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Mentre i giornali italiani si estenuano sulle bizze dell'invido Robledo, sui twitter di Renzi e perfino su Berlusconi, in Medio Oriente, con l'avanzata irresistibile delle forze dell'Isis (Stato islamico dell'Iraq e del Levante) sta accadendo qualcosa di decisivo per il nostro futuro.

Per capire cosa sta succedendo in Iraq bisogna fare un lungo passo indietro. L'Iraq, come Stato, è una creazione cervellotica degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre comunità, curdi, sunniti, sciiti, che nulla avevano a spartire fra di loro. La finzione tenne finché le potenze coloniali poterono tenere in stato di sudditanza le popolazioni mediorientali e arabe. Cambiò quando questi Stati conquistarono una vera indipendenza. Nel 1979 andò al potere in Iraq Saddam Hussein. Solo un dittatore poteva tenere insieme, con metodi brutali, quelle tre comunità così ostili fra loro. Nel 1980 Saddam attaccò l'Iran convinto che la cacciata dello Scià e l'avvento di Khomeini lo avessero indebolito. Per cinque anni le Potenze si limitarono a fornire armi a entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma nel 1985 quando gli iraniani stavano per prendere Bassora, intervennero gli Stati Uniti e rimpinzarono Saddam di armi, comprese quelle di 'distruzione di massa'. La guerra Iraq-Iran finì nel 1988. Allora Saddam carico di armi le rovesciò sul Kuwait, altra invenzione, nel 1960, questa volta americana, per gli interessi petroliferi Usa. E fu la prima guerra del Golfo. Le truppe del generale Schwarzkopf attraversarono il deserto a velocità da autostrada, ma dopo aver fatto, con i bombardamenti sulle città, 160 mila morti civili, fra cui 32.195 bambini, si fermarono sorprendentemente a 50 chilometri da Bagdad, lasciando in sella Saddam. Perché Saddam serviva in funzione antiraniana e anticurda (gli Usa hanno sempre temuto che l'indipendentismo curdo-iracheno innescasse quello in Turchia, la loro grande alleata nella regione).

Nel 2003 gli americani invasero l'Iraq e in seguito se ne andarono lasciandosi alle spalle 650 mila morti, un governo fantoccio, quello di Al Maliki, un esercito da loro addestrato al costo di 25 miliardi di dollari e una pseudodemocrazia che consegnava di fatto metà dell'Iraq all'Iran, perché gli sciiti iracheni (il 62% della popolazione) sono fratelli siamesi di quelli iraniani. Ma i sunniti, che con Saddam erano i padroni del Paese, non ci sono stati a subire il potere degli sciiti e ne è nata una sanguinosa guerra civile fra il disinteresse dell'Occidente perché ormai le major avevano il controllo del petrolio. Ma gli occidentali sono caduti dalla padella nella brace perché nell'Isis non convergono solo i sunniti dell'Ovest dell'Iraq, ma guerriglieri siriani, somali, turkmeni e persino europei (600 francesi, 500 inglesi, 300 tedeschi e 250 belgi), formando una specie di internazionale del radicalismo islamico le cui ambizioni vanno ben al di là della conquista di buona parte dell'Iraq (con l'esclusione dell'area curda). Vogliono impiantare uno stato islamico ultraoltranzista e da qui fare base per una guerra totale all'Occidente. L'esercito fasullo di Al Maliki si è subito squagliato come neve al sole e molti dei suoi soldati passano con gli insorti (la stessa cosa succederebbe in Afghanistan se la Nato lasciasse veramente quel Paese), gli americani non sono in grado, materialmente e moralmente, di mandare truppe sul terreno ed ecco perché devono contare sugli interessi convergenti con l'arcinemico Iran, uno dei Paesi dell' 'Asse del Male' e sugli odiati pasdaran, gli unici capaci di combattere, avendone pari determinazione e coraggio, gli jihadisti internazionali.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2014

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Si può cercare di analizzare l'apparentemente incomprensibile, l'inconcepibile? Ci proviamo. Siamo di fronte a due efferati delitti, quelli di Brembate e di Motta Visconti, grosso modo hinterland milanese, civilizzato se non civile. A Brembate è stata uccisa una ragazzina di 13 anni, Jara, a Motta Visconti una donna di 38 anni con i suoi due piccoli figli. Si conoscono entrambi gli assassini. Per la verità quello di Jara, un muratore, M.G.B., è solo presunto, perché non basta il Dna per fornire una prova definitiva, e ha fatto bene il Procuratore capo di Bergamo a lamentare la fuga di notizie perché creare 'mostri' anzitempo da dare in pasto alla folla inferocita, una folla che, a volte, fa più paura e orrore dello stesso assassino perché capisci benissimo che, protetta dall'anonimato, com'è in questi casi, potrebbe compiere gli stessi delitti, e forse anche peggiori, dell'assassino (si confronti il comportamento di questa folla indecente, l'eterna folla di piazzale Loreto, con quello dei genitori di Jara, le vere vittime, insieme ovviamente alla ragazzina, di quel delitto).

