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Segue l'articolo pubblicato su Il Gazzettino il 30 dicembre 2011:

Mi ha colpito il sottotono con cui è stata accolta la morte di Giorgio Bocca. Certo le Tv ne hanno dato notizia, ci mancherebbe altro, peraltro offrendo preferibilmente la parola, nei commenti, a personaggi che lo detestavano. 
Certo i giornali hanno affidato il «coccodrillo» alle loro firme migliori anche se poi il tutto è finito nelle pagine più interne (perfino La Repubblica, il quotidiano per il quale aveva lavorato quasi quarant’anni, lo ha relegato alle pagine 35 e 36). Certo Bocca, quasi per fare un dispetto ai suoi colleghi, è morto il giorno di Natale e a Santo Stefano i giornali non escono, ma proprio questo avrebbe potuto dare il tempo per preparare servizi meno frettolosi e più completi. Anche i funerali nella brutta chiesa di San Vittore, cosa bizzarra perché Giorgio era laico, sono stati in tono minore. Io mi aspettavo il gotha del giornalismo italiano. A parte pochi amici c’erano solo quelli che in queste occasioni, per dovere professionale, non possono proprio mancare (il direttore di Repubblica, quello del Corriere). L’orazione funebre, affidata a Natalia Aspesi è stata sbrigativa, come di qualcuno che volesse togliersi al più presto un’incombenza sgradevole.
Quando morì Lucio Battisti i quotidiani gli dedicarono fino a nove pagine. Ora Battisti è stato un cantante che ha attraversato molte generazioni, ma la sua importanza nella storia dell’Italia del dopoguerra non può essere ovviamente paragonata a quella di Giorgio Bocca. C’è una sproporzione evidente. 
Che del resto è ben documentata dal Catalogo dei Viventi, dove lo spazio dedicato ai personaggi, anche infimi, dello spettacolo è infinitamente maggiore di quello occupato dagli uomini di cultura. Si dirà che in Italia non esistono più uomini di cultura. Tant’è che quando si vuole un parere autorevole su questioni sociali o etiche ci si rivolge a Celentano. Può darsi ma proprio perché Giorgio Bocca rappresentava uno degli ultimi esemplari di questa razza in estinzione, la sua scomparsa meritava maggiore attenzione.
Giorgio Bocca era detestato dalla destra. Se chiedevi a un berlusconiano chi proprio non potesse sopportare rispondeva: Di Pietro, Travaglio e Giorgio Bocca. Capisco Di Pietro, per ovvi motivi, capisco Travaglio. Ma Bocca? A parte i giovanili trascorsi fascisti (aveva vent’anni) che in questi giorni gli sono stati ampiamente ricordati, Giorgio Bocca è sempre stato un socialista, anche se molto critico col Craxi degli ultimi anni, e un anticomunista senza se e senza ma. Fu il primo giornalista di sinistra ad andare in Unione Sovietica, mandatovi dal Giorno, e a raccontare al ritorno, con estrema crudezza com’era nel suo stile, quali fossero davvero le «bellurie» del «socialismo reale» attirandosi l’odio dell’allora potentissimo Pci. Nel 1973 pubblicò una splendida biografia di Togliatti dove smascherava non solo la notoria «doppiezza» del «Migliore» ma i suoi autentici crimini fra cui quello, imperdonabile, di aver contribuito, in combutta con Stalin, a tenere Antonio Gramsci nelle galere fasciste. 
La destra dovrebbe dare una medaglia al valore a Giorgio Bocca, invece di denigrarlo. E in ogni caso quando muore un personaggio di questa portata bisognerebbe valutarlo nel complesso della sua opera, lasciando perdere i rancori di una giornata. E per mezzo secolo Bocca non solo ha raccontato, con lucidità e con coraggio, la storia italiana ma ne è stato uno dei protagonisti e un irrinunciabile punto di riferimento.

