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Mosca, novembre. I due sordomuti mi avvicinarono in uno dei rarissimi caffè di Mosca, in via Pianetcka, di fronte al Beriozka, che è uno di quei magazzini dove solo gli stranieri, o quei russi che sono in possesso dei cosiddetti «rubli certificati» (otto volte il valore del rublo normale, al mercato nero), possono comprare merci di importazione o articoli di fabbricazione sovietica difficilmente reperibili sul mercato (hanno diritto ai «rubli certificati» i russi che guadagnano denaro all'estero, artisti, scrittori, diplomatici, sportivi, marinai, o che godano, per imperscrutabili motivi, di questo privilegio: militari, giornalisti, guide dell'lntourist, dirigenti governativi di rango inferiore). Masha, la mia guida, era alla cassa per pagare mentre io stavo in piedi davanti a un alto tavolino self-service. I sordomuti presero a tirarmi il paltò e i pantaloni, accompagnando i gesti con rauchi suoni gutturali e cercando di farmi capire che desideravano acquistare abiti occidentali. Li lasciavo fare, incuriosito. Temendo che, a causa della loro menomazione, non avessi capito bene, i due strattonavano i miei abiti sempre più forte sfregando contemporaneamente il pollice contro l'indice nel gesto internazionale che significa denaro. Alla fine arrivò Masha e minacciò di chiamare la polizia, al che i due, dimostrando di sentirci benissimo, si dileguarono. Portai la mano alla tasca destra dei pantaloni: il portafoglio non c'era più. Mi precipitai fuori del caffè all'inseguimento dei falsi sordomuti, ma naturalmente erano già svaniti nel nulla. A parte la mia alloccaggine, dovuta anche alla curiosità professionale, un colpo magistrale. A Napoli non avrebbero fatto meglio. Quando chiesi al dottor Mattiolo, console dell'ambasciata d'Italia, cosa dovessi fare, mi rispose che una denuncia alla polizia era del tutto inutile. «Già», dissi io, «tanto non ne caverebbero nulla». «No, non è per questo», mi rispose il console, «è che non accetterebbero la denuncia, non ammetterebbero mai che un furto del genere possa avvenire a Mosca e lei perderebbe solo del tempo». In cucina, al caldo, fra amici, batte il vero cuore della casa Comunque il furto mi diede modo di entrare meglio nel carattere e nella vita dei russi. Innanzitutto mi accorsi che, paradossalmente, a Mosca si vive più facilmente da poveri che da ricchi. Dico questo in due sensi. Il primo è che, effettivamente, avere molto denaro serve a poco, perché mancano i beni in cui spenderlo (qui la vera ricchezza è data dai privilegi di cui godono gli strati superiori di questa società rigidamente divisa in caste). In secondo luogo, la vita di Mosca è ritmata su una dignitosa povertà per cui, se uno si adegua, non ha problemi. lo ero rimasto assolutamente senza denaro, a parte i 60 rubli di sussidio ( circa 130 mila lire), che mi aveva dato l'ambasciata. Se una cosa del genere mi fosse capitata a Parigi, a Londra, a New York, sarei dovuto tornarmene subito a casa. A Mosca restai invece ancora una settimana senza grandi sforzi e senza sottopormi a particolari privazioni. Infatti i prezzi dei servizi essenziali, trasporti, comunicazioni, telefoni, cibo, se uno si accontenta di quello che c'è nei negozi o nelle stalovaie, le mense popolari, sono bassissimi. L 'assistenza medica è gratuita. Di affitto si pagano dai sei agli otto rubli, e anche meno, al mese su stipendi che sono, al livello più basso, di 125 rubli. Certo, i servizi non sono granché ( oltretutto i medici, chissà perché, sono fra i lavoratori meno pagati), gli appartamenti sono piccoli e modesti. In genere le case russe si presentano meglio all'esterno che all'interno. Per esempio i grandi quartieri satellite della periferia di Mosca, il Krilazkoie, il Matvieieskoie, sono del tutto simili ai nostri, al Gratosoglio di Milano, alla Magliana Nuova di Roma, al Cem di Bari, per le dimensioni disumane, le torri di quindici, venti piani allineate in interminabili file o ammucchiate a casaccio o, peggio ancora, messe in modo, come al Krilazkoie, da formare un grande anello chiuso. Questi quartieri sono, anzi, ancor più smisurati, più impressionanti di quelli italiani, però non hanno quell'aspetto scrostato, disfatto dei nostri (in genere gli edifici sono rivestiti di piastrelle bianche e