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Assisto attonito, e credo che nella stessa condizione ci siano molti altri, al grottesco balletto messo in scena dai partiti e dai loro rappresentanti in questi mesi e giorni di vigilia elettorale, alle manovre, al tourbillon delle dichiarazioni, alle sparate, alle accuse e controaccuse, al clima isterico per cui le prossime «amministrative» potrebbero o dovrebbero segnare una «svolta storica» nel nostro Paese. Può darsi, anche se ne dubito fortemente, che i rappresentanti dei partiti siano in buona fede e credano a quel che dicono, ma qualsiasi sia l'esito del 12 maggio non ci sarà alcuna «svolta storica» perché il vero problema della democrazia italiana non è se i comunisti sorpasseranno i democristiani, se il pentapartito terrà, se Craxi verrà premiato ma sono proprio loro, i partiti e la loro totalizzante presenza nella società. In quarant'anni di democrazIa e, con un crescendo rossiniano, negli ultimi venti, i partiti non solo hanno occupato tutte le istituzioni dello Stato, il Governo, il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, le Regioni, i Comuni, le Province ma hanno messo le mani su tutto il resto della società, sulle aziende del parastato, sull'industria pubblica, sulle banche, sugli ospedali, sulle grandi compagnie di assicurazione, sulle università, sulla Rai-Tv, sulle aziende municipalizzate, sulle spa comunali, sugli enti culturali, sugli Iacp, sui porti, sulle terme, sulle mostre, sulle aziende di soggiorno, sugli acquedotti, sui teatri, sui conservatori, sulle casse mutue, sulle Usl e, in modo appena più indiretto, sulla burocrazia, sulla Magistratura, sui giornali e, da ultimo, anche sulle Forze Armate. Non c'è angolo della nostra vita, pubblica o privata, non c'è luogo di lavoro che non risenta di questa asfissiante presenza dei partiti. Né è accettabile l'argomento con cui l'onorevole Andreotti nei suoi «Bloc notes» cerca di legittimare (a proposito della Usl, ma con l'ovvia intenzione di estendere il discorso) questa occupazione totalizzante dei partiti. Scrive infatti Andreotti: «Non mi sembra invece molto giusto prendersela con la scelta degli amministratori delle Usi filtrata tramite i partiti. Perché non vedo un mezzo più garantista, in quanto con i partiti, almeno si fanno i conti nei momenti elettorali». Quando infatti l'occupazione della società e delle sue istituzioni avviene da parte di tutti i partiti, e spesso nella forma aberrante della democrazia consociativa, senza cioè che sia chiaramente distinguibile una maggioranza ed un'opposizione (come è proprio il caso delle Usl), non è che l'elettore può, in qualche modo, difendersi punendo la Democrazia cristiana e votando i comunisti o favorendo i liberali al posto dei socialisti. Anzi è proprio questa lottizzazione omnicomprensiva che vanifica il suo voto. La questione di fondo è se i partiti abbiano diritto di occupare tutti gli spazi che occupano. Questo diritto non si ricava da nessuna parte, tantomeno dalla Costituzione che (è bene ricordarlo ancora una volta) dedica ai partiti un solo articolo, il 49, per dire che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Da questo articolo della Costituzione i partiti hanno debordato in modo clamoroso per estendere la loro determinante ed ingombrante presenza agli altri centotrentotto? Da libera scelta, l'appartenenza ad un partito è diventata un obbligo, per amministrare o per dirigere una banca o un ospedale o un teatro, per girare un telefilm, per fare carriera, per lavorare, per vivere. Oggi, più che mai, è valida la frase che Ignazio Silone mette in bocca ad uno dei suoi personaggi in Vino e pane, scritto in pieno fascismo: «Per vivere un po' bene, bisogna vendere l'anima. Non c'è altra via». I partiti, da strumenti di libertà, quali erano e dovevano restare in una società democratica, si sono trasformati nel loro opposto, in una affiliazione coatta ed umiliante. Anche oggi esiste, come durante il fascismo, una «tessera del pane». Ed il fatto che questa tessera possa essere di colori diversi non cambia la sostanza delle cose perché anche i cittadini che non sono affiliati ad alcun partito hanno diritto di raggiungere posti dirigenziali, di fare carriera, di lavorare così come hanno diritto di non essere amministrati solo da rappresentanti di partito. Ecco perché oggi la profonda avversione che molta gente prova nei confronti del sistema dei partiti non può essere sbrigativamente liquidata e bollata con l'accusa di qualunquismo come è sottinteso nelle parole dell'onorevole Andreotti. Del resto che la democrazia non abbia niente a che vedere con la partitocrazia, e che un sistema del genere sia profondamente illiberale, è cosa di cui ormai si sono resi conto in molti, dai tempi delle famose denunce di Maranini. Ma qui sorge un problema che sembra irresolubile. Se si vuole agire per vie democratiche, gli unici che possono ridimensionare lo strapotere dei partiti sono proprio i partiti. E questi non lo faranno mai. Come dimostra anche la melanconica fine che ha fatto la Commissione diretta dal pur ottimo Bozzi. Che fare allora? lo credo che l'unico modo, pacifico e legittimo, sia quello di far capire ai partiti che la misura è colma. Solo se si rendessero conto di non rappresentare, nel loro complesso, la maggioranza del paese, i partiti potrebbero essere spinti a darsi una regolata. Ma è molto difficile che ciò possa accadere, perché  l'organizzazione in partiti, in clan clientelari che possono decidere della tua carriera, del tuo lavoro, della tua vita è un modo molto efficace, anche se brutale e violento, di ottenere il consenso. E siamo da capo.