Massimo Fini

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Segue l'articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 22 dicembre 2011

I sei marittimi italiani e i diciassette indiani sequestrati quasi un anno fa (l'8 febbraio), insieme alla petroliera Savina Caylyn, dai pirati somali sono stati liberati. Sono contento per loro, naturalmente, ma soprattutto, devo pur confessarlo, per i pirati che hanno incassato 10 milioni di dollari per il riscatto, anche se la Farnesina, pro forma, nega.

Trovo stupefacente, e non privo di significato, che nell'era della modernizzazione,dell'ipertecnologia,dei computer,dei satelliti-spia che individuano anche uno spillo posato per terra, di Echelon, della globalizzazione, di un trend che porta inesorabilmente verso un unico modello planetario, uno stato mondiale con regole valide per tutti, rinasca la pirateria. Certo i pirati somali sono un po' diversi dalla 'fairy band' della Tortuga, la mitica isola delle Antille dove la filibusta ebbe la sua epopea, soprattutto nel XVII secolo. Anche loro si sono modernizzati, si servono di alcuni strumenti tecnologici, Internet per trattare lo smercio del bottino e i riscatti, radar per seguire le rotte oltre che degli informatori disseminati sulle coste del Corno d' Africa e del Golfo di Aden. Ma all'attacco si va con i vecchi metodi. I moderni bucanieri mascherano i loro navigli come insospettabili 'navi d'appoggio', poi, all'ultimo momento, quando sono vicinissimi alla preda, calano in mare dei veloci barchini, con non più di cinque uomini di equipaggio, e vanno all'arrembaggio arrampicandosi con dei rampini e regolarmentare bandana sulle fiancate delle navi abbordate. Dopo averle sequestrate, insieme agli uomini a bordo, si rifugiano nei porti sicuri di Harardhere, di Ely, di Bossaso. Trovo esaltante che riescano a tenere in scacco le più sofisticate marine militari del mondo. Un centinaio di navi da guerra, americane, russe, cinesi, australiane, italiane, incrociano al largo del Corno d'Africa e del Golfo di Aden ma non riescono ad avere ragione dei pirati somali. Perchè sono rapidissimi nell'arrembaggio e altrettanto veloci nello sganciarsi.

Questi pirati sono civilissimi. Rubano, ma non uccidono. I prigionieri li trattano con rispetto e nessuno, che io ricordi, ha avuto di che lamentarsi. Sono in maggior parte ex pescatori, rovinati proprio da quelle petroliere che con il loro passaggio e i loro sversamenti hanno devastato il mare e impoverito la sua fauna. Poiché per gli occidentali è inconcepibile qualsiasi cosa che esca dalle loro logiche, si è tentato di etichettarli come quaedisti, Shebab o altro. Invece sono totalmente non ideologici. E' gente che se ne frega degli Stati e vuol vivere a modo suo. Quando nel 2008 fu sequestrata la Sinus Star, una nave dell'Arabia Saudita, le Corti Islamiche somale (una sorta di talebani in salsa africana) chiesero di liberarla in nome della solidarietà musulmana e dell'Islam condanna la pirateria, minacciando, in caso contrario, di intervenire con la forza, il pirata rispose: “ Non ci provate neanche. Siamo pronti a respingere qualsiasi blitz. Non abbiamo nulla contro gli islamici, lo siamo anche noi, e abbiamo il massimo rispetto del sacro regno saudita. Ma questa è solo una questione di affari. Siamo pirati.”

Sono pirati e fanno i pirati. Sono bucanieri. Sono degli avventurieri, ma molto più simpatici di certi avventurieri del denaro che, senza nulla rischiare, tantomeno la pelle, stanno rovinando il nostro mondo. Sono la vecchia, cara, affascinante filibusta. E noi stiamo appassionatamente con loro. Del resto anche Il Fatto, in una situazione molto diversa, a modo suo, meno rischioso, meno romantico e senza grottesche bandane alla Berlusconi, batte bandiera corsara.

