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Le croonache ci dicono che sui voli dall’Italia per le Maldive o per i Caraibi non si trova più un posto. Che le località sciistiche più prestigiose sono zeppe. Che gli alberghi a cinque o a sette stelle sono in overbooking. E allora dov’è la crisi, dov’è la recessione? La crisi c’è, ma si innesta su un fenomeno di lungo periodo che riguarda tutti i Paesi sviluppati e che in Italia è divenuto percebile a partire dai primi anni ’70: la forbice fra ricchi e poveri tende inesorabilmente ad allargarsi. Come scrivevo in un articolo sul Giorno del 15/12 del 1983, intitolato ‘Il ceto medio va indietro’, «i ricchi diventano sempre più ricchi e anche più numerosi, ma anche i poveri diventano sempre più poveri e molto più numerosi dei ‘nuovi ricchi’. Una parte, minoritaria, del ceto medio ascende all’empireo della ricchezza, un’altra, molto più numerosa, scende nella cajenna delle nuove povertà. Ecco perché ci sono molte persone sulle quali la crisi non ha alcun peso, che possono spendere e spandere come e più di prima, e un numero di gran lunga maggiore che deve tirare la cinghia. La proletarizzazione del ceto medio è un dramma per chi la vive. Non solo per la frustrazione e la vergogna di vedersi degradati. Chi è stato sempre povero ha imparato l’arte di arrangiarsi e può contare su una rete di solidarietà. L’ex ceto medio non ha questo know how e nessuna rete di solidarietà. La situazione è ben fotografata dal bel film di Soldini ‘Giorni e nuvole’. Il protagonista (un bravissimo Antonio Albanese) è un manager genovese di mezza età che viene licenziato da un giorno all’altro insieme ad alcuni dei suoi operai. Ma mentre questi troveranno il modo di cavarsela e alla fine anche un posto di lavoro al Porto grazie a vecchie amicizie sindacali, lui incontrerà prima, nel frustrante calvario dei colloqui per un’assunzione, la freddezza dei suoi ex pari grado e quando, sconfitto, cercherà di adattarsi a lavori più umili, come il tapezziere, non ci riuscirà. Non per mancanza di volontà, ma di capacità. L’ALTRO GIORNO ero dal macellaio e avevo posato a terra il sacchetto della spesa. Mi sono distratto: non c’era più. «E’ stato quello là» mi ha detto il macellaio. L’ho raggiunto. Era un signore anziano, vestito dignitosamente, con la camicia un po’ lisa ma pulita. «Quella roba è mia», «Lo so» ha risposto. «Mi scusi, me ne vergogno profondamente». C’è un fenomeno su cui varrebbe la pena di riflettere. La ricchezza delle nazioni non fa che aumentare, perché, se prescindiamo dalla crisi attuale e guardiamo le cose nel tempo, il Pil e la produzione non han fatto che crescere, ma noi, presi singolarmente, già da ben prima della crisi, facciamo fatica a mantenere le posizioni, più facilmente ci impoveriamo. E’ uno degli effetti paradossali dello sviluppo industriale. E’ stato Tocqueville a notare nel saggio «Sulla povertà», scritto nel 1830, che nell’Inghilterra del suo tempo, il Paese più opulento d’Europa, nel pieno del suo sforzo industriale, i poveri erano sei volte di più che in Spagna e Portogallo che erano appena all’inizio di quel processo, mentre nei Paesi non ancora toccati dall’industrializzazione la povertà non esisteva. Inoltre una cosa è essere poveri dove tutti, più o meno lo sono, come eravamo noi nei ’50. Si può essere felici lo stesso. Ma si passa dalla categoria di povero a quella di miserabile se intorno a te brilla un’opulenza sfacciata e tu sei costretto a rubare la borsa della spesa. Massimo Fini