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Cosa sarebbe successo, in epoca preindustriale, se su un campo dove lavoravano e si mantenevano dieci persone si fossero accorti che otto erano sufficienti a coltivarlo tutto? Avrebbero cacciato i due 'in esubero' a pedate? Nient'affatto, si sarebbero diminuiti proporzionalmente i carichi di lavoro e il tempo così guadagnato se lo sarebbero andati a spendere in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa o a cornificare, fra i cespugli, quella che avevano. Perché per quegli uomini il vero valore era il tempo, che noi abbiamo trasformato nel mostruoso 'tempo libero', un tempo non da vivere ma da consumare altrimenti le imprese vanno a rotoli. Anche l'artigiano lavora per quanto gli basta. Il resto è vita. Se leggiamo gli Statuti artigiani medioevali sbalordiamo: era proibita la concorrenza. Ognuno doveva avere il suo spazio vitale. Dice: ma allora cosa impediva all'artigiano di fornire prodotti scadenti? Gli Statuti che stabilivano minuziosamente gli standard e lo stesso artigiano cui l'orgoglio per proprio mestiere (che è un concetto diverso dal lavoro) gli imponeva di dare il meglio di sè, il capolavoro in senso tecnico. Quel mondo non era basato sulla competizione economica. Non che quella gente snobasse la ricchezza. Come nota sarcasticamente Max Weber «la sete di lucro...si trova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men». La sconvolgente novità che porta il borghese è che il guadagno si fa attraverso il lavoro (robb de matt). E' questa la folgore che cambierà tutti i rapporti economici, sociali, esistenziali e renderà centrale la figura ripugnante del mercante e dell'imprenditore perché è colui che dà lavoro. Sono patetiche le masse di uomini e di donne che oggi premono ai cancelli per poter diventare, o ridiventare, degli 'schiavi salariati'. La competizione chiude poi il cerchio. Per un imprenditore che vince magari usando la tecnologia al posto degli esseri umani ce n'è un altro che perde e deve liberarsi dei suoi dipendenti. A livello globale per un Paese che apparentemente si arricchisce ce n'è un altro che va in default. 'Apparentemente' perché la 'ricchezza delle Nazioni' di smithiana memoria non corrisponde affatto a quella delle loro popolazioni (la Nigeria è il Paese più ricco dell'Africa ma ha il più alto tasso di poveri).

La soluzione? Tutti, da Obama a Camerun, da Renzi a Camusso, la indicano nella crescita. Chiunque parli di crescita è un lestofante. Perché le crescite infinite, su cui è basato un modello di sviluppo ormai planetario, esistono in matematica ma non in natura. E noi abbiamo ormai superato abbondantemente il confine. Può crescere ancora qualche settore come l'informatica ma anche'essa troverà presto il suo limite (dopo aver ridotto l'iPod a 6 millimetri a tre a uno ed essersi inventati qualche ulteriore applicazione, che altro?). Adesso la parola magica è 'banda larga' che significa una maggiore velocizzazione delle comunicazioni, come se uno dei nostri problemi non fosse proprio la velocità cui stiamo andando, che permetterebbe, si dice, una maggior produttività. Ma produrre che cosa e soprattutto per chi, inducendo nuovi bisogni di cui l'uomo non aveva mai sentito il bisogno, caricando il pianeta, già al collasso, di un surplus di fardello?

Non si può più crescere, bisogna, sia pur gradualmente, decrescere. Una soluzione, per quanto circoscritta e limitata, io l'avrei. Si chiama Europa. Ma un'Europa molto diversa da quella attuale: unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Una formula dove la parola chiave è 'autarchica'. Lo chiarirò meglio in un prossimo Battibecco. Se nel frattempo non avrò perso il lavoro.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2014

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Prima sono stati gli occidentali e gli islamici, più recentemente i cinesi, adesso ci si mettono anche i principi arabi a distruggere quel che resta dell'Africa Nera. In nome del business, come ormai tutto. Circa 80 mila Masai, un antichissimo popolo di pastori, cacciatori e guerrieri, dalla pelle ambrata, di straordinaria bellezza come tutte le etnie di origine nilotica (Li vidi per la prima volta durante un viaggio giovanile, nel 1969, nei dintorni di un villaggio al confine fra Kenya e Tanzania. Si stavano bagnando al fiume, uomini e donne, nudi tranne un minuscolo perizoma, le zagaglie a riposo, posate sulle rive. Una scena d'Arcadia africana) stanno per essere cacciati dalle terre in cui vivono da sempre. Avviene a Loliondo, in Tanzania. Il governo di Dar Es Salaam sta per concedere i diritti di sfruttamento di quel territorio, 1500 chilometri quadrati, all'agenzia turistica Ortelo Business Corporation legata al governo di Dubai (Emirati Arabi), specializzata nell'organizzare safari di lusso. Ne vuole fare una riserva di caccia per gli sfizi venatori degli Emiri e dei loro ricchi ospiti, europei e americani. I Masai devono quindi sloggiare. In contropartita dello sfratto avranno 500 mila euro o un ancor più sinistro 'progetto di sviluppo'. Ma non è la cifra ridicola che conta (poco più di 5 euro a testa). Il fatto è che con quest'atto di imperio e certamente di corruzione (le tangenti sganciate ai dirigenti del governo di Tanzania) si distrugge una comunità, si cancella una cultura, una tradizione, una storia. «La nostra terra non ha prezzo -ha detto un Masai, Samwel Nangiria- Gli avi dei Masai, le loro madri, le loro nonne sono sepolti qui». Ma poniamo anche che il compenso fosse adeguato che se ne farebbero i Masai di quei soldi? Se ne andrebbero a vivere in città o a Dubai o magari a Miami con le camicie a fiori? La loro vita ha senso là dove sono vissuti per secoli e millenni, in ogni altro luogo lo perderebbe.