Massimo Fini

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Segue l'articolo pubblicato su Il Gazzettino venerdì 23 dicembre 2011

Quatti quatti, nottetempo, di nascosto, gli ultimi soldati americani sono venuti via dall’Iraq lasciando dietro di sè la più lunga scia di sangue da quando, nel 1990, crollato il contraltare sovietico e avendo quindi mano libera, gli Stati Uniti hanno inanellato, in soli ventanni, sette guerre, Golfo, Somalia, Bosnia, Serbia, Afghanistan, Libia e, appunto, Iraq dove i morti iracheni sono stati calcolati fra i 650 e i 750 mila, infinitamente di più di quanti ne abbia fatti Saddam Hussein in trent’anni di dittatura, a cui vanno aggiunti 4500 caduti Usa.
Ma i risultati politici e geopolitici riescono ad essere ancora più devastanti di questa mattanza.

1) Si è facilmente scoperto che la giustificazione con cui gli americani, senza aver avuto alcun avallo Onu, avevano attaccato l’Iraq (il possesso da parte di Saddam di "armi di distruzione di massa") era falsa. Il rais di Baghdad quelle armi non le aveva. O, per essere più precisi, non le aveva più. Gli erano state fornite, a suo tempo, dagli stessi americani, dai francesi, dall’Urss, in funzione anticurda e antiraniana ma le aveva esaurite usandole sugli uni (Halabya) e sugli altri.

2) Saddam era un dittatore sanguinario ma era riuscito, bene o male, a tenere insieme tre comunità tra loro profondamente ostili, curdi, sunniti e sciiti, riunite in un unico Stato per una cervellotica decisione degli inglesi nel 1930. Scomparso Saddam fra sunniti e sciti (un tempo tenuti sotto il tallone di ferro del rais) è scoppiata una feroce guerra civile che dura tutt’ora e che prenderà ulteriore vigore con l’uscita di scena degli americani. Non per nulla nell’agosto del 2010 gli abitanti di Falluja, città sunnita che più si era battuta contro gli invasori, si dicevano terrorizzati al pensiero che gli Usa avrebbero lasciato l’Iraq, ben sapendo che sarebbero stati alla mercè della maggioranza sciita.

3) Da quando nel 1974, la rivoluzione khomeinista rovesciò lo Scià di Persia, loro alleato, tutta la politica americana è stata antiraniana. Per questo quando nel 1985 i soldati di Khomeini erano davanti a Bassora e stavano per prenderla (il che avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam, la riunione dell’Iraq sciita con l’Iran, perché si tratta della stessa gente, dal punto di vista antropologico, culturale e religioso, oltre che la sacrosanta indipendenza dei curdi iracheni) gli americani intervennero, per "motivi umanitari" a favore del dittatore di Bagdad rimpinzandolo di ogni genere di armi comprese quelle "chimiche" che poi, nel 2003, sarebbero servite da pretesto per l’aggressione all’Iraq.
Oggi con la pseudodemocrazia instaurata in Iraq, gli sciiti iracheni, che rappresentano il 62% della popolazione, sono di fatto padroni di gran parte del paese e rispondono ai loro confratelli iraniani. Così quello che gli americani avevano negato all’Iran nel 1985, scippando loro la vittoria sul campo di battaglia, che era costata a Teheran centinaia di migliaia di morti, glielo hanno regalato 25 anni dopo senza che Teheran abbia dovuto sparare un solo colpo di fucile.

4) Restano i curdi. Finora se ne sono stati tranquilli perché la scomparsa di Saddam ha dato loro, di fatto, un’autonomia che somiglia molto a quell’indipendenza che hanno sempre sognato. Ma se l’indipendentismo curdo-iracheno dovesse contagiare quello in Turchia dove vivono 12 milioni di curdi allora salterebbe tutta la strategia americana costruita in questa regione, comprese le guerre in Bosnia e alla Serbia, europea e ortodossa, in funzione di un cunei nei Balcani di musulmanesimo moderato (Albania più Bosnia, più Kosovo) in favore del loro essenziale alleato turco.

