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Il Parlamento europeo ha consegnato l’altro giorno il prestigioso Premio per la libertà di espressione, intitolato a Sacharov il notissimo dissidente durante gli anni dell’Urss, all’opposizione democratica venezuelana.

Credo che le grandi Istituzioni internazionali, Nobel compreso, dovrebbero essere molto più caute nell’assegnare questi Premi. Nel 1991 Aung San Suu Kyi fu insignita del Premio Nobel per la Pace per la sua opposizione alla dittatura dei militari birmani. Arrivata al potere la democratica Aung San Suu Kyi ha condotto, e ancora conduce, una spietata repressione nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya, costringendone 600mila a fuggire in Bangladesh. Ieri Medici senza Frontiere ha denunciato che fra agosto e settembre sono stati uccisi 6700 Rohingya fra cui 730 bambini sotto i 5 anni. Naturalmente l’accusa è di terrorismo islamico che è diventato un passepartout per ogni sorta di repressione e di violenze (mi viene difficile pensare che un bambino di 5 anni possa essere un terrorista). Dopo qualche mese che la democratica Aung San Suu Kyi aveva assunto il potere chiesi al mio caro amico Franco Nerozzi che dirige una onlus, Popoli, che difende i diritti di un’altra minoranza da sempre perseguitata, i Karen, se la situazione fosse migliorata. Rispose: “Migliorata? E’ peggiorata. Di molto”.

A proposito del Premio Sacharov assegnato all’opposizione democratica venezuelana, l’eurodeputata tedesca Gabi Zimmer, socialista, ha affermato: “Assegnare il Premio ad un partito politico, come nel caso dell’opposizione democratica, significa intervenire nella situazione interna del Venezuela e non è questo lo spirito del Premio Sacharov”.

Nicolàs Maduro non è un dittatore (anche se, forse, aspira a diventarlo) è al massimo un autocrate tipo Putin. Nella repressione dell’opposizione venezuelana, cui la stampa occidentale a dato ampio risalto, come ampio risalto dà ad ogni notizia negativa che provenga dal Venezuela, sono morte, negli scontri delle diverse fazioni (contestatori di Maduro e sostenitori di Maduro) un centinaio di persone, ma solo una parte appartiene all’opposizione, l’altra, fra cui cinque poliziotti, ai sostenitori di Maduro.

I Premi Nobel per la Pace, o altri consimili, si sono quasi sempre rivelati delle dichiarazioni di guerra. Maduro non ha preso il potere con un colpo di Stato, al contrario del generale egiziano Abd al-Fattah al-Sisi (molto corteggiato dagli europei, dagli americani e persino da quelle anime belle dei turchi di Erdogan) che nel luglio del 2013 rovesciò con un golpe militare il governo dei Fratelli Musulmani, guidati dall’avvocato Mohamed Morsi, che avevano vinto le prime elezioni libere di quel Paese dopo decenni di dittatura. Ammesso che Nicolàs Maduro sia direttamente responsabile degli oppositori morti (comunque ben al di sotto dei cento) ebbene Al Sisi di vittime ne ha fatte più di 2500, altre 2500 le ha affossate nel gorgo dei desaparecidos (stime assolutamente al ribasso) ha abolito la libertà di stampa e ogni altro diritto civile. Perché allora questa concentrazione di attenzione sul regime venezuelano e nulla su quello del tutto illegittimo e molto più sanguinario di Al Sisi? La ragione è sempre la stessa ed è quella che denunciavo in un articolo sul Fatto del 15 agosto di quest’anno: il socialismo sia pure imperfetto come quello di Maduro, come quello di Slobodan Milosevic portato davanti al solito Tribunale internazionale dell’Aia, non ha diritto di cittadinanza nel totalitario universo democratico. Ce l’ha il comunismo cinese, solo perché non è più comunismo ma una dittatura a libero mercato, cioè, tecnicamente, un fascismo.

