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pubblicato su Il Fatto

«È stata l'ultima persona a vederlo vivo. A parte mia madre. E me» scrive Benedetta Tobagi nel libro dedicato a suo padre: "Come mi batte forte il tuo cuore". Quella persona sono io. Ero con Tobagi in quella che doveva essere l'ultima notte della sua vita. La sera di quel 27 maggio del 1980 ero andato al Circolo della Stampa di Milano a un dibattito sul segreto istruttorio che Tobagi, quale presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti, presiedeva. C'ero andato un po' per incontrar lui, un po' per rivedere il mio vecchio maestro, Gian Domenico Pisapia, e perché il segreto istruttorio è un mio antico pallino.

Così, quando fui fra gli antichi stucchi del circolo non seppi resistere e feci un intervento in cui difendevo le ragioni del segreto. Ero, e sono, convinto che il segreto istruttorio non è un intollerabile limite alla libertà di stampa ma un indispensabile istituto a difesa della dignità delle persone che siano coinvolte, a qualsiasi titolo, in un'inchiesta penale e che hanno diritto, in un'indagine che è ancora ai suoi incerti inizi, a non essere sbattute indiscriminatamente in prima pagina. Un tema, come si vede, molto attuale. Solo che oggi, con logica berlusconiana, non si tende tanto a ripristinare il segreto quanto, soprattutto per i reati di "lorsignori", a rendere impossibili le indagini.

Ma trent'anni fa, quando ad essere colpiti dalle inchieste erano gli stracci e Mani Pulite era di là da venire, la sensibilità era diversa e il mio intervento aveva sollevato mormorii di disapprovazione fra i giornalisti - la sala ne era piena - che ogni volta che gli si parla di segreto istruttorio si mettono a strillare all'offesa del "sacro diritto-dovere di informare". Ma Tobagi nel suo intervento conclusivo mi aveva dato manforte. E mentre parlava, di quando in quando, mi aveva lanciato un'occhiata d'intesa perché erano cose che ci eravamo detti tante volte e, da qualche tempo, anche in lui, come in me, erano sorti dei seri dubbi sul nostro mestiere.Dopo, insieme a un altro collega, Giorgio Santerini, eravamo andati a mangiare in una scalcinata pizzeria di via Moscova, vicino al Corriere. E avevamo chiacchierato e allegramente malignato.

Io ero l'unico con la macchina (a Walter non piaceva guidare) e ho accompagnato a casa prima Santerini e poi Tobagi che abitava vicinissimo a me. Si erano ormai fatte le tre di notte ma, da viziosi e incalliti giornalisti di quotidiani, non ci pareva ancora abbastanza tardi. E siamo rimasti a parlare una mezz'ora sotto casa sua in macchina. Fuori cadeva una pioggerellina leggera. Tobagi mi ha raccontato dei suoi problemi al Corriere. In quel periodo non andava molto d'accordo con Di Bella, il direttore che sarebbe stato di lì a poco travolto dallo scandalo della P2. Poi, quasi d'improvviso, aveva aggiunto che da un mese aveva smesso di occuparsi di terrorismo. Aveva una voce tranquilla, come sempre, ma mi ha detto: «Sai, non voglio proprio finire ammazzato per questi qua» intendendo Di Bella e Barbiellini Amidei, il vicedirettore. È stato a questo punto che ho pensato che eravamo degli incoscienti a rimanere lì fermi in macchina davanti al suo portone. E ho avuto l'impulso di guardarmi attorno al di là dei vetri della macchina bagnati dalla pioggia.

Ma non l'ho fatto per non spaventarlo e non spaventarmi. Ci siamo lasciati con l'intesa di portare, appena possibile, i nostri bambini allo zoo dove, un paio di domeniche prima, ci eravamo fanciullescamente divertiti, ritagliandoci un paio di ore in quegli anni convulsi. Ho ancora negli occhi la sua sagoma massiccia mentre con le mani grassocce armeggia con le chiavi per aprire il signorile portone di legno. L'ultima immagine che ho di lui.Me ne andai a letto e, poiché ero in uno dei miei periodi di disoccupazione, dormii beatamente fin verso le undici. Mi svegliò una telefonata del collega Gian Franco Venè che mi ringraziava per un favore che gli avevo fatto «anche se» aggiunse «con quello che è successo le nostre piccole cose paiono senza senso».«Che cosa è successo?» feci io, con voce insonnolita.«Ma come, non sai niente?»«No»«Hanno ammazzato Walter, Walter Tobagi».Per me che l'avevo lasciato pochi minuti prima (così mi pareva nell'intervallo incosciente del sonno: nella mia mente lui era ancora lì che apriva il portone) fu un'emozione violentissima.