Massimo Fini

Segue l'articolo pubblicato su Il Gazzettino venerdì 23 dicembre 2011:
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Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 27 dicembre 2011

Ho frequentato abitualmente Giorgio Bocca nei primi anni Ottanta. Umberto Brunetti, direttore di Prima Comunicazione, si era inventato una rubrica, 'Dialoghi sull'informazione', affidando il ruolo del protagonista a Bocca che era allora, insieme a Montanelli e Biagi, uno dei principi del giornalismo italiano. Ci voleva però uno sparring-partner. Bocca io l'avevo conosciuto nei primi mesi di Repubblica e, nonostante il quarto di secolo che ci divideva, fra noi era nata una simpatia istintiva. Così mi aveva indicato a Brunetti come spalla. Naturalmente, nella coppia, lo spazio del prim'attore spettava a lui, io avevo la parte del cretino dei fratelli De Rege, dovevo porgergli la battuta, però ci mettevo anche qualcosa di mio e i 'Dialoghi' ebbero un notevole successo. Un piccolo imprenditore, Cariaggi, più noto peraltro per essere il marito di Lara Saint Paul, ci propose di riprendere la formula in una di quelle radio locali che allora stavano spuntando come funghi.

Arrivavo la mattina presto a casa di Bocca, in via Bagutta 12, e lo trovavo spesso indaffarato a mettere insieme dei ritagli pescati chissà dove. “Cosa stai facendo, Giorgio?”. “Una voce di enciclopedia”. “Hai tempo da perdere per queste cose?”. “Ma, sai, mi danno centomila lire” e calcava la voce sul 'centomila'. Anche se eravamo nei primi Ottanta una cifra del genere non era gran cosa, tantomeno per uno come lui che prendeva uno stipendio da Repubblica e un altro dall'Espresso. Non era propriamente avidità o taccagneria, piuttosto un sacro rispetto per il denaro. Non dimenticava di essere figlio della maestrina di Cuneo e questo rapporto col denaro, come forma di rassicurazione e conferma tangibile del suo successo, lo seguirà per tutta la vita.

Quando uscivamo dagli studi della radio lui si infilava in una misteriosa porticina. Io dovevo attenderlo fuori. Ci rimaneva cinque minuti, poi saliva sulla mia macchina e lo riportavo a casa. Una volta, mentre guidavo, non resistendo più alla curiosità, gli chiesi: “Che vai a fare in quel bugigattolo?”. “Prendo i soldi, subito, cash. Con quella gente non c'è mai da fidarsi”. In un'altra occasione eravamo a cena a casa sua. Lui era a capotavola, io sedevo alla sua destra. Uno dei suoi figli si era sposato da poco. Ad un certo punto avvicinò il suo viso al mio e coprendosi a metà la bocca con la mano per non farsi sentire dalla Giacomoni, la moglie, mi sussurrò: “ Sai, questo matrimonio mi è costato dieci milioni”. E calcò la voce sui 'milioni'. In questi casi c'era in lui qualcosa di infantile, quasi di birichino, come se l'avesse fatta grossa a sua madre, che muoveva a tenerezza. Una delle ultime volte che sono stato da lui mi raccontò che era andato a trovare Pericoli che si era ritirato in Umbria. Naturalmente non guidava più e nemmeno Silvia. Avevano dovuto prendere una macchina con autista. “Sai, io non sono abituato a queste cifre...”. Ma questa volta il tono era amaro, come si sentisse tagliato fuori dal mondo. “Il telefono non squilla più” aggiunse poco dopo.

In questa storia del rapporto col denaro sta anche, insieme a una buona dose di masochismo, la fascinazione che provava per i ricchi. Lo lusingava essere invitato a cena a casa dei Pirelli, dei Brion, della Crespi. Ma si annoiava a morte. Inoltre, com'è noto, la mensa dei ricchi, con la scusa della dieta, è sempre molto parca mentre a lui, da buon contadino che aveva nella memoria tempi di vacche magre, piaceva mangiare e bere (ma una volta Leopoldo Pirelli fu scoperto in cucina che si strafocava, di nascosto, un pollo, mentre ai suoi ospiti aveva fatto servire delle insalatine insaporite da qualche salsa). “Perchè ci vai, Giorgio?”. “Ma, sai, i Pirelli, i Brion...”. “Ma tu sei molto più importante di qualsiasi Brion o Pirelli o Crespi”.

