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Mino Maccari diceva nel dopoguerra: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”. Nelle manifestazioni antifasciste e antirazziste di sabato, a Macerata e in molte altre città italiane, di fascisti ‘propriamente detti’ se ne sono visti pochi, in compenso si sono visti molti fascisti mascherati da antifascisti. Non mi riferisco a quegli sparuti gruppetti che hanno inneggiato alle Foibe, ma all’intolleranza di chi marciava contro i ‘fascisti propriamente detti’ e il fascismo in quanto tale. Quante volte bisognerà ripetere che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. E che quindi una democrazia liberale, sottolineo: liberale, deve accettare il diritto a esistere anche delle idee che le sono più avverse, purché, naturalmente, non cerchino di farsi valere con la violenza. Altrimenti si trasforma in una sorta di teocrazia laica, di khomeinismo in salsa democratica, dove si possono esprimere tutte le idee tranne quelle antidemocratiche. Una ‘fattoria degli animali’ di orwelliana memoria dove, sia pur a caleidoscopio rovesciato, tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni meno uguali degli altri.

Quando Silvio Berlusconi riportò all’onor del mondo l’anticomunismo militante e gli italiani, che erano stati, almeno per la metà, comunisti finché era esistita l’Unione Sovietica, divennero tutti, o quasi, anticomunisti, Indro Montanelli, che era stato subito bollato da ‘comunista’, nonostante una vita spesa come liberale e conservatore, perché si era rifiutato di dirigere un giornale il cui proprietario era diventato un uomo politico di destra, disse: “Mi sarebbe piaciuto vedere tanti anticomunisti quando il comunismo c’era davvero”.

Piacerebbe anche a noi che al posto degli antifascisti di comodo di oggi ce ne fossero stati altrettanti quando c’era il Regime. Ma non fu così. Gli ‘anni del consenso’ non sono un’invenzione di De Felice.

Per una volta siamo d’accordo con Matteo Renzi quando ha affermato: “Io sono per la severità della legge, la certezza della pena, ma mi rifiuto di fare dell’episodio di Macerata una polemica politica ed elettorale”. Gli italiani ricadono periodicamente, ma si potrebbe anche dire che vi sono perennemente immersi, in polemiche catacombali. Perché, a differenza di Germania e Giappone, non hanno fatto i conti con se stessi e la loro Storia. In virtù del Mito della Resistenza, che riguardò solo poche decine di migliaia di uomini e di donne coraggiosi, peraltro entrati in azione quando la sconfitta del nazifascismo era ormai certa, si sono autoconvinti di aver vinto una guerra che avevano invece perso e nel modo più ignominioso. Si sono autoconvinti di essersi rivendicati in libertà con le proprie mani, mentre furono gli americani, gli inglesi, i canadesi, i razzisti sudafricani, i marocchini a regalarci questa libertà, non senza farcela pagare un prezzo assai pesante.

Il Fascismo non è stata una “parentesi” della nostra Storia, come ebbe sciaguratamente a dichiarare Benedetto Croce (che peraltro poté viverla in tal modo perché il Regime lo tenne in una ovattata situazione di riguardo) di questa Storia, nel male e nel bene, fa parte a pieno titolo e sta nel nostro Dna. Certamente perciò, se conserviamo questa mentalità, il fascismo potrebbe ritornare, anche se non nelle forme storiche che abbiamo conosciuto e che sono state inutilmente contestate nelle manifestazioni di sabato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2018


Risulterebbe che più di 9 milioni di donne italiane sono state molestate nella loro vita. Se fossi una di quelle non molestate mi preoccuperei. m.f.

 

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C’erano una volta, tradizionalmente, tre “Stati canaglia”: la Corea del Nord, l’Iran degli ayatollah, l’Iraq di Saddam Hussein. C’era poi uno Stato che “canaglia” lo era solo a metà, la Libia di Muammar Gheddafi. A metà perché alcuni rispettati e rispettabilissimi Stati europei, come la Francia e l’Italia, intrattenevano lucrosi affari col Colonnello.

La Corea del Nord di Kim Jong-Un, che naturalmente è un “pazzo”, non ha sparato un solo colpo fuori dai propri confini, sta semplicemente cercando di migliorare il proprio armamento nucleare per non fare la fine di Saddam e di Gheddafi. Ha inoltre l’ulteriore colpa di essere comunista.

L’Iran è sospettato di volersi costruire l’Atomica. Poco importa che, a differenza del vicino Israele, abbia firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e accettato le regolari e ripetute ispezioni dell’Aia che hanno accertato che nei siti nucleari iraniani l’arricchimento dell’uranio non ha mai superato il 20 % (per fare un’Atomica l’arricchimento deve essere del 90 %). Però è una teocrazia guidata da degli Ayatollah che se non sono “pazzi” sono loro stretti parenti.