azzurre, di dubbio gusto ma solide) e, soprattutto, hanno attorno boschi di aceri, di betulle, di tigli e non il desolante terrain vague e il paesaggio di sfasciume industriale, cimiteri di macchine, discariche, capannoni, eccetera, che caratterizzano i quartieri-ghetto popolari delle grandi città italiane (sia detto di passata, Mosca è una città pulitissima: non solo perché i suoi abitanti la tengono pulita, ma perché i moscoviti, da bravi ex contadini, non buttano via nulla, come invece succede, anche da parte dei poveri, nelle società opulente). I problemi cominciano all'interno, nelle rifiniture, nelle infrastrutture, nei servizi, nei bagni e soprattutto negli spazi. In questi quartieri, i giovani operai (si tratta infatti di quartieri operai) sono costretti a dividersi un appartamento di tre stanze in sei o sette. Stanno invece gradatamente sparendo le situazioni, comuni anni fa, delle coabitazioni coatte fra famiglie diverse. Il fenomeno della coabitazione rimane nel caso, frequente, di figli che si sposano e restano nella casa dei genitori perché non riescono a trovare un appartamento. Ma questa non è certamente una cosa che possa scandalizzare chi vive oggi in Italia. Ci sono anche delle soluzioni abitative diverse da quelle delle case statali. Marica, la ragazza che lavora alla radio di cui ho parlato nella prima puntata, abita in un edificio in cooperativa con proprietà a riscatto. Ciò le costa 50 rubli al mese su uno stipendio di 250, ma le dà il privilegio di avere due camere, una per sé, una per il figlioletto, Sasha, di dieci anni, il che, nella situazione sovietica, è un lusso. Siamo sempre al di sotto degli standard occidentali perché il bagno è minuscolo. proprio uno sgabuzzino, e manca, rispetto a noi. la sala da pranzo. Per cui la vita di relazione dei russi si svolge in cucina, è lì che si riceve, che si ospita, che si chiacchiera, che, se non è giornata di lavoro, si passano interi pomeriggi, è lì che, naturalmente, si mangia, però non ad orari fissi, ma spiluzzicando, facendo il tè, assaggiando un pezzo di torta, facendo cuocere ogni tanto qualcosa. Nell'atrio dell'università l'albo d'onore per i professori In realtà la cucina dei russi, nella sua sgangheratezza, è un luogo infinitamente più caldo, più intimo, più accogliente dei nostri salotti piccolo-borghesi, pretenziosi e freddi. Ero appunto nella cucina di Marica quando, verso le due, vi piombò, affamato come un lupacchiotto, Sasha che usciva allora da scuola. Era vestito nella divisa regolamentare, giacchetta azzurra e pantaloni dello stesso colore, ed in più al collo aveva il fazzoletto rosso dei pionieri (vi si iscrivono i ragazzi dai nove ai quattordici anni, dopo quell'età si passa al Komsomol rispetto al quale i pionieri sono un po' come i balilla nei confronti degli avanguardisti). Sasha mi mostrò i suoi giochi, che erano i giochi di tutti i bambini del mondo, macchinine, soldatini, e sua madre mi disse, con orgoglio, che andava molto bene a scuola. E questo è fondamentale per ogni giovane russo. Infatti, come è noto, la scuola sovietica è basata su criteri di selezione inflessibilmente meritocratici. Basta fare un salto all'università di giornalismo, che è una dependance della gigantesca università Lomonossov costruita sulle colline Lenin (cinquanta edifici, cinquantamila locali), per capire il clima. Nell'atrio, in bella evidenza, sono esposte le fotografie dei migliori professori del momento. Provate a pensare ad una cosa del genere in una università italiana. Anche la storia di questo Lomonossov, che fondò l'università nel 1756, e che ogni brava guida Intourist non omette di raccontare, con molta enfasi, ai visitatori stranieri, è emblematica ed edificante. Racconta, la guida, che Lomonossov viveva nella lontana Arkhangel'sk, sul mar Bianco, ed era il poverissimo figlio d'un poverissimo pescatore. Lomonossov venne a piedi da Arkhangel'sk a Mosca su delle povere scarpe di tela che, in breve, si sfaldarono e quindi continuò a piedi nudi, sanguinanti. Ma nulla poté fermarlo, arrivò a Mosca lo stesso, fece i più umili mestieri, patì, studiò e divenne un grande scienziato. E così dovrebbero fare oggi tutti i giovani sovietici. Certo Lomonossov, di cui, di fronte all'immancabile busto di Lenin, campeggia un ritratto in ricchi abiti settecenteschi