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Tutti presi da ciò che avveniva in Europa i giornali occidentali hanno sottovalutato, e a volte semplicemente ignorato, ciò che negli stessi giorni accadeva in Afghanistan. Il 23 luglio migliaia di manifestanti sciiti che protestavano per la mancanza di elettricità sono stati vittime di un attentato kamikaze che ha fatto oltre 80 morti e almeno 250 feriti. L’Isis ha rivendicato l’azione. I Talebani afgani (troppo spesso confusi, per ignoranza o perché fa comodo, con quelli pachistani che sono tutt’altra cosa) non solo hanno negato ogni loro coinvolgimento ma hanno condannato il massacro senza se e senza ma come già avevano fatto per l’attentato, avvenuto in Pakistan nel dicembre del 2014, a una scuola frequentata dai figli dei militari pachistani. Non è affatto vero che, come scrive Michele Farina sul Corriere, quella fra Talebani e l’Isis è “una gara al massacro più grande”. Perché si tratta di movimenti diversi con obbiettivi altrettanto diversi e che combattono in modo diverso. 1) I Talebani nei sei anni in cui sono stati al governo non hanno mai perseguitato gli sciiti, gli Hazara o altre minoranze etniche o religiose. Quello che chiedevano, come lo chiede ogni Stato, è che tutti rispettassero la legge. 2) I loro attacchi terroristici o kamikaze, profondamente estranei alla tradizione afgana ma a cui i Talebani sono stati costretti dal fatto di non avere di fronte un nemico in carne e ossa ma solo caccia e droni, sono sempre stati mirati a obbiettivi militari e politici cercando di coinvolgere il meno possibile i civili, per la semplice ragione che è grazie all’appoggio della popolazione, o di buona parte di essa, che hanno potuto resistere per 14 anni a un nemico tanto superiormente armato. Ovviamente ci sono stati anche ‘effetti collaterali’, ma nulla di paragonabile a quelli provocati dagli indiscriminati bombardamenti americani e Nato (circa 200 mila vittime secondo alcune stime). 3) Quella dei Talebani è una guerra di indipendenza contro l’occupante straniero che non ha altro obbiettivo che liberarsene, la loro non è una guerra di religione e non ha niente a che vedere con le mire espansionistiche e globali dell’Isis. E’ anche per questo -e non per avere una sorta di ‘primazia nei massacri’ come scrive Farina- che i Talebani, pur sunniti, sono acerrimi nemici dell’Isis, che sul mondo sunnita ha issato la sua bandiera nera, lo hanno sempre combattuto e tuttora lo combattono. Ne fa fede l’ultimo atto del Mullah Omar prima della morte: una lettera aperta ad Al Baghdadi in cui intimava al Califfo di non cercare di penetrare in Afghanistan, aggiungendo inoltre che stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano”. Insomma erano un argine all’Isis. Se è vero che l’Isis “è il più grave pericolo per l’Occidente sorto dopo la fine della seconda guerra mondiale” come scrissi quando si chiamava ancora Stato dell’Iraq e del Levante, cosa di cui ora tutti, un po’ tardivamente, sembrano accorgersi, gli occidentali se avessero avuto non dico un minimo di lungimiranza ma di puro buon senso, avrebbero dovuto considerare i Talebani come degli alleati indiretti e allentare la presa su di loro invece di continuare a massacrarli. E’ ovvio che adesso i Talebani, stretti nella morsa delle forze occupanti e dei guerriglieri di Al Baghdadi, persa la guida del Mullah Omar che con il suo prestigio li compattava, e anche quella del suo ‘numero due’ Mansour, ucciso da un drone americano, cedano terreno di fronte all’Isis come dimostra l’attentato di Kabul e che è molto probabile che, come ho previsto, in breve il Califfato prenda il loro posto in Afghanistan. Il che apre ad altre insidie. Perché da lì l’Isis può puntare sul Turkmenistan, Uzbekistan e altre regioni dell’Asia centrale dove sono presenti forti componenti islamiche pronte a farsi radicalizzare. Sembra che in quindici anni le leadership occidentali non abbiano ancora imparato nulla dai loro errori (e orrori).

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2016

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“Non mi accontento. Do il massimo. Sempre. E’ il mio stile. Se sono le azioni a fare un uomo, sono io l’uomo di oggi. Un uomo non si accontenta. Rimani concentrato, mi dico. Sei un uomo. Più di una stretta di mano o di un lavoro ben fatto, fanno la disciplina e l’impegno vissuto ogni giorno. Giudica dai fatti. Sii fedele a te stesso. Questo fa di me un uomo di successo. Questo fa di me l’uomo di oggi. Boss bottled, la fragranza maschile di Hugo Boss”. Basterebbe questa pubblicità per capire che fine faremmo se si avverasse sul serio, a livello globale, quello ‘scontro di civiltà’ preconizzato da Huntington già nel lontano 1996. L’uomo occidentale, l’uomo Hugo Boss, l’uomo d’oggi, profumato, deodorato, azzimato, sbarbato, levigato, depilato (ma dove sono finiti i nostri ragazzi che negli anni Cinquanta sulle spiagge ostentavano un petto villoso, sia pur accompagnato da una deplorevole medaglietta della Madonna?) è completamente svirilizzato. Non è un uomo, ma la sua parodia. Noi non siamo più in grado di fare la guerra. Usiamo droni, dardo, predator, bombardieri, satelliti dagli occhi acutissimi ma non abbiamo più il coraggio di scendere sul terreno. Tant’è che nella guerra all’Isis siamo costretti a farci difendere dai peshmerga curdi e dai pasdaran iraniani che certamente non si profumano Hugo Boss. E nonostante tutto questo apparato tecnologico non riusciamo a sconfiggere un pugno di poche migliaia di guerriglieri, così come non siamo riusciti a piegare i resistenti afgani, che non si deodorano anzi puzzano, con bombardamenti assassini che durano da più di quattordici anni.