Giorgio Bocca non si è mai reso conto appieno del ruolo che ha avuto per più di mezzo secolo nella vita intellettuale italiana. Psicologicamente era rimasto un provinciale, come ha scritto in uno dei suoi libri più belli (l'altro è la splendida e coraggiosa biografia di Togliatti). Il culmine del masochismo lo raggiungeva quando accettava l'invito che Giulia Maria Crespi faceva ogni anno ad alcuni importanti personaggi nella sua tenuta della Zelata, sul Ticino. La sadica 'zarina' costringeva gli uomini, quasi tutti in età, a una regata agonistica sul fiume. Lui ne tornava distrutto e furioso. “Perchè ci vai, Giorgio?”. “Ma, sai, la Crespi...”.

Quando facevamo i 'Dialoghi sull'informazione' si teneva piuttosto cauto sulla Repubblica e l'Espresso, i giornali per cui lavorava. Ma una volta, non potendone più, si lasciò andare a delle dure critiche su Zanetti, il direttore dell'Espresso. Io riportai tutto, diligentemente. Alle sei di mattina di qualche giorno dopo squillò il telefono di casa mia. “Ma che cazzo hai scritto?”. “Ma, veramente, quello che mi hai detto tu” balbettai insonnolito “ e non a tavola ma davanti al registratore mentre facevamo i 'Dialoghi'. Eppoi è la verità”. “Se tu alla tua età non hai ancora capito che non si può sempre scrivere la verità, sei un cretino”. E buttò giù la cornetta. Quella frase, detta da uno dei più coraggiosi giornalisti italiani, mi colpì. Il fatto era che Zanetti, per punizione, quella settimana gli aveva fatto saltare la rubrica. Ma mi perdonò quasi subito e i 'Dialoghi' continuarono regolarmente.

Bocca era un uomo ruvido, di poche parole, sbrigativo. In questo un cuneese purosangue. Ma la ruvidezza, come spesso accade, mascherava un'intima timidezza e anche una fragilità emotiva che contrastava con la sua figura di uomo solido, anche fisicamente (al Giorno quando c'era da fare un servizio faticoso, Rozzoni diceva: “Mandiamoci Bocca, che è robusto”). Un capodanno ero ospite dei Bocca a La Salle, sopra Courmayeur, insieme alla mia giovane moglie. Verso mezzanotte arrivò un'allegra comitiva non si sa bene invitata da chi. Fra i nuovi arrivati c'era una donna sulla quarantina, sciapa, che diceva di essere un'editrice. Chiese al padron di casa che lavoro facesse. Bocca, lì per lì, si incazzò di brutto. “Ma come, vieni a casa mia, dici di essere un'editrice e non sai nemmeno chi sono?”. Non mi ricordo cosa rispose la cretina. Giorgio si alzò e sparì nelle stanze interne. Dopo un po' andai a cercarlo. Si stava ubriacando di whisky. Non aveva retto che una squinzia qualsiasi, una stronzetta di cui poteva tranquillamente impiparsi, non lo avesse riconosciuto. Ci mettemmo a giocare a biliardo.

Quando ci capitava di camminare insieme per le strade intorno a via Bagutta, Bocca, ogni tanto, abbaiava. “Che fai, Giorgio?”. “Scarico la tensione, me lo ha consigliato il medico”. Non l'ho mai visto veramente disteso. “La mattina, quando mi alzo, mi prende l'angoscia: penso che non riuscirò a fare tutto quello che devo fare. Ma poi quando arriva la sera mi accorgo di avere fatto tutto”.