Buttai giù il telefono, mi vestii in fretta, uscii e feci a piedi i pochi passi che mi separavano dalla casa di Tobagi. In testa mi risuonavano quelle parole: «Sai, non voglio proprio finire ammazzato per questi qua» e mi gelavano il sangue.Quando arrivai davanti alla casa di Tobagi, in via Solari, c'era il solito canaio d'inferno, poliziotti, fotografi, curiosi, giornalisti nella doppia veste di amici e di gente che era lì per lavorare. Vidi uscire dal portone, con gli occhi rossi di un pianto che non facevano nulla per nascondere, due colleghi, Raffaele Fiengo e Gabriele Pantucci, che più avevano seminato odio, un odio che in certe riunioni sindacali si tagliava col coltello, contro Tobagi. Quelle lacrime mi colpirono. Io non piangevo.Mi feci coraggio ed entrai in casa.

C'era molta gente che sicuramente conoscevo ma che oggi non ricordo. Ricordo solo Santerini che fa giocare i bambini e Stella Tobagi, pallidissima, che esce da una porta e si abbandona piangendo sulla mia spalla: «Tu... eri tu stanotte con lui».Sono rimasto lì, con Stella che piangeva, senza sapere cosa fare e cosa dire. Quando Stella si è ripresa sono uscito e mi sono ritrovato sulla strada mentre fotografi e giornalisti facevano il loro mestiere, quello solito di sempre, ma che a me, quel giorno, è sembrato particolarmente turpe. «Vuoi andare a vederlo all'obitorio?» mi ha chiesto qualcuno. Ho risposto di no. Mi sarebbe sembrato di violare il pudore di Walter.Anche i funerali mi disturbarono. Non solo nel vedere un'Oriana Fallaci, che non aveva mai conosciuto Tobagi, stringersi affranta al braccio di Bruno Tassan Din, che non c'era bisogno che fosse scoperto con le mani sul tagliere della P2 per capire che era un mascalzone, ma per la Rolls Royce e tutto l'apparato, pomposo, barocco, esagerato che aveva confezionato il Corriere. L'opposto della sobrietà di Walter.

L'amicizia fra me e Tobagi era di natura piuttosto bizzarra. Eravamo diversissimi di carattere. Forse ci trovavamo proprio per questo. Lui era riflessivo, pacato, calmo. Io tutto il contrario. Utopico io, realista lui. Io melodrammatico, lui ironico. Lui riservato, io esibizionista. Io ribelle, lui con i piedi per terra. Io provocatore, lui mediatore nato.Lui mi trasmetteva un po' della sua serenità, io, forse, lo incuriosivo con i miei eccessi, la mia smodatezza d'allora. Nonostante fosse più giovane di me di tre anni, era lui - così più maturo - a fare la parte del fratello maggiore. Assumeva un'aria quasi protettiva nei miei confronti. È una parte che accettavo volentieri e che in Tobagi mi è sempre parsa naturale

.C'eravamo conosciuti molto giovani ai tempi in cui lui lavorava all' "Avvenire" e io all' "Avanti!". Allora, nell'ambiente dell' "Avvenire", Tobagi era soprannominato "il viperotto" in contrapposizione alla "mangusta" che era un altro bravissimo collega, Corrado Incerti. Perché Tobagi, al di là dell'immagine oleografica che gli è stata cucita addosso dopo morto, era uno che, sotto quel suo aspetto d'acqua cheta, sapeva mordere e sapeva difendersi. Fra noi si diceva, con affettuosa malignità, che «studiava da Direttore».A quell'epoca però, per me, Tobagi era una conoscenza come un'altra. Divenimmo amici dopo, quando fummo eletti consiglieri dell'Associazione lombarda dei giornalisti. Scoprimmo, oltre a una simpatia di pelle, di avere molte idee in comune.