L'assassino di Motta Visconti è invece certo perché ha reso ampia confessione. E' Carlo Lissi, marito della donna e padre dei due bambini uccisi, fino all'altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello. E' questo delitto che ci sgomenta perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità. E manca qualsiasi movente plausibile. Si tratta di uno di quei 'delitti delle villette a schiera' come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti, altrimenti definiti in criminologia 'crimini espressivi', omicidi senza un perché. In Italia gli omicidi compiuti dalla criminalità comune sono in netta diminuzione, quelli delle 'villette a schiera' sono invece in aumento. Quale la ragione? Io credo che risieda nella pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale. E l'aggressività, che è una componente fondamentale e vitale dell'essere umano, compressa come una molla risalta poi fuori nelle forme più mostruose. Io credo che se Lissi non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di «Genny a carogna», forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso. Lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim ricorda come nel suo villaggio natale l'uccisione collettiva del maiale, che è una cosa molto cuenta, cui partecipavano anche i bambini come lui, fosse uno sfogo naturale dell'aggressività dei componenti della comunità che evitava guai peggiori. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari. E quindi non cercavano di abolire del tutto l'aggressività ma di canalizzarla in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili (i neri africani con la 'guerra finta' o i Greci con la figura del 'capro espiatorio' non a caso chiamato 'pharmakos', medicina). Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 20 giugno 2014

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Renato Vallanzasca è stato pescato a rubare in un Supermercato, l'Esselunga di viale Umbria a Milano. L'ho ha fatto nel modo più ingenuo. Una parte della merce l'ha pagata, l'altra, un paio di boxer, cesoie e concime per piante, l'aveva nascosto in un borsone. Beccarlo è stato un gioco da ragazzi. Bottino 70 euro.

Chi non ha rubato in un Supermarket alzi la mano e gli sarà tagliata per menzogna manifesta. Il Tribunale lo ha processato per direttissima e gli ha revocato il regime di semilibertà. Sulla revoca della semilibertà niente da dire, era un provvedimento inevitabile. Sul processo per direttissima ho invece qualche perplessità. E qui usciamo, per un momento, dal personaggio Vallanzasca, che i suoi debiti con la giustizia li ha pagati fino in fondo con quarant'anni di carcere di cui undici in isolamento (le 'anime belle' di Amnesty International, dei 'diritti umani' affini, i difensori professionali dei diritti dei cani, dei gatti e delle lucertole hanno un'idea di che cosa significhino undici anni in isolamento?) ed entriamo in quelli di un cittadino comune che avesse commesso lo stesso reato. Per un furto di 70 euro si può essere processati per direttissima, per i grassatori di milioni di euro ci vogliono decine di anni prima che si arrivi a una sentenza definitiva, che in genere non arriva perché è stata tagliata dalla prescrizione. E se caso mai arriva, dopo sforzi inumani della magistratura, per i 'ladri in grande stile' ci sono gli 'arresti domiciliari' in lussuose ville, che proprio con i loro latrocini si sono fatte, o la beffa dei 'servizi sociali' dove si fa finta, per quattro ore alla settimana, di imboccare degli ammalati di Alzheimer che vomitano quel cibo non perché incapaci di ingurgitarlo, ma disgustati da colui che glielo dà.

No, non infierirò su Vallanzasca e non cederò alla tentazione di irriderlo perché da bandito che seminò il terrore a Milano, negli anni Settanta e in parte degli Ottanta, si è ridotto a essere un 'ladro di ruote di scorta di micromotori' per dirla alla Jannacci. Non lo farò perché ho un debito con lui. Gli devo la sua onestà intellettuale. Quando fu catturato per la prima volta, a Roma, e portato, in manette, sul famoso balconcino, sotto c'era una folla di fotografi e giornalisti (la difesa della persona esiste solo per i delinquenti di grosso calibro, per gli altri valgono gli 'schiavettoni'). Uno dei giornalisti, nel clima sociologicizzante dell'epoca, gli chiese: «Vallanzasca, lei si ritiene vittima della società?». E lui rispose: «Non diciamo cazzate». Lo avrei graziato solo per questo. Ha sempre ammesso le sue responsabilità e se ne è assunte anche altre che erano pur sue ma che i magistrati avevano erroneamente attribuito ad altri. In quarant'anni di carcere ha subito i pestaggi più selvaggi da parte degli agenti di custodia (chi avrebbe mai difeso un 'pendaglio da forca' come lui?) e non se nè mai lamentato. Non ha invocato Amnesty International, come hanno fatto i ladri di Tangentopoli per poche settimane di detenzione preventiva, e nemmeno difeso i suoi più elementari diritti di detenuto (si rifaceva scopandosi tutte le direttrici, se carine, dei 36 penitenziari in cui è stato recluso, oh yes). Solo una volta, dopo un pestaggio più violento del solito, scrisse una lettera di protesta. Ma al solito giornalista che gli chiedeva: «Vallanzasca, lei è stato torturato?» rispose: «Beh, adesso non esageriamo».

No, non infierirò su Renato Vallanzasca. Come scrissi in un articolo sull'Europeo del primo agosto 1987, lo considero «un bandito onesto in una società dove, troppo spesso, gli onesti sono dei banditi».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2014