Con Montanelli si poteva parlare di tutto. Era un uomo completo. Con Biagi solo di giornalismo, era chiuso nella dimensione del cronista, in un modo arido. Bocca riluttava molto ad aprire la botola esistenziale, ma se lo si stuzzicava – e io lo facevo spesso, perchè a me questo solo interessa – non si tirava indietro. Però sempre nel suo modo concreto, pragmatico, realista, privo di qualsiasi sentimentalismo. Un giorno mi disse: “ Sai, ho capito che dopo una certa età se vuoi l'affetto devi pagartelo”. Intendeva proprio affetto, non il sesso (di questo mi aveva detto, tempo addietro: “Alla fine la fatica diventa maggiore del piacere e lasci perdere”). Io che avevo allora quarant'anni e stavo con una donna bella e affascinante ('la morona' come la chiamava lui, affettuosamente) inorridivo. Mi sembrava un atteggiamento troppo cinico. Ora che ho l'età che lui aveva allora so che aveva ragione. In realtà Bocca non era un cinico, era, al contrario, come ha scritto lui stesso di sé, in uno degli ultimi articoli, mettendosi a confronto con Berlusconi, “un cuor tenero pronto ai cedimenti”. Ma aveva il coraggio di guardare in faccia le cose per quelle che sono. Che è stata anche la sua fortuna di giornalista.

Le mie tesi antimoderniste non le prendeva sul serio. “Tu sei un poeta, un pazzo. Poche balle, qui c'è da competere col Giappone” (allora il 'pericolo giallo' veniva dal Sol Levante).

Negli ultimi anni, se posso permettermi di dirlo, le sue posizioni si erano avvicinate parecchio alle mie. Ma non mi nominava mai. E io gli scrivevo dei bigliettini risentiti. Ma quando pubblicai Ragazzo. Storia di una vecchiaia scrisse sull'Espresso: “ Una lettura affascinante. Il 'ragazzo' mi spiega con fraterna sincerità cosa sono oggi”. Sulla pagina era rimasto lucido. Nella rubrica che manteneva sull'Espresso, 'L'antitaliano', raramente perdeva un colpo. Dietro l'opinionista, l'intellettuale, si sentiva sempre l'esperienza del grande inviato. Con le dita anchilosate dall'artrite batteva a fatica sui tasti del computer che aveva imparato a usare con grande sforzo, ma a differenza di Montanelli o di Biagi o di Feltri, aveva imparato, spinto dal suo doverismo masochista ma anche dall'umiltà del grande professionista. Sul lavoro non ci ha mai mollato. Ma fisicamente, negli ultimi anni, era invece crollato. Bocca 'il robusto' era diventato un omino mingherlino, fragilissimo, che si sarebbe potuto spazzar via con un soffio. Credo che non gli abbia giovato il trasferimento dalla storica abitazione di via Bagutta a via De Grassi. In via Bagutta poteva ancora uscire, entrare in qualche negozio, avere una parvenza di vita sociale. La De Grassi è una lunga strada privata dove ci sono solo lussuose abitazioni. Un tragitto ormai improponibile per lui. Era diventato un recluso.

L'ultima volta che l'ho incontrato è stato all'inizio della scorsa estate, a colazione a casa sua, con Silvia Giacomoni. Era vigile, attento, ma si stancava presto e preferiva far parlare noi. Così la conversazione l'abbiamo sostenuta soprattutto Silvia ed io che un tempo ci detestavamo cordialmente. Ma la vecchiaia ci aveva ammorbiditi entrambi.

Un segno della senilità di Bocca era che disprezzava in blocco il giornalismo italiano di oggi. “Possibile, Giorgio, che non ti piaccia nessuno dei nostri colleghi?”. “No”. “Nemmeno Travaglio?”. “Non si può scrivere un pezzo al giorno, non è professionale”. Allora ho spostato il discorso sul passato. “E di Montanelli che pensi?”. “Montanelli ed io siamo stati spesso accomunati, ma in realtà non c'entriamo niente l'uno con l'altro. Ciò che gli invidio è il giro di frase elegante, la battuta, ma non penso che fosse un uomo profondo”.

In quel pomeriggio luminoso, troppo luminoso, d'inizio estate, tutti e tre ci rendavamo perfettamente conto, anche per quel sole spavaldo fatto per altre età, di essere dei sopravvissuti. Bocca si è alzato per congedarsi. Gli ho chiesto: “Giorgio, hai 91 anni, che pensi della tua vita?”. “Penso che, tutto considerato, mi è andata bene” è stata la risposta.

