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Qualche tempo fa mi trovavo ad un pranzo organizzato a Milano in margine ad una delle numerose «Conferenze sulla cooperazione allo sviluppo» che si tengono di questi tempi. Per «Cooperazione allo sviluppo», come è noto, si intendono gli aiuti al Terzo Mondo ed in particolare all' Africa, devastata, in questi ultimi decenni, dalla fame. C'erano, a quel pranzo, alti funzionari del ministero degli esteri, che si occupano in modo specifico di questo problema, giornalisti specializzati ed il presidente della Camera di commercio di Milano, Piero Bassetti. Ad un certo punto buttai lì, in modo provocatorio, il dubbio che da sempre mi assilla e che ho già espresso su queste colonne: se le disgrazie dell' Africa non fossero cominciate proprio quando ci siamo messi ad aiutarla e se l'Africa non stesse meglio prima, quando si aiutava da sola.  Pensavo che la mia domanda cadesse fra il gelo dei presenti ed invece, con mia enorme sorpresa, essa ebbe, più o meno, lo stesso effetto liberatorio che provoca Fantozzi/Villaggio quando, dopo anni di sevizie culturali, osa urlare al microfono che «la corazzata Potemkin è una boiata tremenda». Subito gli alti funzionari del ministero ammisero che il continente africano, agli inizi del secolo, quando al mondo industrializzato non era ancora venuta la smania di portar il suo aiuto, era «autosufficiente dal punto di vista alimentare». Dissero anche che gli aiuti, per ora, non avevano fatto altro che peggiorare la situazione. Aggiunsero, a difesa del loro mestiere, che si poteva però sperare che in futuro, razionalizzandoli, le cose andassero meglio. Però uno di essi, finita la cena, mi tirò in un angolo e mi raccontò di ricevere decine di lettere di africani in cui si implorava di «non aiutarli più». Come mai gli aiuti del mondo industrializzato si rivelano così disastrosi? Le risposte sono a parecchi livelli. Molti di questi aiuti, come si sa, non arrivano a destinazione: per pastoie burocratiche, per l'enorme costo delle elefantiache organizzazioni che si occupano di queste cose, per le consuete grassazioni politiche dato che c'è anche chi non rinuncia a rubare nemmeno in casa del morto di fame. Ma questo è il minore dei mali, potrebbe anzi essere un vantaggio. Nel caso in cui arrivano, si tratta spesso di aiuti sbagliati e controproducenti. Per fare un esempio, si manda riso in paesi che non lo possono coltivare, ingenerando così abitudini alimentari che, venuto meno l'aiuto, non possono più essere soddisfatte. Oppure l'aiuto è tale da rovinare completamente gli agricoltori della zona che non possono più vendere ciò che viene dato gratis. Molto spesso i paesi europei (e la Francia sembra essere in testa in questo gioco cinico) inviano in Africa delle derrate di cui si devono semplicemente liberare per non deprimere il mercato interno, senza minimamente curarsi se s!ano più o meno utili alle popolazioni afrIcane cui sono destinate e quali conseguenze provochino. Ma finché le cose sono solo queste, si può sempre sperare che migliorino, quando i paesi industrializzati invieranno i loro aiuti con minor cinismo e con maggior coscienza e razionalità. Il fatto è che la questione degli aiuti è più complessa e profonda. Questi aiuti infatti si rivelano dannosi anche quando sono fatti con la massima razionalità e con i migliori intendimenti possibili. Bisognerebbe, per esempio, avere il coraggio di dire (e, per la verità, a quel pranzo un'alta personalità lo disse, ma non posso farne il nome perché la persona in questione verrebbe linciata dalla demagogia ufficiale) che il dramma della fame in Africa è cominciato Quando gli europei vi hanno esportato la loro igiene e la loro medicina. L 'aumento della popolazione, non supportato da una economia conseguente, ha provocato il disastro. Certo, oggi, di fronte ai bambini che muoiono di fame, di sete, di stenti, di malattie, è difficile, è impossibile resistere alla tentazione di mandare cibo, medicinali, vaccini, ma è probabile che, in questo modo, non faremo che aggravare la situazione dei prossimi anni. La causa profonda di quanto sta accadendo in Africa non è la siccità, non sono le calamità, che ci sono sempre state, ma  il contatto intrusivo e violento del mondo industriale in un sistema socio-ecologico, diverso che si reggeva su un suo equilibrio. Noi quest'equilibrio l'abbiamo distrutto con la balorda ed arrogante convinzione che il nostro modello, quello tecnologico-scientifico, fosse «il migliore dei mondi possibili». Facendo balenare le nostre luccicanti pietrine tecnologiche abbiamo strappato le popolazioni del Terzo Mondo alle campagne, inurbandole in città prive di prospettiva e desertificando i loro territori. La tragedia del Sahel, dell'Etiopia, del Corno d' Africa nasce di qui, dall'abbandono di una campagna che si è impoverita al punto da diventare deserto e da coinvolgere anche quelli che vi sono rimasti. Oppure mandiamo soldi a questi paesi, ma ce li riprendiamo con gli interessi vendendo loro inutilissimi prodotti della civiltà dei consumi o, come ha detto Giovanni Nervo, vicepresidente della Caritas italiana, «armi e strumenti di morte». Purtroppo si tratta di una storia senza ritorno. Una volta contaminata dal modello tecnologico l' Africa è costretta a industrializzarsi a tappe forzate, a diventare una degradata periferia degli imperi, più umiliata e povera di quand'essa era povera a modo suo. E per conseguire questo brillante risultato dovrà lasciare sul terreno milioni di morti. Col conforto del nostro aiuto.