui anticomunista da sempre, la scomparsa del Pci. Da buon anarchico sentiva il bisogno di avversari forti e d'ordine. Una volta che ero andato a trovarlo al Giornale e si parlava della pochezza della classe politica italiana Indro prese improvvisamente una piccola fotografia, incastonata in una cornicetta d'argento, che teneva sempre davanti a sé sulla scrivania, come si fa con le immagini della moglie, dei figli o della Madonna, e mostrandomela esclamò: “Con questo ci sarebbe stato gusto!”. La foto era traslucida e lì per lì non capii. Lui la orientò meglio e piano piano vidi emergere i baffoni inconfondibili di Giuseppe Stalin. “Con questo ci sarebbe stato gusto a battersi”, ripeté Indro. “Lui sì che aveva una spina dorsale”. “Può darsi”, replicai io. “Ma il tuo divertimento sarebbe durato poco, perché ti avrebbe fatto fucilare subito”. Lui si mise a ridere, di quella risata un po' cavernosa che gli era venuta invecchiando.Benché mi stimasse e mi dimostrasse attenzione e affetto e, come tutti i veri grandi, non si desse nessuna aria grandiosa (“In fondo voi siete i miei nipoti” diceva, sempre con quella voce cavernosa) io ho sempre avuto una tremenda soggezione di Indro Montanelli e non mi è mai riuscito di chiamarlo altrimenti che “Direttore”. Anche se mio direttore non lo fu mai. Ci aveva provato in due o tre occasioni a portarmi al Giornale, ma per una ragione o per l'altra era sempre andata storta. Una volta però concludemmo. Capitò per caso.In un pomeriggio canicolare e patibolare di luglio milanese mi trovavo al Giornale per riscuotere una vincita da Massimo Bertarelli che faceva il bookmaker clandestino (una cosa in famiglia, anche Indro ci giocava) quando passando davanti alla porta aperta del suo ufficio lo vidi alla scrivania, davanti alla Lettera 32, immobile. Mi affacciai: “Che fai, Direttore, al giornale, alle due di pomeriggio di una giornata di luglio”? “Che vuoi”, rispose, “se vado a casa penso alla morte, perciò preferisco star qui. Ma entra”. A bruciapelo mi propose di andare al Giornale con lui. Dissi di sì e ci stringemmo la mano. Mancava solo la firma dell'Amministratore, Massari, cui avrei dovuto telefonare. Ma Massari non si fece mai trovare. Un po' stupito chiamai Montanelli. Lui, più meravigliato di me, fissò d'autorità un appuntamento con l'Amministratore per il 26 agosto. Ma Massari si diede di nuovo alla macchia. Capii che c'era un veto di Berlusconi e lasciai perdere per non mettere in imbarazzo Indro. Capii anche che Montanelli, lucidissimo fino all'ultimo sulla pagina, come organizzatore era una frana e lì, al Giornale, gliene facevano sotto il naso di tutti i colori.Era un uomo di grande eleganza. Non dico nel vestire - aveva naturalmente anche quella - ma nel tratto, che era quello di un gran signore. Quando scrissi Il Conformista la Mondadori mi chiese se potevo farmi fare una prefazione da Montanelli. Senza preavvertirlo di cosa si trattasse mi presentai da lui al Giornale e, pieno d'imbarazzo e con la tremarella, gli dissi: “Direttore, è peggio di quel che pensi. Non voglio una recensione, vengo a chiederti la prefazione”. Lui non mi lasciò quasi finire la frase: “Te la devo”, disse. “Tu sei nella mia linea”. Dopo due giorni un fattorino del Giornale mi portò la prefazione, che tengo come il più prezioso accredito non solo professionale, ma anche morale. Il bello è che, pur conoscendomi in fondo assai poco e non avendo sicuramente letto il libro (“Noi siamo degli analfabeti di ritorno” mi aveva detto una volta, confessando di non leggere più nulla da anni, giornali a parte), in quella prefazione mi centrava in pieno. « Te la devo ». In realtà non mi doveva assolutamente