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Cosa può dire del Paradiso un onesto pagano quale mi considero? Io non credo nel Paradiso. Credo nell'Inferno. In terra. L'uomo è l'unico essere del Creato ad essere lucidamente consapevole della propria fine. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto svanisce di colpo nel nulla, lo spaventoso Nulla. Penso che se ci fosse davvero Qualcuno che ha creato questa favoletta tragica sarebbe un sadico. E Baudelaire dice: «L'unica scusante di Dio è di non esistere». Credo che tutte le religioni siano nate dall'esigenza di rimuovere questa consapevolezza intollerabile della fine. Non c'è popolo e cultura nella Storia che non abbia un Dio, una religione, un culto o comunque un'idea del metafisico. Persino il buddismo trova il suo paradiso nel Nirvana, cioè nel totale annullamento dell'individuo e della sua coscienza. Ma anche un pensiero così apparentemente pessimista contiene in sè l'idea di un dopo, raggiunto attraverso la peregrinazione in vari stadi dell'umano. Anche i Romani che, a livello di elites colte, erano assolutamente pagani, avevano un'idea dell'immortalità che era data dalla Gloria che a differenza del successo, che riguarda il presente ed è, insieme al Dio quattrino, uno degli idola dell'età contemporanea, si proietta nel futuro. E certamente Dante o Beethoven vivono, a distanza di secoli, in noi che stiamo vivendo. Ma loro sono morti, irrimediabilmente, radicalmente morti e non possono sapere, dai sarcofaghi in cui sono custodite le loro ossa, che vivono ancora nella mente degli altri.

Per la verità, secondo il rumeno Mircea Eliade, il più grande studioso delle religioni, c'è un popolo che non ha né Iddii né culti: sono gli indigeni delle Isole Andemane, le cui origini sono antichissime. In tempi remotissimi avevano anche loro un dio, che si chiamava Peluga, ma essendosi accorti che se ne straffotteva bellamente di loro, lo hanno rimosso e completamente dimenticato. Ciò non gli ha impedito di vivere felici e contenti. Ma qui risaliamo all'infanzia dell'umanità. E non è un caso che tutti gli autori laici che mi hanno preceduto, a cominciare da Dario Fo, con quel suo splendido e poetico racconto (anch'io, pur avendo una ventina d'anni meno di lui, ho un magico ricordo di noi ragazzini che all'alba, quando rientravano i pescatori, reggevamo le loro reti, non sul lago, come Dario, ma sulle rive di qualche paesino della Liguria) quando pensano a un paradiso in terra si rifanno alla loro infanzia, in quel mondo sognante e fatato dove distanze, cose, uomini, tempo si dilatano a dimensioni oniriche e vaghe e tutto è immerso in un'atmosfera magica. Perché non abbiamo ancora una cognizione precisa del mondo, dei suoi confini, delle sue dimensioni, dei luoghi, delle cose, dei fatti, della loro successione, del rapporto fra spazio e tempo. E tutto ci appare incerto e incantato. Alle nostre spalle non ha fatto ancora la sua comparsa quel tremendo occhio -la consapevolezza- che ci guarda vivere. Viviamo e basta. Ed è forse proprio perché, nel mio caso, quell'occhio ha preso ad osservarmi fin dall'inizio, togliendomi l'innocenza, che volevo, disperatamente volevo, rimanere nell'inconsapevolezza dell'infanzia pur avendola in realtà già perduta. Perché una cosa è veramente magica solo quando non si sa che lo è. Eppure nonostante questa contraddizione e tensione estreme ho avuto un'infanzia e un'adolescenza felici (il mio personalissimo paradiso) anche se insidiate e rese inquiete dalla coscienza che sarebbero finite. Credo che in tutti i bambini ci sia, sia pur per qualche attimo subito dimenticato fra i giochi, ma ricorrente, questa inquietudine. Così almeno canta Marisa Sannia: «C'è una casa bianca che, che mai più io scorderò/mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù/Era tanto tempo fa/ero bimba e di dolore io piangevo nel mio cuore/non volevo entrare in là/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremare/e non sanno che cos'è/Quella casa bianca che non vorrebbero lasciare è la loro gioventù che mai più ritornerà/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos'è/E' la bianca casa che mai più io scorderò/Mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù che mai più ritornerà/ritornerà».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio, 2015

