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Nell'enorme stanzone, fra la confusione di un numero incredibile di parenti, di infermieri, di medici, di ficcanaso, giacciono decine e decine di malati, la testa per lo più bendata, gli occhi chiusi, i visi pallidi e sofferenti resi ancor più crudi dalla tagliente luce al neon. Quelli gravissimi, più per nasconderli alla vista degli altri e non spaventarli ulteriormente che per un simulacro di privacy, sono stati ficcati in quella che, in antico gergo ospedaliero tramandato, non casualmente, fino ad oggi, si chiamano «foimbe», cubicoli alti poco più di un uomo e larghi quanto il letto, separati dall'ambiente circostante da semplici divisori di plastica. Altri malati stazionano in lettini piazzati nei corridoi. In un bagno vicino alla sala operatoria vedo pacchi di materiale sanitario, accatastati sul water e sul bidè. Dappertutto mozziconi di sigarette, sporcizia, qua e là qualche ragnatela. Scendo in quello che mi pare uno scantinato, uno stanzino di un metro per due, i muri scrostati che trasudano umidità. Un gatto mi sguscia fra le gambe e va a nascondersi dietro i sacchi grigi dell'immondizia, appena fuori della porta. E' da un piccolo crocifisso appeso alla parete che capisco che si tratta della camera mortuaria. Questo è il padiglione Beretta Neuro del Policlinico di Milano, un reparto di neurochirurgia che è, per attrezzature e personale medico, fra i migliori d'Italia, ma ridotto ad operare in condizioni di sovraffollamento e di degradazione inaudite. Faccio qualche passo nel cortile del Policlinico e mi sposto al padiglione Neurologico. In uno stretto corridoio una ragazza è stesa su un lettino, la testa rapata a zero. E' giovanissima, probabilmente, ma così depilata sembra proprio una bambina. Aspetta di fare la Tac. «Ancora qui?», si meraviglia il giovane medico che mi accompagna. «Ma sono passate più di tre ore!». La ragazza farfuglia qualcosa. Gente in barella nei corridoi, davanti ai gabinetti, in reparti stipati fino all'inverosimile si trova un po' dappertutto al Policlinico. Eppure proprio il più grande padiglione dell'ospedale, il Monteggia, è mezzo vuoto. La stessa situazione paradossale si ripete a livello cittadino: ospedali zeppi fino al collasso accanto ad altri vuoti o a strutture assistenziali addirittura abbandonate. «Sarà un caso ma a me è sempre toccato lavorare in ospedali semivuoti» dice Antonio Sportelli, direttore sanitario della Macedonio Melloni. «Ero a Garbagnate e c'erano settecento posti letto che avanzavano. Stavo al Paolo Pini ed era semivuoto. Adesso sono qui alla Macedonio Melloni e proprio davanti a noi c'è l'ex Brefotrofio con otto padiglioni vuoti, perché oggi, naturalmente, di bambini al Brefotrofio non ce n'è più, tutti se li contendono per l'affido prima ancora che nascano». Vuoto, a Milano, è anche il «vecchio Bassini», semi vuoto il «nuovo Bassini», così come l'ospedale di Sesto che gli sta di fronte, semivuoti sono tutti i reparti di pediatria e ostetricia. Emblematico è il caso del Vecchio e del Nuovo Bassini. «Il “vecchio Bassini”» racconta Giuliano Sevieri, il medico che abbiamo più volte incontrato in questa inchiesta, «era l'unico ospedale della mia zona, la zona II, un quartiere molto denso e popolare della città, aveva un reparto chirurgico, uno di ostetricia, un pronto soccorso e, negli ultimi anni, anche un piccolo reparto di cardiologia e di rianimazione, tutte cose che funzionavano molto bene. Pur essendo una struttura vecchia, il “Bassini” era molto amato dai milanesi, era un ospedale di cui ci si fidava. Tanto che quando il Comune fece sapere che voleva sbaraccarlo per costruirlo altrove la gente si ribellò, fece manifestazioni, occupò l'ospedale. Ma non ci fu niente da fare. Il “Bassini” fu abbandonato e fu costruito il “nuovo Bassini” che, a parte il fatto che non capisco bene cosa abbia a che fare col vecchio perché sta a Cinisello Balsamo, a venti chilometri da qui, ha un altro ospedale quasi davanti ed è vicinissimo a Niguarda». Il risultato è stato che il «nuovo Bassini», costruito in pompa magna ed in dimensioni faraoniche, non è mai decollato, è rimasto sempre seminutilizzato tanto che qualche anno fa scoppiò uno scandalo perché si venne a sapere che un posto letto veniva a costare 700 mila lire al giorno (contro una media di 278 mila, dato '84), tale era