nulla, lo aveva fatto per togliermi dal mio evidente imbarazzo, questo quando amici carissimi, se appena hai la ventura di dover chiedere loro un piccolissimo favore, non resistono alla tentazione di fartelo cadere dall'alto.Anche negli ultimissimi anni aveva però conservato una straordinaria freschezza, quasi fanciullesca. Qualche anno fa lo invitai a colazione, all'Assassino. Io e la mia fidanzata di allora, Mariella, arrivammo un po' prima, per rispetto, e ci sedemmo al suo solito tavolo. Quando lo vedemmo entrare, accompagnato dalla nipote, Letizia Moizzi, che gli faceva un po' da “chaperon”, con gli occhiali scuri, curvo, il bastone, dimostrava tutta la sua età. Era da poco morta Colette. “Era una moglie ingombrante”, mi disse. “Ma adesso che non c'è ne sento la mancanza”. Ma bastò che si sedesse a tavola perché tutto cambiasse. Era un fuoco di fila di aneddoti, di storie, di gag, di “tranche de vie”. Io e le ragazze ascoltavamo, incantati. A un certo punto della conversazione Montanelli disse: “I protagonisti della mia epoca li ho intervistati tutti, mi mancano solo Mao e Stalin”. Devo dire che ogni volta che incontravo Montanelli non resistivo alla tentazione di sfrucugliarlo su Curzio Malaparte, che era stato il suo grande rivale dagli anni Trenta fino alla morte di Curzio, nel 1956. L'antagonismo era tale che Malaparte, quando giaceva sul letto della clinica Sanatrix, malato di cancro, gridava: “No, non posso morire prima di Montanelli!”. Alle mie punzecchiature Montanelli rispondeva, invariabilmente, che Malaparte era un fascista, una spia, un avventuriero, un millantatore, uno che si era inventato d'esser toscano mentre era tedesco, e così via. Le pallottole BrEra un uomo di grandissima vitalità. Quella che gli permise, quasi settantenne, quando fu ferito dalle Brigate Rosse in via Manin, davanti ai Giardini pubblici, di aggrapparsi alle inferriate e di tirarsi in piedi da solo. Fu portato al Fatebenefratelli. Conoscevo quell'ospedale come le mie tasche perché vi era morto mio padre e, passando per la chiesetta interna riuscii a intrufolarmi nonostante l'ingresso fosse vietato a tutti i giornalisti tranne i suoi. Lo raggiunsi proprio quando, in barella, già intubato, lo stavano portando in sala operatoria. Con lui, oltre ai medici e gli infermieri, c'erano solo Mario Cervi e, mi pare, Salvatore Scarpino. Mi vide, mi riconobbe, mi salutò: “Bravo. Sei un vero reporter”. “Per la verità ero venuto solo per salutarti”. “Vai e scrivi. Sennò questi qui ti fregano” disse, indicandomi i due colleghi, e sparì dietro una porta nera di gomma. Furono, quelli, anni difficilissimi per lui che si oppose con grande coraggio non al sistema, che in fondo gli stava bene, ma all'antisistema, che era molto più pericoloso. Anche perché era solo, accerchiato da un conformismo plumbeo e intollerante.Erano gli anni in cui Eugenio Scalfari faceva scrivere su La Repubblica un furioso corsivo contro Maurizio Costanzo perché si era permesso di invitare al suo talk - show Montanelli, “il fascista”. Io stesso fui testimone, e in parte protagonista, di uno di questi episodi di intolleranza all'epoca in cui ero leader del Comitato di redazione della Rizzoli. Quando gli americani lasciarono il Vietnam, Montanelli scrisse per Oggi, dove aveva la sua “Stanza”, un articolo a favore degli Stati Uniti. Il Consiglio di fabbrica, che aveva preso visione delle bozze, fece violente pressioni su noi del Comitato di redazione perché impedissimo l'uscita del pezzo che consideravano intollerabile per una sensibilità “laica, democratica e antifascista” eccetera, eccetera. I miei due compagni del Cdr, Fabrizio Scaglia e Dino Satriano, erano dei bravi