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A fine marzo partirà su Sky la fiction «1992», in dieci puntate. L'oggetto è naturalmente Mani Pulite e la fiction inizia con l'arresto, il 19 febbraio 1992, di Mario Chiesa un parvenu socialista che il partito di Craxi aveva messo alla presidenza del Pio Albergo Trivulzio perché lucrasse anche sui vecchietti. Mani Pulite avrebbe potuto essere per la classe politica l'occasione per emendarsi, per prendere coscienza che la propria corruzione era diventata insostenibile,  economicamente quanto moralmente. E forse anche per salvarsi. Invece Craxi, segretario dell'allora potentissimo Psi, definì Chiesa «un mariulo» facendo intendere che si trattava di un'occasionale mela marcia in un cesto di mele intonse. E quando il 3 luglio del 1992 Craxi fece il famoso discorso alla Camera  chiamando in correità tutti i partiti, non solo era troppo tardi ma quel discorso, contrariamente a quanto quasi tutti hanno sostenuto scambiandolo per un atto di coraggio, era particolarmente vile perché il segretario del Psi lo fece quando era stato colto a sua volta con le mani sul tagliere. Quello che Craxi disse in luglio avrebbe dovuto dirlo nel febbraio del 1992. Allora avrebbe avuto un minimo di credibilità.

Il periodo 1992-94 fu per una parte esaltante e per l'altra penoso. Esaltante perché per la prima volta anche la classe dirigente era chiamata al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini siamo tenuti a osservare. Penoso perché l'esercizio di paraculismo dei giornali che avevano sostenuto le nefandezze della Prima Repubblica raggiunse livelli acrobatici da sport estremi. Abbandonato rapidamente il vecchio idolo, Craxi, tutti si stesero come sogliole ai piedi di quello nuovo, Antonio Di Pietro, il leader del pool di Mani Pulite. Mi ricordo in particolare, per lussuria laudatoria, un editoriale di Paolo Mieli, direttore del Corriere, intitolato «Dieci domande a Tonino».

Ma durò poco. Passata la buriana i partiti si rimisero in pista con le seconde linee e i giornaloni, come li chiama Travaglio, tornarono a rigar dritto. In un paio di anni vedemmo con stupore rovesciare le carte in tavola: i colpevoli erano diventati i magistrati, le vittime i ladri e giudici dei loro giudici.

Berlusconi si inserì abilmente nella grande confusione. Prima cercò di cavalcare Mani Pulite offrendo a Di Pietro (definito in seguito «un uomo che mi fa orrore») il ministero della Difesa. Poi, indagato a sua volta, con una costante, capillare, tambureggiante campagna condotta dai suoi giornali, dalle sue Tv, private e pubbliche, e da 'lui meme', fece di tutto per delegittimare la Magistratura.

La lunga stagione berlusconiana ha questo di diverso: mentre nella Prima Repubblica i partiti rispettavano almeno la forma della legalità (sei ministri del governo Amato si dimisero per aver ricevuto un avviso di garanzia, cosa, a mio parere, anche eccessiva), dopo l'illegalità divenne sfacciata, spudorata, un titolo di merito.