la sproporzione fra le strutture dell'ospedale, la gente che vi lavorava, i posti letto disponibili e il numero effettivo dei ricoveri. E il «vecchio Bassini»? Siamo andati a vedere che cosa ne hanno fatto. Da fuori, l'aspetto è piuttosto deprimente: persiane squarciate, vetri rotti, mura scrostate. Dentro: un consultorio familiare, uno geriatrico ed una guardia medica ridicola, offensiva, che non ha un apparecchio per fare una radiografia, un elettrocardiogramma e che quindi «non fa altro che smistare la gente al pronto soccorso del Fatebenefratelli». «Ma i veri colpevoli non pagano mai» Ora il lettore si chiederà come mai ospedali pieni stiano a fianco di altri semivuoti e perché non si possano decongestionare i primi riempiendo un po' di più i secondi. Oppure, visto che Milano ha un solo ospizio per anziani, il Pio Albergo Trivulzio, e manda i suoi vecchi a cinquanta, sessanta, ottanta chilometri dalla città o li ricovera, facendo finta di niente, in istituti psichiatrici o ancora, che è il caso più frequente, li abbandona a se stessi, si chiederà perché tutte le strutture sanitarie semi vuote o abbandonate di cui la mappa della città pullula non siano adibite a ricovero per anziani o per i cosiddetti «lungodegenti». Sembrerebbe la cosa più ovvia del mondo. Ed invece no. La Sanità non è fatta per le soluzioni semplici. La disorganizzazione, la confusione, le baronie mediche, le resistenze sindacali, il gioco dei poteri, il conflitto di competenze e le gelosie, fra Regione, Comune, Provincia, UsI sono tali che nessuno è in grado di decidere cose di senso comune. A dire il vero un organo che ha la potestà giuridica, e quindi almeno teorica, per decidere ci sarebbe ed è la Regione. Lo dovrebbe fare innanzi tutto attraverso un piano regionale che tenga conto delle risorse, dei bisogni, delle priorità. Ma la Regione Lombardia, come del resto la stragrande maggioranza delle regioni italiane (in regola ci sono solo Toscana, Emilia, Piemonte, Valle d' Aosta e Marche) non ha mai approvato questo piano che pur la legge di Riforma prescrive (per cui in Lombardia si opera ancora sulla base di un piano del 1975 -il «Piano Rivolta»- elaborato sulla base di dati ed esigenze del 1971, cioè di quindici anni fa). Naturalmente se voi andaste dall'assessore regionale alla Sanità, Moroni, per chiedergli conto di questa inadempienza egli potrebbe, legittimamente, rispondervi che è difficile approntare un piano sanitario regionale quando non c'è ancora, a sei anni dal varo della Riforma, quel piano sanitario nazionale che la Riforma imponeva e che doveva essere il punto di riferimento di tutto il sistema. Perché una delle caratteristiche del disastro sanitario nel nostro Paese è che tu non riesci mai a trovare un responsabile di nulla, tutto si sposta sempre ad un piano superiore finche ogni cosa sfuma nella ineluttabilità della storia. Dovrebbe essere questo piano sanitario nazionale, suppongo, se non a porre fine, perlomeno a limitare, a correggere una delle più straordinarie anomalie del sistema sanitario italiano: il fatto di avere, in rapporto alla popolazione, il più alto numero di ospedali al mondo. Secondo un rilevamento del 1983 gli ospedali in Italia (case di cura private comprese) sono 1.828. Uno studio condotto dal professor Francesco D' Ambrosio, coordinatore di un piano regionale lombardo mai approvato, afferma che per una resa ottimale dovrebbero essere 563, meno di un terzo. Può darsi che lo studio di D' Ambrosio sia eccessivamente teorico e spartano, come mi è stato detto, quel che però è certo è che gli ospedali inutili in Italia sono centinaia. Basta prendere come parametro un altro dato: quello dei posti letto. Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità il rapporto ottimale posti letto-abitanti è di 6 posti letto ogni mille abitanti. Da noi ci sono regioni come il Veneto, Come il Trentino, come il Friuli, come la Liguria, come l'Emilia, come la Toscana, Come le Marche, come gli Abruzzi che hanno dieci, undici, dodici, tredici posti letto per mille abitanti. Ci sono dei casi incredibili Come quello di Nocera, feudo del parlamentare democristiano Bernardo D' Arezzo, che ha tre ospedali e venti posti letto per mille abitanti. Naturalmente la maggior parte degli ospedali non funziona, molti vengono costruiti a metà, infarciti di personale e poi abbandonati a se stessi. I