Siccome i lestofanti al servizio del denaro non mancano mai, alcuni media sottolineano che la riserva di caccia della Ortelo Business Corporation risparmierebbe molti elefanti. In Africa 100 mila elefanti sono stati uccisi negli ultimi tre anni per venderne le preziose zanne d'avorio ai mercanti asiatici (bei soggetti anche costoro) perché in quelle culture si crede che le zanne abbiano un effetto afrodisiaco. Pur di realizzare la riserva di caccia per i super-ricchi si mette in campo l'ecologia animalista. Ma questa è più importante di quella umana? In realtà si tratta di un problema mal posto. I Masai vivono sostanzialmente di pastorizia e di allevamento del bestiame, cioè di economia di sussistenza (consumo quel che produco e caccio) e poiché non credono all'effetto afrodisiaco delle zanne di elefante ne ucciderebbero quanto gli basta per sfamarsi. Sono gli adescatori che vanno perseguiti, non gli eventuali bracconieri Masai.

La storia Ortelo Business Corporation-Masai di Loliondo è solo un atroce apologo della fine cui sono destinate tutte le comunità tradizionali anche quelle poche rimaste. Quando non le ha letteralmente distrutte o ridotte a 'riserve indiane', il Dio Quattrino, non importa se in salsa occidentale o islamica, le ha mostruosamente ibridate, togliendogli anche il loro profondo senso di comunità. I Masai, animisti, erano rimasti relativamente incontaminati. Ma se si continua a rompergli i coglioni con gli Ortelo Business Corporation o i 'progetti di sviluppo' non è escluso che si mettano anche loro a sequestrar persone e, in un orrendo connubio di modernità e cultura ancestrale, a filmarne le esecuzioni a colpi di zagaglia.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 21 novembre 2014

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Che Giorgio Napolitano, nonostante le pressioni di Renzi, abbia l'urgenza di lasciare al più presto è cosa ovvia. Il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, non fa sconti a nessuno e benché Napolitano non abbia fatto una sola ora di lavoro nella sua lunga vita e non abbia quindi svolto alcuna attività usurante se non per il suo didietro che si è strusciato su ogni possibile cadrega, 90 anni son pur sempre 90 anni.

Se il Financial Times ha potuto scrivere che Napolitano è «una personalità che svetta nello scenario italiano» ciò dice di per sè della mediocrità della nostra attuale classe dirigente. Per 80 dei suoi 90 anni di vita Napolitano è stato un personaggio inesistente, una suppellettile del comunismo italiano, notato solo per la sua irrilevanza. «Coniglio bianco in campo bianco» lo aveva definito impietosamente qualcuno. E' nato vecchio, «nu guaglione fatt'a vecchio» aveva detto di lui lo scrittore Luigi Compagnone. Non è mai stato giovane e anche questo spiega la sua longevità non solo politica. Mentre i suoi compagni di liceo giocavano al pallone, lui partecipava ma stava a guardare. Per tutta la vita è stato a guardare. Anche, se non ci si fa suggestionare dalle apparenze, negli otto anni e mezzo del suo doppio mandato.

La cosiddetta destra lo ha dapprima avversato perché lo riteneva comunista (ma andiamo) e artefice del 'golpe' che avrebbe fatto fuori Berlusconi, poi lo ha rivalutato quando, sia pur con gran circospezione, ha ricevuto al Quirinale il Detenuto. La cosiddetta sinistra l'ha sostenuto perché lo sapeva innocuo. Il Fatto Quotidiano ne ha fatto un bersaglio 'da tre palle un soldo' soprattutto per quel suo monitar 'urbi et orbi', contemporaneamente a destra e a manca, riuscendo così a non dir nulla. Ma questo è in perfetto 'stile Napolitano'di sempre. Secondo me è stato un buon Presidente della Repubblica perché chi ricopre quel ruolo deve essere come l'arbitro delle partite di calcio: meno lo si nota e meglio è. Il 'coniglio bianco in campo bianco' ci ha provato a rimanere tale, sono stati i partiti e soprattutto i media a creare un personaggio inesistente e che senza il loro apporto non sarebbe mai esistito: Re Giorgio.

Adesso si tratta di scegliere un nuovo Presidente della Repubblica che rappresentando l'unità della Nazione dovrebbe essere 'super partes', cioè di nessuna parte. Ma un soggetto del genere è introvabile in Italia. Anche nel mondo della cosiddetta 'intellighenzia' dove tutti, per opportunità di carriera, si sono messi al traino di qualche partito. Forse bisognerebbe pescare in quel che resta del nostro mondo artistico. Un Riccardo Muti che 'ha bene meritato della Patria' in Italia e all'estero sarebbe l'ideale. Ma a parte che difficilmente il Maestro lascerebbe il suo affascinante mestiere per i polverosi stucchi del Quirinale, il Parlamento dei partiti non ha nessun interesse né la creatività e l'audacia per una soluzione del genere. Staremo quindi a vedere. Spero che Grillo non si incaponisca su Stefano Rodotà, che oltre ad avere 81 anni, ha attraversato l'ultimo trentennio ben imbozzolato nel Pci-Pds-Ds, un radical chic che nulla a che vedere, per quel che li conosco io, col mondo dei grillini. La sola cosa certa è che per l'elezione del nuovo Capo dello Stato sarà indispensabile l'apporto del Detenuto. Una cosa che può accadere solo in Italia. Un Paese irredimibile. Per rifondarlo ci sarebbero così tante cose da fare che ormai non c'è più nulla da fare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2014