Massimo Fini

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A seguire l'articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 17 dicembre 2011

Il senatore Andrea Fluttero, del Pdl, sta facendo circolare fra i suoi colleghi parlamentari una lettera in cui si lancia contro “l’ondata di antipolitica” e di discredito che ha colpito la classe dirigente. Fluttero ammette, bontà sua, che ci sono “comportamenti quanto meno discutibili di esponenti pubblici”, ma che accanto a queste “mele marce” ce ne sono tante buone. Io non dubito che in Parlamento assieme a una quantità impressionante di ladri, di taglieggiatori, di lestofanti, di opportunisti, di fancazzisti e di Minetti ci siano delle persone perbene e anche colte, naturalmente in relazione al bassissimo livello culturale oggi in circolazione.

Purtroppo il problema della democrazia italiana non è solo e tanto quello della scadente qualità dei suoi rappresentanti, ma è soprattutto di sistema.

La nostra democrazia non è mai stata, fin dal primo dopoguerra, una democrazia ma una partitocrazia. La questione affonda le radici nella nostra storia. Dopo l’ 8 settembre tutti i partiti, dai comunisti ai monarchici, si riunirono nel Cln per dare un contributo, sia pur marginale, alla lotta contro il nazifascismo. Dopo la guerra si spartirono quel che era rimasto dello Stato italiano (prefetture, sindaci, presidenti delle Province). Dopo di che, mentre l’Italia si ricostruiva, cominciarono a occupare tutto ciò che riguardava lo Stato e il parastato e in modo molto rapido se già nel 1960 il grande giurista Giuseppe Maranini fece in Parlamento un vibrante discorso contro la partitocrazia, seguito a ruota dallo stesso presidente del Senato Cesare Merzagora (allora in Parlamento non esistevano solo persone specchiate ma anche di cultura). Naturalmente rimasero inascoltati. I partiti, in competizione fra loro, forti della propria posizione dominante, per raccattare il consenso si diedero a elargire favori clientelari che non hanno nulla di diverso dal “voto di scambio” mafioso che pure praticavano. Inoltre dai primi anni 80 cominciarono a praticare la grassazione sistematica su ogni appalto (la prima Tangentopoli ci è costata 630 mila miliardi di lire, un quarto del debito pubblico).

L’avvento dell' imprenditore Berlusconi, che pur era partito lancia in resta contro “il teatrino della politica”, non solo non ha sanato nessuna di queste anomalie strutturali della democrazia italiana, ma ha portato in Parlamento il peggio della Prima Repubblica aggiungendovi, di suo, un cospicuo manipolo di troie. E anche la Lega, un movimento che pure era partito per fare piazza pulita dell’occupazione partitocratica dello Stato, si è presto adeguata inserendo i suoi uomini in ogni ganglio del potere a cominciare dalla Rai. Così, negli anni, è montato in buona parte della cittadinanza un disgusto e un disprezzo per la classe politica che non data dalla crisi economica, ma la precede (alle ultime amministrative il 40 % non ha votato). Ma l’assoluta incapacità di affrontare una situazione di emergenza ha portato alla luce tutte le magagne della classe politica e oggi i sondaggi danno l'astensionismo intorno al 45 %. Si potrebbe sperare che sia il colpo di grazia. Ma non sarà così. Dopo la parentesi bocconiana, i partiti – e se ne avvertono già le avvisaglie nei talk show – continueranno a fare, imperterriti, quello che han sempre fatto.

Mentre, a mio avviso, potrebbe tornar buona oggi una proposta di Guglielmo Giannini, il fondatore dell' Uomo Qualunque, impraticabile negli anni 50, l’epoca delle ideologie, ma plausibile ora che le ideologie sono morte e che fra destra e sinistra non ci sono che differenze di dettaglio: un Ragioniere dello Stato, nominato per cinque anni e non rieleggibile.


Massimo Fini