Di tutte le edizioni dei Campionati del mondo di cui ho contezza, cioè dal 1954 (vittoria della Germania di Fritz Walter e di Rahn), questa mi è parsa in assoluto la più modesta. Del resto non è necessario rifarsi alla lontana Ungheria dei Puskas, degli Hidegkuti, dei Bozsik, dei Kocsis o al Brasile di Didì, Vavà, Pelè o a quello successivo di Pelè e Rivelino o all'Olanda hippy dei Neeskens e dei Crujiff, basta fare un raffronto con l'edizione del 1986 in Messico. È vero che le due finaliste, Germania e Argentina, sono le stesse, abbastanza modeste allora come oggi (tranne il Maradona dell' '86 e Valdano), ma dietro a queste, in Messico, c'erano stati il «calcio stellare» dei russi, la «Danimarca dinamite» di Leerby, Elkiaer, Arnesen e Morten Olsen, la Francia di Platini, la Spagna di Michel e Butragueno, un interessantissimo Belgio. Se le squadre più belle e innovative persero allora il treno delle finali fu per la follia di aver fatto giocare i Mondiali a 2.500 metri e a mezzogiorno, che favorì il lento tango degli argentini. Quest'anno non c'è stata alcuna novità, nè tattica, nè tecnica, nè di uomini, se si esclude il nostro Totò Schillaci (il miglior giocatore del torneo, il giovane jugoslavo Dragan Stojcovic, era già arcinoto per avere, insieme al suo compare Savicevic, quasi sbattuto fuori il Milan dalla Coppa dei Campioni: i rossoneri vennero salvati dalla nebbia). Il fenomeno più evidente di questo Campionato è stato il livellamento dei valori. Almeno otto squadre erano in grado di vincerlo. Ma è un livellamento verso il basso che le novità «africane» non bastano a riscattare. Precisato questo c'è però da dire che i Campionati del mondo italiani.sono sembrati ancor più modesti di quanto non fossero oggettivamente. Per vari motivi. Nel mondo dello spettacolo e dell'informazione è ormai consuetudine far precedere qualsiasi appuntamento da una frastornante grancassa. Ciò serve a creare l'evento quando l'evento non c'è (come nel caso, per esempio, del primo concerto italiano di Madonna), ma finisce con lo svalorizzarlo quando c'è, creando un eccesso di attesa. «Tutto qui?», pensa lo spettatore, deluso. Quasi tutti i migliori giocatori d ci mondo giocano ormai nel nostro campionato. Per noi italiani non c'è quindi l'effetto-sorpresa. Una cosa è vedere giocare Careca una volta tanto, altro è averlo davanti agli occhi tutte le domeniche. Ci si abitua alla sua bravura e ci affascina di meno. Oggi il Campionato del mondo arriva dopo un'orgia di Coppe, di Supercoppe, di Coppe intercontinentali, televiste in tutte le salse, creando una saturazione che deprime l'interesse per un avvenimento che dovrebbe essere eccezionale e che invece eccezionale non è più. Il Campionato di «Italia '90» è stato vittima dell'indigestione di calcio. Attorno ad esso c'è stata tensione, da noi, finche era in gioco l'Italia, poi è scaduto a manifestazione quasi qualsiasi. C'è inoltre da aggiungere che ormai molte squadre di club, soprattutto italiane, olandesi e spagnole, con la possibilità di inserire tre stranieri, giocano a un livello più alto della miglior nazionale. In quanto all'Italia abbiamo presentato una buona squadra, ma certamente non eccelsa. Potevamo vincere «Italia '90», come del resto molte altre squadre, appunto perché è stato un Campionato mediocre. Ottimi, come sempre, in difesa, buoni in attacco con la coppia Baggio-Schillaci, a gioco lungo il nostro punto debole è stato, come al solito, il centrocampo, che si è fatto dominare dagli argentini, dagli irlandesi e addirittura dagli impresentabili uruguagi. Ne si capisce perché mai abbiamo accusato la stanchezza, come, a scusante, è stato detto, quando abbiamo avuto tutte le agevolazioni logistiche, siamo l'unica squadra che ha giocato sempre di sera e che, fino alla partita con l' Argentina, non ha dovuto affrontare i supplementari. È vero che con l' Argentina abbiamo perso ai rigori, ma è vero anche che non siamo riusciti a creare occasioni da gol. Che cosa dovrebbe dire allora la Jugoslavia che ha perso anch'essa ai rigori con l'Argentina, ha giocato per un'ora e mezzo in dieci uomini ai 39” di Firenze e ha mancato d'un niente una mezza dozzina di gol? Non c'è quindi da fare troppi piagnistei, nè da imprecare alla sfortuna. E spiace che Vicini sia stato l'unico tecnico dei Mondiali a non presentarsi, dopo la sconfitta, alla consueta conferenza stampa post-partita, sottolineando così la nostra atavica incapacità di saper perdere. La stampa sportiva si è comportata come sempre: esaltando Vicini quando vinceva, semicrocifiggendolo il giorno della sconfitta, com'è giusto che sia, perché il calcio è un rito dalle regole immutabili che serve anche a certi necessari sfoghi collettivi. Non mi pare quindi che la stampa sportiva meriti i sarcasmi di Giorgio Bocca, il quale l'ha accusata, tra le altre cose, di insipienza, conformismo, banalità, scarso respiro («Gazzette dello sport di regime», Espresso n. 26) per non aver capito quello che ha capito lui, e cioè che la sconfitta della squadra sovietica è dipesa dalla crisi più generale in cui versano i paesi dell'Est europeo. Ma dove mai? La Romania, che di quei paesi è oggi certamente il più malmesso, è arrivata alla fase finale dei Campionati per la prima volta dopo vent'anni. Gli jugoslavi sono giunti ai quarti sconfitti solo ai rigori. I cecoslovacchi sono pure arrivati ai quarti battuti dalla Germania campione. E la stessa Russia è stata messa fuori principalmente grazie a delle clamorose sviste arbitrali. Questa volta il granchio l'ha preso proprio Giorgio Bocca e non le vituperate «gazzette di regime». Per parlare di calcio non basta essere dei grandi giornalisti. Bisogna anche avere la modestia di documentarsi un poco.