L’Iraq di Saddam Hussein, Stato accreditato all’Onu come del resto la Libia di Gheddafi, è stato spazzato via nel 2003 contro la volontà delle Nazioni Unite e in violazione di ogni legge internazionale. Il risultato entusiasmante di questa aggressione, che ha provocato in modo diretto o indiretto dai 650 ai 750 mila morti, è di aver consegnato all’Iran sciita trequarti dell’Iraq (perché si tratta della stessa gente, con la stessa origine, con la stessa antropologia, con la stessa ideologia). Insomma quanto si voleva impedire nel 1985 quando nella guerra Iraq-Iran gli americani intervennero a favore di Saddam, che la stava perdendo, in funzione antiraniana oltre che anticurda, adesso si è realizzato senza che gli iraniani abbiano avuto bisogno di sparare un solo colpo di fucile. Inoltre, com’era prevedibile, questa nuova situazione ha incoraggiato le mire geopolitiche degli ayatollah nella regione.

Poco importa, anche qui, che i pasdaran iraniani, insieme ai curdi, siano stati determinanti, sia pur con l’apporto decisivo dei caccia e dei droni americani, nello sconfiggere a Mosul e a Raqqa i guerriglieri dell’Isis che, pur valorosissimi, non hanno potuto arrestare l’avanzata di forze così preponderanti e superiormente armate.

Nel frattempo era nato un quarto, e ufficiale, “Stato canaglia”, la Siria di Bashar al-Assad che reprimeva con la violenza un gruppo di rivoltosi, peraltro parecchio scombinati. Gli Stati Uniti tracciarono una ‘linea rossa’ (l’uso di armi chimiche da parte del dittatore siriano) e, ritenendola oltrepassata, intervennero appoggiando i ribelli. Ciò permise l’intervento dei russi. Da qui il macello siriano le cui ultime conseguenze si sono viste in questi giorni con i bombardamenti americani (100 vittime fra le forze leali ad Assad, soldati si dice, ma vai a sapere) e quelli russi, 200 civili morti nell’area di Ghouta un tempo occupata dall’Isis (forse la gente di quei luoghi stava meglio quando c’era il Califfato). Di soppiatto, nella confusione, c’è stato anche un bombardamento degli israeliani, questi eterni eredi della Shoah, che temono che l’Iran prenda posizioni di forza ai loro confini e ai confini del Libano rifornendo di armi i ‘terroristi’ di Hezbollah. L'abbattimento di un aereo israleliano da parte della contraerea siriana conferma quello che sino a ora era stato nascosto: l'intervento di Israele nella regione.

Tutti accusano tutti di violare il diritto internazionale, come se, almeno a partire dall’aggressione alla Serbia, altro Stato sovrano, del 1999, esistesse ancora un ‘diritto internazionale’. Tutti giustificano le loro azioni criminali con la lotta ai “terroristi”, che per i russi, i turchi, i siriani, sono gli indipendentisti curdi e, per tutti, gli uomini dell’Isis che sembra diventato il passepartout per ogni genere di aggressione. Il che, senza nulla togliere al valore dei combattenti dello Stato Islamico, accredita il sospetto avanzato da alcuni che il Califfo sia al soldo di qualcuno, come Bin Laden lo fu degli americani per legittimare la guerra all’Afghanistan talebano.

Nel frattempo in Italia, insieme a quello zero sottovuoto spinto che prende il nome di Festival di Sanremo, assistiamo alla più avvilente campagna elettorale da quando esiste la Repubblica.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2018

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Finalmente anche la stampa internazionale e italiana ha dovuto accorgersi che qualcosa succede in Afghanistan. L’attacco talebano a un check-point di polizia in pieno centro di Kabul, vicino al ministero degli Interni e alle ultraprotette ambasciate e organizzazioni straniere, era davvero difficile da ignorare. Ha provocato 103 morti e circa 150 feriti.

Attacco legittimo perché l’obbiettivo era militare come ha tenuto a precisare il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid. Molte delle vittime sono civili, “effetti collaterali” inevitabili in questo tipo di azioni, così come lo sono quando un drone o un bombardiere americano sgancia un missile.

Naturalmente si è scritto che i Talebani sono dei terroristi. Non è così. Sono dei resistenti che usano anche l’atto terroristico per opporsi all’occupazione dello straniero, come ha sempre fatto ogni resistenza, compresa la tanto celebrata Resistenza italiana. Terroristi sono quelli dell’Isis che hanno, quasi sempre, come obbiettivo primario i civili, prevalentemente sciiti, e colpiscono nel mucchio. I Talebani hanno sempre condannato, senza se e senza ma, questo tipo di azioni, come hanno fatto, ma è solo un esempio, per l’attacco Isis alla scuola dei figli dei militari pachistani avvenuto a Peshawar nel dicembre 2014. Ma i media internazionali, non so quanto involontariamente, continuano a fare d’ogni erba un fascio confondendo due fenomeni profondamente diversi: quello talebano è un movimento indipendentista che non ha altra mira che liberare la propria terra dallo straniero, l’Isis è un movimento ideologico che ha estensione e ambizioni planetarie.

