0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Nei giorni che precedono immediatamente il Natale cominci a ricevere telefonate di persone che non frequenti più da tantissimo tempo. E la litania prosegue fino a Capodanno. Degli auguri hanno solo la forma, in realtà sono solo una delle manifestazioni di quella solitudine che assale alla gola noi vecchi sotto le Feste. Quella solitudine c’è sempre, ma qui si fa più acuta e dolorosa. Con una velocità vertiginosa ti vengono incontro i tempi in cui eri bambino e il Natale era una Festa, ricevere i regali un’affascinante sorpresa e ti agguantano anche i Natali in cui eri tu ad avere i bambini, e la tua famiglia, di cui eri diventato il capo, non era una famiglia ma un clan, con i genitori, i nonni, gli zii, la zia rimasta nubile, le sorelle, i fratelli, i cugini, con le loro fidanzate o compagne o mogli con i propri figli e magari già con i figli dei loro figli. Adesso quel clan si è smembrato così come si è smembrata la tua vita. Molti amici sono morti. Lì per lì non te ne sei quasi accorto, erano casi isolati. Ora è come essere su un campo di battaglia senza nemmeno la battaglia.

Terribile non è solo l’ira del mansueto, lo è anche la solitudine del vecchio. D’ordine diverso sono la solitudine del giovane e del vecchio. Quella del giovane è una scelta, può interromperla in qualsiasi momento, quella del vecchio è coatta, una prigione, un buio sforato solo da qualche, rara, ‘bocca di lupo’.

Da vecchi avviene una cosa sorprendente, all’apparenza. Le giornate sembrano lunghissime perché sei molto meno o per nulla impegnato (“E adesso vai curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”, questo è il vero senso di quella pensione tanto agognata da molti). Inoltre dormi molto meno. Di quelle ore che un tempo ti sarebbero state così preziose ora non sai che fare. Mi ricordo il raccapricciante racconto di un vecchio amico di mio padre il quale, intendo mio padre, era morto, per sua fortuna, una ventina di anni prima. Era stato Direttore, oggi nella contrazione orwelliana delle sigle si direbbe AD o CO, di una banca di media importanza, un uomo molto attivo. Adesso si svegliava all’alba e passava quattro ore, ansiose e inoperose, in attesa dell’apertura della Biblioteca, alle otto del mattino. Qui, con l’inutile e patetica voracità di Bouvard e Pécuchet, si gettava a leggere di tutto, anche, anzi soprattutto, cose di cui non gli era mai importato nulla, tanto per “ammazzare il tempo” pur essendo ben consapevole, perché era un uomo intelligente e sensibile, che era il tempo ad ammazzar lui.

Al contrario, in vecchiaia, se i giorni sono lenti, gli anni passano fulminei, senza nemmeno che te ne accorga. “Come, è già di nuovo Natale? Ma non era stato ieri?”. Pensate a un mese di vacanza. La prima settimana passa lenta, la seconda un po’ più veloce, la terza rapidissima, la quarta è appena cominciata che è già finita. Così è il Tempo nella vita dell’uomo. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall’infanzia? La giovinezza, pur essendo oggettivamente più lunga (i Latini la fissavano dai 14 ai 45 anni) corre più veloce. La maturità che, sempre per i Latini, arrivava a sessant’anni, dopo di che cominciava l’atra senectus, è ancora più rapida. In vecchiaia il Tempo, questo padrone inesorabile delle nostre vite, precipita, cade a vite come un aereo cui abbiano impiombato un’ala.  E mentre spegni l’ultima candelina dell’ultimo albero di Natale ti chiedi, rassegnato più che sgomento, se ci sarà un’altra volta.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2018