Se le Democrazie continueranno su questo passo di aggressioni e di violenze per ogni dove (Serbia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Somalia 2006/2007, Libia 2011, Mali settentrionale 2013 e fra poco, forse, Venezuela) qualcuno comincerà a chiedersi se sia stato davvero un bene che abbiano vinto la seconda guerra mondiale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2017

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La nostra è una società femminile senza essere femminea. In Gran Bretagna si è deciso di ammettere le donne nei corpi speciali, le Sas, ma nei test per entrare in questi reparti cui sono affidate le missioni più difficili e pericolose si sono dovuti alleggerire i carichi fisici oltre che il massacrante addestramento (ma in Italia i maschi non se la cavano molto meglio se per fare il soldato semplice i requisiti fisici hanno dovuto essere abbassati –del resto che si può pretendere da generazioni in cui, statistiche alla mano, un bambino su tre non è capace di saltare a piè pari una linea tracciata sul terreno, mentre ai tempi miei anche le bambine facevano naturalmente questo facile esercizio giocando a ‘pampano’).

Che le donne debbano avere pari diritti e pari opportunità degli uomini e che se c’è un vuoto nelle opportunità, come in effetti c’è, debba essere al più presto colmato, non è nemmeno il caso di dirlo. Nondimeno, per il disegno di un dio dispettoso, donne e uomini se son pari non sono però uguali, né fisicamente né psicologicamente. E io vedo in questa voglia delle donne, o di parte di esse, di partecipare attivamente alla guerra un’autentica perversione degli istinti e una mutazione antropologica che va verso un’omologazione deleteria.

La donna (a parte rare, rarissime eccezioni, le Amazzoni) non ha mai amato la guerra, anzi l’ha sempre detestata. Poiché è colei che dà la vita questa carneficina le è sempre, e giustamente, parsa insensata. Per il maschio la cosa è diversa. Inconsciamente sa, o comunque intuisce, di avere nella grande storia antropologica dell’esistenza umana una funzione transeunte, quella marginale del fuco inseminatore. L’Ape Regina è lei. In molte culture antiche, per esempio nella kabbala e peraltro anche in Platone, si pensava che l’Essere primigenio fosse unico, androgino, contenesse cioè in sé sia il maschile che il femminile. Quando si scinde lei è chiamata “la Vita” o “la Vivente”, l’uomo colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Nel maschio quindi, come nel fuco, c’è un oscuro istinto di morte. L’”invidia del pene” è una sciocchezza d’autore, freudiana. E’ vero il contrario, è il maschio a sentire come limite questa sua impotenza procreatrice. E io sono portato a credere che è proprio per supplire in qualche modo a questa impotenza che si è inventato di tutto, l’arte, la letteratura, il gioco e il gioco di tutti i giochi: la guerra. Inoltre, paradossalmente ma solo in apparenza, la guerra gli è utile per superare il timore della morte. Com’è noto le donne sono più allenate ad affrontare la morte. Perché per loro è, in fondo, un ricongiungersi a se stesse, a Gea, alla Grande Madre Terra. Per l’uomo invece la morte è un fatto radicale, assoluto, senza ritorno e quindi inaccettabile. Ed è proprio l’immergersi nella guerra –intendo la guerra tradizionale, non quella che si fa oggi a colpi di droni e di missili- che gli fa dimenticare la morte (scrive Malraux: “Ho pensato molto alla morte, ma da quando mi batto non ci penso più”) perché conferisce alla sua vita quel senso di cui la sua impotenza procreatrice lo ha privato. Infine la guerra gli serve per dimostrare il proprio coraggio. La donna non ne ha bisogno: il coraggio ce l’ha quando occorre, perché vi è antropologicamente preparata dal parto con le sue doglie. Può spaventarsi per delle sciocchezze, il passarle fra le gambe di un passerotto o, orrore, di un topo, ma al momento del dunque lei c’è, meglio dell’uomo. Come dimostra la storia di molte donne di uomini celebri, dalla sposa di Luigi XVI a Claretta Petacci.