Quasi negli stessi giorni c’è stato in Italia l’incidente ferroviario a Pioltello, che ha fatto, giustamente, molta impressione, anche perché ha colpito dei poveracci che si erano alzati alle cinque del mattino per andare a lavorare a Milano e al quale i nostri media hanno dedicato fino a nove pagine. Ma le vittime sono state solo tre, in Afghanistan gli occupanti occidentali, noi italiani compresi, in sedici anni di guerra di occupazione hanno fatto un numero incalcolabile e incalcolato di vittime civili: chi dice 150 mila, chi 200 mila, chi 300 mila, cui vanno aggiunti tutti coloro che sono stati resi invalidi, o sono nati deformi, a causa delle contaminazioni dei proiettili all’uranio (altro che le dieci scimmie esposte ai gas di scarico di alcune marche automobilistiche tedesche su cui ci si è molto impietositi).

In sedici anni siamo riusciti in ciò che non avevano fatto i sovietici: a distruggere un’economia, povera ma autosufficiente, una socialità, una cultura, un’etica. Qualche dato random sull’economia. La disoccupazione che nei sei anni e mezzo in cui ha governato il Mullah Omar era all’8%, ora raggiunge il 40%. A Kabul vivono 8 milioni di persone (ai tempi di Omar erano un milione e 200 mila). Che alternative ha un ragazzo di Kabul? O si arruola nell’esercito ‘regolare’ e nella polizia, senza nessuna convinzione (e questo spiega l’estrema debolezza degli apparati di sicurezza governativi che devono essere continuamente supportati dall’intervento, prevalentemente aereo, degli occupanti) o va ad accrescere, con maggiori motivazioni, le forze talebane oppure fugge dal Paese come dimostra l’esodo in massa di afgani negli anni più recenti. Negli ultimi due anni del suo governo il Mullah Omar era riuscito a ridurre quasi a zero la produzione di oppio, oggi l’Afghanistan produce il 93% dell’oppio mondiale con la complicità anche delle forze di occupazione.

Ma anche il ricorso agli atti terroristici è una novità, dovuta al nostro modo di combattere o piuttosto di non combattere. Gli afgani non avevano fatto uso del terrorismo né con i sovietici né nelle guerre che si sono fatti fra di loro, hanno sempre combattuto in modo tradizionale e con armi tradizionali. Nel 2006 i comandanti talebani chiesero al Mullah Omar licenza di poter usare anche il terrorismo perché per loro era estremamente difficile combattere con un nemico ‘invisibile’ che utilizzava quasi esclusivamente l’aviazione. Omar, uomo di grande saggezza che un giorno, spero, gli verrà riconosciuta, all’inizio si disse contrario. Per due motivi. Il primo era che il terrorismo non appartiene alle tradizioni afgane. Il secondo più pragmatico: l’atto terroristico causa inevitabilmente vittime civili e i Talebani non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione sul cui appoggio si sostiene la resistenza. Ma alla fine dovette cedere alle esigenze militari.

Questa tragica farsa della missione Resolute Support (che significa supporto per risolvere i problemi dell’Afghanistan) deve finire. Ma la tragedia afgana non può finire, o almeno cominciare a finire, prima che le truppe straniere se ne vadano dal Paese, come vuole ormai la maggioranza della popolazione anche non talebana o antitalebana (anche il Solidarity Party of Afghanistan che appoggia il governo fantoccio di Ashraf Ghani si dichiara contrario alla permanenza delle truppe straniere nel Paese).

Il solo modo per ‘salvare l’Afghanistan’ è “lasciare che gli afgani si salvino da soli” come, intervistato dalla Rai, disse ormai parecchi anni fa il generale russo che aveva comandato le truppe sovietiche in Afghanistan (adesso ci tocca prendere lezioni anche dai generali ex sovietici).

Lasciando l’Afghanistan faremmo un favore non solo agli afgani ma anche a noi stessi. Perché i Talebani combattono l’Isis e per quanto anche i 1.000 guerriglieri del Califfato presenti attualmente in Afghanistan, in prevalenza foreign fighters, siano a loro volta dei combattenti forti, coraggiosi e determinati non potrebbero resistere a lungo a quelli talebani che sono molti di più e conoscono meglio il territorio.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2018

Mia personalissima nota. Ma è mai possibile, per dio, che non si capisca, o si faccia finta di non capire, che se una resistenza contro forze tanto superiormente armate dura da più di 16 anni ciò vuol dire che ha l'appoggio di buona parte della popolazione?