Inoltre non facciamo più figli. E non è solo per una questione economica, le popolazioni musulmane sono molto più povere di noi e figliano a carrettate. Il fatto è che l’uomo etero-light, come lo ha chiamato la collega Silvia Truzzi, troppo impegnato a guardarsi allo specchio non ha tempo per scopare o se lo fa ne è subito estenuato. Dall’altra parte le nostre donne, abbagliate dal mito tecnologico dell’eterna giovinezza, aspettano così tanto per far figli che, quando ci riescono, partoriscono al massimo dei nipoti. In più in Occidente il rapporto uomo-donna, per ragioni complesse che sarebbe troppo lungo cercare di spiegare in questo breve articolo, è diventato così difficile e complicato che i maschi preferiscono darsi all’omosessualità, cosa legittima ma, com’è noto, i figli non nascono dal didietro. E così l’età media dell’uomo occidentale supera la quarantina (quella italiana è del 42,5, quella tunisina del 32, su quella dei guerriglieri di Al Baghdadi non abbiamo statistiche ma da ciò che si legge dovrebbe essere intorno ai 24 anni com’era quella dei Talebani quando iniziarono la loro vittoriosa avventura per conquistare l’Afghanistan).

Vecchi, azzimati, esangui, spossati, infiacchiti dal benessere, privi di passione e di entusiasmi quanto di coraggio, come faremo ad affrontare questi altri che saranno anche ‘brutti, sporchi e cattivi’ ma han dalla loro la giovinezza, l’ardimento e una fiducia forsennata nel loro Dio?

Le cose sono due. O la smettiamo con queste stronzate-Hugo Boss e torniamo a essere degli uomini o invece di bombardare inutilmente i nostri nemici li innaffiamo con una tal quantità di profumi in modo da renderli simili a noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2016

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Il fenomeno Isis, il più inquietante ma anche il più interessante dalla fine della seconda guerra mondiale, può avere quattro letture, che non si elidono ma si sovrappongono. All’inizio è una guerra interreligiosa fra sunniti e sciiti i cui rapporti di forza erano stati sconvolti dall’aggressione del 2003 proditoria, immotivata e illegittima degli Stati Uniti all’Iraq di Saddam, Stato sovrano rappresentato all’Onu, aggressione avvenuta senza la copertura dell’Onu, anzi contro la volontà dell’Onu (si sa che per gli occidentali la copertura dell’Onu va su e giù come la pelle dei coglioni: se c’è va bene, se non c’è va bene lo stesso com’è avvenuto appunto in Iraq, ma prima ancora in Serbia nel 1999 e dopo in Libia nel 2011).

Ma fin dalle origini il conflitto sunniti/sciiti oltre a un connotato religioso ne ha uno politico o, se si preferisce, geopolitico: è il tentativo di ridefinire confini statuali arbitrariamente disegnati dai colonialisti inglesi e francesi negli anni ’20 e ’30 del Novecento. Non a caso all’inizio il Califfato non si chiama così ma ‘Stato dell’Iraq e del Levante’, cioè aveva l’obbiettivo di riunire Iraq e Siria.

Dopo l’intervento degli americani e dei francesi che, almeno in linea di principio, con questo conflitto non avevano nulla a che vedere (ma ormai è consumata abitudine dell’Occidente di intromettersi nelle guerre altrui, com’è stato in Serbia e in seguito in Afghanistan) il principale obbiettivo dell’Isis è diventato colpire l’Occidente non solo e non tanto perché abitato da ‘infedeli’ (io credo che Al Baghdadi sfrutti l’elemento religioso per cooptare il più alto numero possibile di adepti) ma perché da più di due secoli esercita la sua violenza militare ed economica in Medio Oriente, nell’Africa subsahariana e anche in alcuni paesi del Maghreb. Non è un caso se i primi attacchi terroristici sono avvenuti in Francia essendo gli Stati Uniti troppo lontani e apparentemente irraggiungibili (ma dopo i fatti di Orlando nemmeno gli Usa possono sentirsi più al sicuro).

Ma in quarta battuta -almeno questa è la mia personalissima opinione- quella dell’Isis, intorno al quale si raccolgono iracheni, siriani, libici, somali (gli Shebab), nigeriani (Boko Haram), egiziani (Fratelli Musulmani), maliani, pachistani e da ultimo, dopo la morte del Mullah Omar, anche afgani, è la lotta dei Paesi poveri del Terzo mondo contro i Paesi ricchi del Primo. Naturalmente, per il momento, gli sconvolgimenti innescati dalla guerra dell’Isis e all’Isis ma anche, e forse soprattutto, dalla fame che la nostra economia ha provocato in Africa Nera, si traduce, con le migrazioni, in una lotta in Europa fra i poveri del Terzo mondo e i poveri di casa nostra. Ma una volta che questi ultimi capissero che sono omologhi ai poveri del Terzo mondo, vittime entrambi della violenza del turbocapitalismo, queste due povertà si potrebbero saldare e puntare contro i padroni del vapore nazionali e internazionali. Si avvererebbe così paradossalmente, in salsa islamica, la profezia di Marx.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016