Se il mondo occidentale non è più femmineo è perché la donna, sotto la spinta di un’ideologia autodistruttiva e necrofora, sta via via perdendo i suoi connotati ancestrali e archetipi di Madre, procreatrice, protettiva, accuditiva. E’ femminile perché tale è diventato il maschio. Se Angela Merkel è considerata, in Europa, l’unico uomo di Stato è perché gli altri non sono più uomini ma parodie.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2017

 

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Tira una brutta aria, di maccartismo, di caccia alle streghe, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti. Dopo il ‘caso Weinstein’ si è aperta la caccia al ‘molestatore sessuale’. Non c’è uomo, soprattutto pubblico, politico, produttore, regista, attore, ma anche privato, su cui non alleggi l’accusa di stregoneria. E come ai tempi della Santa Inquisizione basta il sospetto perché venga acceso il rogo. Non passerà molto tempo –sempre che la cosa non sia già in atto- perché un qualche politico ingaggi dei Santi Inquisitori per rovinarne un altro.

C’è poi l’ancor più temibile caccia alla strega ‘fascista’ e ‘nazista’ o presunta tale. Un giovane calciatore di una squadra che milita nella seconda categoria dilettanti ha passato l’anima dei guai insieme alla sua società per aver mostrato, dopo un gol, una maglietta con l’insegna della Repubblica sociale. Un carabiniere di 22 anni è sotto inchiesta per aver esposto nella sua camera una bandiera usata dalla marina prussiana nella prima guerra mondiale. Che c’entra una bandiera prussiana col nazismo? E’ un vessillo usato anche dai naziskin che peraltro, a quanto ci risulta, non sono fuorilegge. Sono due episodi fra i tanti degli ultimi tempi. Ma il culmine si è raggiunto con la decisione del Comune di Pontedera, approvata da tutti i partiti tranne Forza Italia, per la quale per manifestare in piazza bisognerà compilare un modulo con cui si dichiara “estraneità a fascismo, razzismo, xenofobia, antisemitismo e omofobia”. Non esiste alcun obbligo di essere antifascisti. E viene il ragionevole dubbio che i veri fascisti siano coloro che vogliono impedire agli altri di definirsi o di essere tali. Come diceva Longanesi: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”. Del resto le recenti norme liberticide, dalla legge Mancino a quella che punisce “l’apologia di fascismo”, sono, sia pur a segno invertito, da Codice Rocco. E’ così difficile da capire che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo? Evidentemente sì. Il pensiero autenticamente liberale, insieme al partito, il Pli, che lo ha rappresentato per alcuni anni, non ha mai avuto fortuna in Italia.

In Francia si tenta di impedire a tutti i costi, con condanne e ricorsi, gli spettacoli del comico camerunense Dieudonné Mbala Mbala per il loro contenuto antisemita e antifemminista.

Sui canali ufficiali dell’informazione si sostiene che questi rigurgiti fascisti o nazisti sono presi sottogamba. A me pare vero il contrario e questo accanimento non fa che rinfocolarli. Non c’è bisogno di essere Freud per sapere che la trasgressione, quale che sia, è, soprattutto per i giovani, eccitante.

Negli Stati Uniti la caccia oltre che alle streghe è soprattutto allo stregone: Donald Trump. Dal giorno in cui è diventato Presidente, e anche da prima, non c’è atto di ‘The Donald’, accusato anche, fra le tante altre cose, di ostentare “una volgare mascolinità”, che non venga messo sotto la lente di ingrandimento e sotto accusa per cercare di arrivare all’impeachment. Il caso ‘Russiagate’ è totalmente artificioso. Come scrive Sergio Romano (Corriere 4/12): “L’incontro riservato con l’ambasciatore di una grande potenza non può essere considerato, di per sé, una colpa”. Si dovrebbe anzi essere contenti che le due Superpotenze, che per decenni si sono guardate in cagnesco arrivando a sfiorare la guerra atomica, cerchino di trovare un ragionevole accordo fra di loro. E’ la prima volta che gli americani, ipernazionalisti e perciò in genere molto compatti, contestano fin da subito un loro Presidente regolarmente eletto. Non è un buon segno di tolleranza democratica.

In realtà è da tempo che le Democrazie, che si intromettono con una serie infinita di verboten, di inquisizioni, di censure (vedi i casi Schiele, Balthus, Botero) oltre che nella sfera pubblica anche nella nostra vita privata, svelano quel volto di intolleranza di cui da sempre accusano i totalitarismi.

Tira una brutta aria…

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2017