che pare uno di quei personaggi prediletti da Brulov (pittore principe dell'aristocrazia, e che fu poeta ufficiale della zarina Elisabetta) forse oggi si stupirebbe un poco a sapere d'essere indicato come esempio ai figli della rivoluzione d'Ottobre. Una volta finiti gli studi, il posto è garantito. Meno noto è che ai medi e bassi livelli esiste una notevole mobilità del lavoro. Si può cambiare occupazione con una certa facilità e si possono trovare soluzioni non necessariamente irreggimentate. Masha, per esempio, che lavora in fabbrica, medita di lasciarla presto per un lavoro a casa ed essere così più libera. E pensa che ce la farà. Il furto, come dicevo, mi diede modo di conoscere il carattere dei russi più da vicino. La loro generosità, per esempio. Non avevo ancora fatto in tempo ad essere derubato che Masha rovesciava le tasche e mi dava tutto quello che aveva, trenta rubli, un quarto del suo stipendio (l'ambasciata italiana, ricordo, me ne diede 60 che naturalmente dovrò restituire). Quel furto, in realtà, danneggiava più lei che me perché io non avevo più i soldi per pagare il suo lavoro, una somma considerevole. Ma lei non sembrava minimamente preoccuparsene. «Me li darai» diceva «quando tornerai a Mosca». Ma, a parte Masha, tutti i russi che conoscevo fecero a gara per offrirmi rubli e persino dollari (la comunità italiana, naturalmente, non mosse dito). Hanno le mani bucate anche quando non possiedono nulla È che i russi hanno col danaro un rapporto molto diverso dal nostro. Non lo rifiutano, tutt'altro, ma pensano che sia fatto per essere speso. Sono avidi di mance, ma ne danno di altrettanto laute. E si meravigliano che gli italiani siano sempre lì a guardare il resto. È  assolutamente abituale a Mosca chiedere ad un passante i due copechi necessari per telefonare. Come è abituale, per loro, prestar rubli e farsene prestare. Cova in ogni russo, per stracciato che sia, l'animo di un principe, c'è sempre un pizzico di simpatica megalomania in quel che fanno, sono scialacquatori ed hanno le mani bucate anche quando non posseggono niente. I russi inoltre si fanno in quattro per aiutarti. Questo stupirà chi ha sperimentato la leggendaria scortesia dei moscoviti sui luoghi di lavoro, negli uffici, nei negozi, sui taxi. Ma bisogna pensare che Mosca è, come Roma, una grande città ministeriale, sia in senso stretto, perché è la capitale e vi han sede gli uffici amministrativi, sia perché ognuno, qualsiasi mestiere faccia, è in realtà un impiegato dello Stato. Sul lavoro quindi l'atteggiamento dei russi è assolutamente lo stesso degli impiegati dei ministeri romani, anzi ancora più indolente e strafottente, se possibile. Ma basta che una cosa non sia per lavoro, per dovere, che ridiventano immediatamente gentilissimi, affettuosi, partecipi. I russi non sono allegri. Possono avere improvvisi scoppi di allegria, soprattutto se c'è di mezzo l'alcool, ma non sono allegri. E anche dai loro scoppi di allegria c'è sempre da aspettarsi il peggio, qualche furore autodistruttivo, la violenza improvvisa, il passaggio repentino all'umore opposto, la malinconia che è il loro tono di fondo e più vero. La loro allegria, quando c'è, è sempre legata a qualche autolesionismo e non è davvero un caso che un tempo, dopo aver brindato, rompessero i bicchieri contro gli specchi e che, in Guerra e Pace, Pierre tracanni l'intera bottiglia di vodka seduto in bilico sul davanzale della finestra. In ogni caso, è un popolo tragico, cui manca la leggerezza del sorriso. Non per niente il loro autore è Ciaikovski, non è Mozart. È un popolo che ha conservato tutta la gravità dell'800 senza aver mai avuto la levità del '700. In tutto il periodo in cui sono stato a Mosca non ho mai sentito un uomo russo ridere, solo le donne e raramente. «I nostri uomini,» dice Masha «sono bespecniè, indolenti, lasciano passare le cose, non se ne curano, rinviano sempre a domani. L 'uomo russo fa fare alla donna sulla quale grava tutto il peso della vita in comune anche perché, molto spesso, gli uomini sono ubriachi» La donna è fondamentale nell'economia della società sovietica. Ne è il vero pilastro, molto più dell'uomo. La donna russa è impegnata su parecchi fronti, a cominciare da quello del lavoro. In Urss lavora l'85% della popolazione femminile in età per farlo, la