motivi di questo spreco Sono i soliti: di malinteso prestigio, clientelari o decisamente truffaldini perché un ospedale vuoI dire appalti da miliardi. Va da sé, naturalmente, che questi sono quantitativi sottratti agli ospedali che funzionano e ai reparti che hanno un reale bisogno di investimenti. In questo festival dello scialo la Lombardia non fa eccezione. «In Brianza» racconta Francesco D' Ambrosio «c'è un ospedale ogni chilometro e mezzo. A Menaggio, perché interessava al presidente della Regione, Guzzetti, hanno messo in piedi un ospedale dove, al massimo, ricovereranno dei pesci». Racconta Giulio Morello, ex primario neurochirurgico: «Anni fa si parlò di fare un Centro neurochirurgico a Sondalo, in Valtellina. Io lo sconsigliai vivamente perché nella zona ci sono circa duecentomila persone mentre un Centro del genere, per essere utile, deve avere un bacino d'utenza che va dalle ottocentomila al milione di persone, altrimenti, fra le altre cose, chi ci lavora non acquista esperienza. Ma furono obiezioni inutili. L 'assessore regionale di allora, Peruzzotti, lo fece costruire lo stesso». Ma il caso più clamoroso è quello dell'ospedale San Paolo di Milano, dove ha operato a lungo uno dei boss della Sanità milanese, Michele Colucci, socialista, fratello di «Ciccio» Colucci, il chiacchieratissimo parlamentare. Il San Paolo fu iniziato nel '78 con idee avveniristiche e faraoniche: prevedeva circa mille letti. Finora ne è stato completato un solo braccio, i letti sono 280, ma il personale assunto, mille persone fra medici, paramedici, amministrativi, operai, è quello di un ospedale da migliaia di letti. Al San Paolo ci sono due reparti di ostetricia e di ginecologia (con due primari e tutto quel che segue) che hanno in tutto 24 letti. C'è un medico ogni due pazienti. Non stupisce quindi che questo ospedale detenga il record assoluto del costo per ogni posto letto: 449.000 lire al giorno se si calcola anche il servizio di day hospital, oltre il milione se non ve lo si fa rientrare. Quel che è peggio è che questi sono errori, se vogliamo chiamarli così, da cui è impossibile tornare indietro. Spiega Giovanni Antenucci, segretario del Comitato regionale del controllo: «Purtroppo la situazione è tale da portare anche persone logicissime, come l'assessore Moroni, a dover fare scelte illogiche. Come fai infatti oggi a non finire il San Paolo, il “nuovo Bassini”, l'ospedale di Monza, come la logica vorrebbe, quando ciascuno di questi ospedali è già costato 100 miliardi, 100 miliardi l'uno, capisce? E allora vai avanti, a buttar denaro. Purtroppo siamo prigionieri di questa storia, di quanto è accaduto in passato». Alla moltiplicazione degli ospedali inutili, ma costosissimi, corrispondono la duplicazione e la replicazione di macchinari spesso altrettanto inutili e costosi. «Nella sola Lombardia» dice il professor Giulio Morelli «ci sono sette apparecchi per la risonanza nucleare magnetica, Rnm, mentre in tutta la Gran Bretagna ce ne sono tre. Perché il National healty system ha stabilito che non si compra nessuna apparecchiatura se prima non si è stabilito: 1) a che cosa deve servire; 2) per quali malati; 3) dove deve essere messa. Da noi invece si acquista assolutamente a vanvera. E se una di queste macchine costa un miliardo e mezzo la sua gestione costa molto di più». La stessa cosa è avvenuta per le Tac. Naturalmente molte di queste macchine, come gli ospedali, restano inutilizzate perché, una volta comprate, ci si accorge che manca il denaro per gestirle o non c'è lo spazio dove metterle o gli ambienti non sono adatti o non c'è il personale medico e tecnico. AI Policlinico di Milano, per esempio, hanno comprato una Tac e l'hanno tenuta in uno scantinato per tre anni e quando finalmente l'hanno tirata fuori si è scoperto che la ditta olandese che l'aveva costruita era fallita e che l'assistenza tecnica diventava problematica. I motivi di questa moltiplicazione dei pani e dei pesci sono i soliti: malinteso prestigio, clientelismo, appalti. Alle volte si tratta però solo di scollegamento, di mancanza di informazione. Dice il professor Ercole Ferrario: «lo sono stato per cinque anni assessore al Comune di Milano e la cosa che più mi ha colpito è I'assoluta mancanza di coordinamento. Si fanno le stesse cose due o tre volte perché non si sa che sono già state fatte. Gioca qui l'eterno