guaglioni, in cuor loro nient'affatto estremisti, ma erano così impregnati del clima dell'epoca, e terrorizzati di poter essere bollati come “fascisti”, che volevano a tutti i costi aderire all'invito, diciamo piuttosto all'ingiunzione, del Consiglio di fabbrica. Durai un'intera notte, da Oreste, a convincerli che quello era il Minculpop, che quello, sì, era fascismo. Ma non li convinsi. Dovetti minacciare di dimettermi perché non se ne facesse nulla. Molti anni dopo, in una delle sue risposte alle lettere sul Corriere Montanelli ricordò quell'episodio e mi ringraziò. Montanelli era vitale ma aveva anche, come ha lui stesso raccontato, lunghi periodi di depressione. Io lo incontrai in uno di questi, dopo che aveva dovuto andarsene dal Corriere della Sera. Eravamo seduti su delle sedie a sdraio sulla terrazza, inondata di sole, della sua bella casa romana, proprio sopra piazza Navona. C'era anche Colette Rosselli, la moglie, una donna alta, bella, colta, di gran classe, una compagna in tutto e per tutto al suo livello. Davvero una gran coppia. Lui era malinconico, cupo, disilluso, amareggiato, stanco. Battibeccò anche con Colette che gli rimproverava, sia pur in termini eleganti, il suo maschilismo (“A te le donne piacciono solo in posizione orizzontale”). Me ne andai da quella casa convinto che Montanelli, come giornalista, fosse finito. Pochi mesi dopo fondava il Giornale, la sua ultima, grande impresa. Il rientro al Corriere fu un ripiego. Si trovava a disagio e me lo confidò. Al Corriere, che era stata la sua casa per 37 anni e il suo grande amore, forse l'unico, non riusciva a perdonare di averlo costretto ad andarsene e soprattutto lo sgarro che gli aveva fatto quando era stato colpito dalle Brigate Rosse e un signor nessuno di nome Piero Ottone aveva ordinato che si titolasse: “Ferito un giornalista”. Come se non fosse stato il più grande giornalista italiano dei suoi tempi e, insieme a Curzio Malaparte, di tutti i tempi. Quella volta di HitlerNon resistetti nemmeno quella volta e dissi: “Però Malaparte li ha intervistati, Mao e Stalin”. “Non è vero”. “Direttore, io le ho lette quelle interviste”. “Erano dei falsi”. Il discorso cadde. Arrivati che eravamo al caffè Montanelli cominciò a raccontare una storia straordinaria. Il giorno che i tedeschi avevano invaso la Polonia lui, Montanelli, si trovava, unico italiano in mezzo ad altri giornalisti, presso un certo ponte dove si pensava che dovesse passare l'armata germanica e Hitler stesso. E infatti ecco che Hitler arriva, in piedi su un carro armato, impettito. E che fa? Scende dal carro e punta dritto proprio su Montanelli. “Naturalmente fu un monologo”, si schernì Indro, imitando la voce abbaiante del Fuehrer. “Io non riuscii a piazzare nemmeno una parola”. Di sottecchi io guardavo Mariella, che è boccalona, e si beveva, beata, tutta la storia. Per spiegare l'incredibile comportamento di Hitler Montanelli disse che, probabilmente, il Fuehrer voleva, attraverso di lui, mandare un messaggio a Mussolini per convincerlo a entrare in guerra. Restava però da capire come mai quella straordinaria intervista, per quanto monologante, non fosse stata mai pubblicata dal []Corriere della Sera. Era intervenuto il Ministero della Propaganda tedesco, disse Montanelli, sul Minculpop italiano imponendo il verboten e così lo “scoop” era saltato.Nel suo narcisismo infantile, che mi fece una grande tenerezza, il vecchio si era inventato tutto. Non potendo sopportare che l'altro, l'avversario, l'arcinemico, per quanto morto e stramorto da mezzo secolo, avesse intervistato Mao e Stalin, e lui no, aveva tirato fuori dal cilindro il massimo assoluto: Adolf Hitler. Come un bambino.