Anche se cercavamo di farle valere in due modi diversi, io con l'irruenza, lui con la mediazione per la quale aveva un'inclinazione e un talento istintivi.Ricorderò sempre quella sera del 1978 quando Tobagi, Ciccio Abruzzo ed io rompemmo la maggioranza socialcomunista dell'Associazione lombarda che si ispirava al marxismo-leninismo, tanto in voga allora, cosa particolarmente grottesca perché i sedicenti "rivoluzionari" appartenevano al più borghese dei giornali italiani, il Corriere della Sera. Era un'operazione molto delicata e dolorosa perché noi, socialisti e libertari, ci alleavamo con i "fascisti" di Autonomia e sapevamo che ci saremmo esposti ad accuse di tutti i generi, che ci avrebbero dato dei "traditori" e coperto di insulti (cosa che poi puntualmente avvenne, soprattutto nei confronti di Tobagi che, come giornalista del Corriere, era il più esposto e questo contribuirà ad indirizzare su di lui il mirino dei terroristi).

Tobagi aveva in mano la mozione di sfiducia che avevamo preparato, ma esitava. La girava e rigirava fra le dita, ma non si decideva. Per lui, che non faceva le cose alla leggera, era un momento lacerante. E poi, visibilmente, ne temeva le conseguenze («Non era un cuor di leone, papà» ha scritto Benedetta con uno sforzo di lucidità e di sincerità che deve essere costato non poco al suo amor filiale, smitizzando anche i "falsi miti" dell' "eroe" e del "martire" di cui dà prova, in tutto il libro, di aver piene le tasche). Io che gli sedevo a fianco lo incoraggiavo, lo incitavo, lo pungolavo, lo spingevo quasi fisicamente. «E dai Walter».

Mi feci dare il foglietto e dissi: «Presidente, c'è una mozione di Tobagi».Quante volte, dopo quel che è successo, ho pensato che se non gli avessi forzato la mano con la mia spensierata insistenza, forse Tobagi sarebbe ancora vivo. Perché quella secessione lo portò alla presidenza dell'Associazione lombarda dei giornalisti. E Tobagi è stato ucciso per il doppio ruolo simbolico che aveva: come inviato del Corriere e come leader del sindacato dei giornalisti lombardi. Non perché avesse capito chissà che del fenomeno terrorista come vuole l'agiografia postuma.Un'altra cosa che non mi sento assolutamente di condividere, proprio per l'affetto e la stima che mi legavano a lui, è la retorica, partorita dal Corriere della Sera, del "cronista buono". La melensa, insulsa, triste, ingiusta retorica del "cronista buono".

Tobagi non era affatto "buono" nel significato zuccheroso che si vorrebbe dare a questo termine. Era un "buon cronista", che è cosa diversa. Era un ragazzo che aveva lavorato e sudato e sacrificato molto per arrivare, a soli trentatré anni, dove era arrivato. E per farlo, in quell'ambientino tremendo che è la famosa "famiglia del Corriere", aveva dovuto difendersi, anche lui, con gli artigli, sia pure degli artigli felpati che gli derivavano dalla sua educazione cattolica (era un esemplare, piuttosto raro, di "cattosocialista") e che consistevano in una grande capacità di mediazione, un notevole senso della realtà e dei rapporti di forza, un certo istinto politico. Il tutto accompagnato da un "sense of humor" assai affinato e, quando si andava sotto la prima buccia, da una partecipazione umana autentica.

Beatificarlo, stamparlo in un'immagine da santino, com'era stato fatto finora, significa umiliare la sua memoria e far torto alla sua intelligenza che era, essa sì, notevole.Ora finalmente l'amorosa testimonianza della figlia lo toglie dall'empireo dei santi, degli eroi e dei martiri all'italiana per restituirci, al posto di quello sepolto dalla retorica e dalle pallottole di due imbecilli, un Walter Tobagi vivo.

Massimo Fini