individualismo italiano, per cui ognuno mette le guardie intorno al suo orticello e a quel che ci fa per non far veder niente al vicino». Essere curati bene è questione di fortuna In questa situazione di totale caos, imbroccare l'ospedale giusto, quando se ne ha bisogno, è solo questione di fortuna. Dal punto di vista della validità clinica la mappa ospedaliera di una città come Milano somiglia ad una pelle di leopardo dove le macchie scure fan la parte delle strutture affidabili: ci sono pochi ospedali efficienti e molti inutili e anche all'interno d'uno stesso ospedale la differenza fra un reparto ed un altro è enorme. Bisogna vedere dove si capita. In genere succede, naturalmente, che i reparti più validi siano sommersi da richieste, che vengono anche da altre città e da altre regioni, e che scontino quindi delle gravi inefficienze sul piano dell'assistenza o con sovraffollamenti paurosi come al Beretta Neuro o con liste d'attesa di mesi come all'Istituto dei tumori (dove l' 80% dei ricoverati viene da fuori), mentre invece reparti inefficienti sono ampi, spaziosi, liberi, disponibili. Essere curati bene dipende quindi dall'ospedale, dal reparto, dalla patologia ma soprattutto dalla buona sorte perché nello stesso ospedale e per la stessa patologia si possono avere trattamenti diversissimi. Prendiamo, per esempio, il caso di uno che si sia ferito alla testa in un incidente d'auto: può capitare al padiglione neurochirurgico del Policlinico (il Beretta Neuro di cui abbiamo parlato) e, pur in mezzo al caos più infame, avrà un'assistenza clinica immediata e di prim'ordine, ma può anche fermarsi nella strozzatura del Pronto soccorso del Policlinico. E allora sono guai seri. Racconta Giuliano Sevieri: «Ho dei pazienti che sono rimasti due giorni sulle barelle, nei corridoi del Pronto soccorso del Policlinico, senza mangiare e senza bere, prima d'essere visitati. lo stesso ho dovuto accompagnarci mia madre ed ho assistito a scene indescrivibili. C'era un medico giovanissimo, probabilmente un neolaureato, quando, ai miei tempi, per fare il pronto soccorso bisognava essere tra i migliori, che si aggirava in mezzo ad una ventina di barelle. La stanzetta dove lavorava era un bugigattolo infame. Questi medici cambiano ogni due ore e quindi ogni volta devono informarsi di nuovo sulla situazione. Mia madre è rimasta lì ore. Ma se protesti ti dicono provocatoriamente, “Vuoi fare la denuncia, vuoi fare la denuncia?”. Al Policlinico siamo al limite dell'omissione di soccorso e la gente che ci lavora è la prima ad esserne consapevole». Sono andato al Pronto soccorso del Policlinico per sincerarmi delle parole del dottor Sevieri. Nel reparto donne c'erano cinque vecchiette stese in barella che aspettavano nel corridoio. Sono restate lì, così, senza che nessuno le degnasse di uno sguardo, per tutto il tempo che sono rimasto al Policlinico, cioè un pomeriggio. Cosa sia successo in seguito non lo so. Poi sono passato al reparto uomini. Nel solito corridoio c'era una ventina di persone in attesa, ma solo tre erano in barella. Su una panca un uomo si sosteneva la mano spappolata e sanguinante fasciata alla meglio con un fazzoletto. Ad un certo punto dalla sala operatoria è uscito un infermiere che ha gridato: «Infortuni sul lavoro?». L 'uomo si è alzato e si è avvicinato, sempre tenendosi una mano con l'altra, ed ha detto: «Sono io». «C'è da aspettare tre ore» gli ha detto brutalmente I'infermiere. «Ma come?» ha protestato l'operaio. «C'è una urgenza». «E io? lo non sono una urgenza?». ha detto l'operaio agitando la sua mano sanguinante e, con l'infinita pazienza della povera gente, è tornato a sedersi sulla panca. Sono salito dal professor Staudacher , presidente del Policlinico, che sta dall'altra parte della strada, alla Ca' Granda, proprio di fronte al Pronto soccorso. Avevo ancora negli occhi l'immagine delle vecchiette, dell'operaio sanguinante e della folla dolente accatastata nello stanzone del Beretta Neuro. Vittorio Staudacher è un chirurgo di fama mondiale, un grande umanista, un vecchio signore, affabile e dalla conversazione affascinante. Gli ho chiesto che cosa non funzionasse al Policlinico: «Oh, sciocchezze, ha risposto. «Guardi qua, questo “cahiers de dolceances” che mi hanno mandato: poca pulizia, qualche muro da imbiancare, la maniglia che non funziona, insomma le solite cose».