percentuale più alta di tutti i paesi industrializzati (negli Stati Uniti, paese dell'emancipazione femminile, è del 50%). E si tratta spesso dei lavori più pesanti. Hendrick Smith parla della meraviglia per lo spettacolo «di donne che spaccano a picconate l'asfalto delle strade gettandolo a badilate sui camion (mentre il camionista se ne sta a guardare), donne che col piede di porco divelgono le rotaie del treno, scopano le strade, spazzano la neve, rompono il ghiaccio che si forma d'inverno, trasportano secchi da muratore, zappano campi, imbiancano le facciate degli edifici, buttano carbone nelle caldaie dei treni». Poi, naturalmente ci sono la famiglia, i figli, la casa, cui la donna, per l'indolenza, l'ubriachezza, le abitudini dei maschi russi e la mancanza di qualsiasi forma di assistenza domestica e di babysitteraggio, deve far fronte completamente da sola. Dice Marica: «A trentacinque anni qui la donna è già finita, una vecchia. Perche lavora, perché deve occuparsi della casa, dei bambini, del marito e non ha nessun aiuto. Eppoi anche queste code quotidiane logorano. lo mi sento eternamente stanca». I russi sono infidi. È il rovescio della medaglia del loro sentimentalismo. È un popolo molto facile ad abbandonarsi, ma altrettanto pronto a pentirsi dei propri abbandoni. E questa tendenza naturale è accentuata ed aggravata dal regime che crea un pesante clima di sospetto reciproco. C'è sempre la possibilità che un russo sia un informatore della polizia o che, all'occasione, possa diventarlo. Un giorno che non aveva potuto accompagnarmi perché doveva avviare le pratiche per poter andare in vacanza in Crimea (non solo gli occidentali, ma anche i russi sono sottoposti a vincoli per i loro sposta menti nei territori dell'Unione Sovietica, esiste un passaporto interno), Masha mi mandò, in sostituzione, una sua amica, Anna, una bella ragazza con la quale mi intesi bene. Lavorammo insieme intensamente per tutto il giorno, ma sul far della sera Anna cominciò ad incupirsi, a dirmi che ero un tipo strano perché non volevo vedere le cose che interessavano gli altri come i teatri, i musei o i grandi empori per gli stranieri, e che, insomma, lei pensava che non fossi un vero turista, ma che ero a Mosca per altre ragioni e che questo era pericoloso. «Oh caro, caruccio, ti prego, dimmi il cognome di tua madre» Mi inquietai un poco e risposi: «In ogni caso non stiamo facendo nulla di male, giriamo per Mosca come fan tutti gli altri. Che ci possono fare?». «Oh» disse lei «vedremo come andrà a finire. Tu conosci questo paese: può sempre succedere di tutto». Poi cominciò a chiedermi qual era il cognome russo di mia madre, con un'insistenza che mi parve eccessiva e rifiutai di dirglielo. «Non ti fidi?». «No». Anna scoppiò a piangere: «Oh caro, caruccio, lo so che non sei un turista, lo so, l'ho visto. Non ti preoccupare non ne farò parola con nessuno. Ma tu dimmi il cognome di tua madre». Fu allora che mi allarmai sul serio. Quando i russi ti piangono addosso, e non sono ubriachi, c'è sempre da temere il peggio. Capii che la piccola voleva vendere qualche informazione alla polizia, magari con qualche opportuna esagerazione. Eppure le lacrime di Anna erano vere, le scendevano a gocce lungo il viso sconvolto, sincere. E mi venne in mente, fatte tutte le debite proporzioni, un vecchio episodio che riguarda Bucharin e Trotskij. Era il '22, Lenin aveva appena avuto il primo colpo apoplettico ed era già iniziata la sorda lotta per la successione fra Stalin e Trotskij. In quel periodo Bucharin si recò da Trotskij, che era leggermente indisposto e, dopo avergli fatto un resoconto dettagliato della malattia di Lenin, cadde sul letto e, abbracciandolo con la coperta e singhiozzando, gli disse: «Babuska caro, carissimo, non ammalarti anche tu, per favore, non ammalarti... Sono due le persone alla cui morte penso sempre con orrore. Lenin e te». E così dicendo, Bucharin piangeva sulla spalla di Trotskij, il quale lo consolò e lo mandò via un po' più tranquillo. Ma Bucharin non fece in tempo a voltar l'angolo che già correva trafelato da Stalin, stringeva alleanza con lui e tradiva il «babuska carissimo». Ma la cosa straordinaria come racconta lo stesso Trotskij in Ma vie è che, nel momento in cui piangeva sulla sua spalla, Bucharin era assolutamente sincero.