Cito a titolo di puro esempio Luigi Bisignani. Piduista, in seguito condannato a due anni di carcere nell'ambito delle inchieste di Mani Pulite, radiato dall'Ordine dei giornalisti, divenne il principale consigliere dell'amministratore delegato delle Ferrovie, Lorenzo Necci, e poi di quello dell'Eni Paolo Scaroni. Oggi è un'opinionista molto richiesto dalle maggiori Tv. Nella sua parabola si riassume, in miniatura, la storia italiana degli ultimi trent'anni.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2015

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«Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute. La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile». A parte l'incongruenza di aver invitato alla cerimonia del suo insediamento un detenuto, che non è certamente un esempio di «un senso forte della legalità», questo mi è sembrato il passaggio più importante del discorso del nuovo Presidente della Repubblica. La corruzione infatti, e non la Magistratura come sosteneva il Detenuto Eccellente, è il vero cancro della nostra società. Non intendo qui unirmi al coro demagogico di coloro, giornalisti e grillini in testa, che,  confondendo cose completamente diverse, si indignano per i costi del Quirinale, gli alti stipendi dei parlamentari, le auto blu e i privilegi di cui godono nel campo dei trasporti gli amministratori pubblici (il tempo è un bene prezioso per tutti, ma lo è in particolare per chi ha responsabilità pubbliche, doveri di rappresentanza e di incontri estenuanti, per questo ho trovato ridicoli o comunque sproporzionati gli scandali menati perché il sindaco di Roma, Marino, aveva fatto sette infrazioni stradali senza pagarle o perché il premier Renzi ha portato la famiglia in vacanza su un aereo dell'aereonautica militare). Ho sempre pensato che gli amministratori pubblici debbano essere pagati bene, anche per sottrarli alle tentazioni. Ma proprio per questo se sgarrano, se rubano, applicherei la giustizia talebana: taglio delle mani e, nei casi più gravi, anche di un piede. Capisco che queste pratiche non possono essere utilizzate da noi, anche perché ci troveremmo con un Parlamento di moncherini e di monopede. Però ci vogliono pene, non particolarmente feroci (perché le pene troppo severe fanno la fine delle 'grida' di manzoniana memoria: non vengono applicate) ma certe. Altrimenti, come ha detto Raffaele Cantone, chiamato a tamponare le megatruffe sull'Expo, «il rischio è talmente aleatorio che vale la candela della possibilità di arricchimenti enormi». So bene che gli alti stipendi, le auto blu, irritano i cittadini, per la loro evidenza, ma sono una pagliuzza rispetto a quanto ci costa la corruzione i cui danni sono più sotterranei e meno visibili ma ben più devastanti. Se oggi abbiamo quell'enorme debito pubblico che ci mette in difficoltà in Europa non è certo per le auto blu ma a causa della corruzione che solo con la prima Tangentopoli ci è costata 630 miliardi delle vecchie lire (quella che va dai vent'anni che corrono dal 1994 ad oggi non è stata ancora calcolata).

Ma il danno non è solo economico. Ancora più grave è quello morale. La corruzione della classe dirigente discendendo giù per li rami è diventata un'epidemia che coinvolge l'intera popolazione. Se l'esempio che viene dall'alto è questo – ragiona il 'very normal people' – perché proprio io dovrei essere l'unico fesso? E questo rompe la fiducia fra di noi e, con essa, quel senso della comunità cui giustamente, quanto utopisticamente, Mattarella si è richiamato. Che senso della comunità posso avere quando non so mai se chi mi sta di fronte è una persona perbene o un furbacchione? Su questo versante una bella mano l'ha data Matteo Renzi. Perché accanto alla corruzione materiale ce n'è una intellettuale, a volte ancor più remunerativa. Se in un bar uno dicesse all'amico «stai sereno» e due giorni dopo gli rubasse il posto, non potrebbe metterci più piede. Invece nelle Istituzioni, quelle che, secondo Mattarella, dovremmo rispettare, si viene premiati. E' l'apoteosi della furbizia, uno dei mali endemici, insieme alla retorica, del popolo italiano. E non ci può essere di consolazione che anche il più furbo dei furbi alla fine trova uno più furbo di lui, che lo frega. Perché la sostanza non cambia. Anzi si aggrava.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 6 febbraio 2015