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Parecchi anni fa quando facevo, o perlomeno cercavo di fare, del vero giornalismo, che è quello sul campo, mi trovavo, per lavoro, in Guinea-Bissau, ospite di una missione cattolica, tenuta da un bravo padre saveriano, Giuseppe Fumagalli, originario di Brugherio alle porte di Milano. La missione si occupava di una tribù del luogo, i Felupe, che vivevano principalmente di agricoltura e in quel periodo il cruccio di padre Fumagalli era che i Felupe si rifiutavano cocciutamente di usare la falciatrice meccanica della missione. Padre Fumagalli se ne lamentava e quasi se ne disperava con me. Non capiva come quella gente potesse rifiutare l’aiuto della falciatrice che fa in tre ore, e senza sforzo, quello che una famiglia Felupe fa, con fatica, in una settimana. Per i Felupe la paglia andava tagliata a mano, col falcetto. “Questa gente – mi diceva padre Fumagalli- ha una cultura totalmente conservatrice, non progressista, gli manca il concetto stesso di progresso, cioè cammino in avanti verso il meglio, verso una vita migliore. Mi ricorda certi contadini del mio paese che, come mi raccontava mio padre, quando a Brugherio comparvero le prime macchine agricole, dicevano: ‘Non permetterò mai che nei miei campi entrino quelle macchine che fanno fumo’. Allo stesso modo quando arrivarono i primi fertilizzanti, molti non li vollero usare. Erano mentalità conservatrici, come ritrovo ancora oggi qui in Africa”.

Eravamo a metà degli anni Settanta e a padre Fumagalli non veniva nemmeno il sospetto, che forse oggi qualcuno comincia a nutrire, che quei contadini potessero avere le loro buone ragioni. Tantomeno ne potevano avere, nella mente di un missionario animato dalle migliori e più pie intenzioni, i Felupe.

Un pomeriggio assistetti a una specie di ‘showdown’ fra padre Fumagalli e il capo dei Felupe. Dopo molte cerimonie, convenevoli e discorsi che giravano intorno alla questione, il Felupe disse: “Per noi la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio, la tua falciatrice distrugge questo equilibrio, perciò non la vogliamo”. Ma poiché padre Fumagalli continuava ad insistere e voleva appioppargli a tutti i costi la sua falciatrice, una notte, per buona misura, gliela incendiarono e la faccenda finì lì.

Oggi è tutto un fervore per “salvare” l’Africa, dalla fame, dalla miseria, dall’ignoranza (l’Africa nera è considerata dalla sociologia politica più avvertita all’ultimo gradino del digital divide che considera il divario fra chi ha la capacità di immagazzinare e possedere conoscenze attraverso gli strumenti dell’informatica). Fra questi progetti c’è il cosiddetto “Piano Mattei” di meloniana iniziativa. A parte il fatto che il “Piano Mattei”, così come altri progetti dello stesso genere, è un modo per rapinare ulteriormente, facendo finta di aiutarli, i Paesi africani delle loro risorse, a me pare evidente che abbiamo messo questi paesi, per usare un espressione tratta dall’alpinismo, in una posizione ‘incrodata’: non possono più tornare indietro, all’‘Africa felix’, al tempo felice dei Felupe o degli Azande, ma se vanno avanti saranno ulteriormente strangolati dal nostro modello di sviluppo, da poveri che sono diventeranno miserabili. C’è una distinzione sociologica fra povero e miserabile. Perché una cosa è essere poveri dove tutti più o meno lo sono, altra è esserlo quando intorno a te prilla una ricchezza sfacciata. Che è una situazione che riguarda non solo l’Africa d’oggi ma tutto il mondo degli emirati.

“Per noi la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio”. Noi quest’antica saggezza l’abbiamo perduta e a farne le spese non saranno solo i poveri e i paesi poveri, ma anche i paesi ricchi e ricchissimi e gli uomini ricchi e ricchissimi che hanno creato un sistema, che per un meccanismo psicologico elementare, non può che portare alla frustrazione perenne. In un mondo così complesso dov’è diventato difficilissimo per tutti orientarsi, questi stanno tagliando il ramo dell’albero su cui sono seduti. Siccome non sono buono, non ho la bontà sanguinaria di Santa Caterina da Siena o di Madre Teresa di Calcutta, riderei a crepapelle se non fossi anch’io seduto sullo stesso ramo dell’albero, a guardare il precipizio, mentre i miei strilli non servano assolutamente a nulla.

Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2023

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L’affluenza alle urne in Italia scende di anno in anno, a volte gradualmente, altre precipitosamente, con una tendenza che pare irreversibile anche se opportunamente occultata da tutti i media del Paese. Foggia, dal 66.74% del 2019 è scesa al 60.38% del 2023, a Monza, per il seggio che fu del fu Berlusconi, ha votato il 19.23%, in Trentino dal 64.05% al 58.39%, in Alto Adige dal 73.9% al 71.5%. Da notare che altrettanto opportunamente viene nascosto il dato delle nulle e delle bianche, cioè di gente che risulta fra i votanti ma in realtà non ha votato. È evidente che c’è una disaffezione degli italiani non tanto verso la politica, ma verso il sistema dei partiti, queste mafie legali che sono le padrone delle nostre vite, grazie anche, proprio come la mafia, ad affiliazioni continue.

Per consolarsi si sottolinea che anche in altri Paesi europei, come la Germania o la Francia, l’affluenza è mediocre. Ma lo è per ragioni diametralmente diverse. I tedeschi, poniamo, si fidano della loro classe dirigente, che poi vinca l’Spd o la Cdu fa lo stesso. Ci si fida della loro onestà, etica, intellettuale e materiale. In Germania nessun parlamento voterebbe mai che una marocchina è un’egiziana. Interessante anche il dato che a Bolzano sono stati eletti solo cinque italiani. Non ci si fida degli italiani quasi sempre corrotti, collusi e comunque familisti, anche l’ottima Meloni non ha potuto sfuggire a queste regole non scritte.

Il fatto è che noi votiamo, quando votiamo, sapendo poco o nulla di coloro che ci vanno a rappresentare. In una grande città come Milano tu non vedi gli uomini politici, non vanno al cinema, non vanno a teatro, non circolano per la città. Quando gli torna opportuno fanno “bagni di folla” con truppe cammellate e addestrate al plauso.

In Italia non si fa che ricorrere a tornate elettorali, politiche, amministrative, regionali. Durante queste tornate qualche candidato viene pescato dalla Magistratura con le mani nel sacco. Apriti cielo, subito i berluscones e non solo loro gridano alla “giustizia ad orologeria”. Famoso, almeno per chi ha una certa età, è il “caso Teardo” del 1983. Teardo, che era stato presidente della Regione Liguria, scaduto il mandato si era presentato alle elezioni politiche. Fu arrestato su mandato dei giudici Del Gaudio e Granero per “associazione a delinquere, concussione, concussione continuata, peculato ed estorsione”. Era il prodromo di Mani Pulite. Si farà dodici anni di galera, ma se non fosse intervenuta la magistratura sarebbe ancora li.

Quel geniale e insieme bizzarro pensatore che è stato Rousseau, che nella prima fase della sua vita fu illuminista e nella seconda anti-illuminista, diceva che l’unica forma possibile di democrazia è quella diretta, che vuole però ambiti circoscritti quale era la Ginevra in cui viveva (per dire della preveggenza di Rousseau nel “Discorso sulla scienza e le arti” prefigura, paro paro, la “società dello spettacolo” che ci ammorba oggi e i pericoli cui può portare la Scienza).

Ma per immaginare una democrazia diretta non è necessario ricorrere a Rousseau. La democrazia è esistita fino a due anni prima della Rivoluzione francese. Cioè la democrazia c’era quando non sapeva d’esser tale. L’assemblea del villaggio decideva tutto ciò che riguardava il villaggio, decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti. Riscuoteva ‘au pied de la taille’, cioè proporzionalmente, i canoni che alimentavano il bilancio comunale, poteva contrarre debiti ed iniziare processi, nominava, oltre i sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani delle messi, gli assessori e i riscossori di taglia. Regole rigorose erano fissate perché gli abitanti del villaggio avessero notizia in tempo utile che era stata convocata un’assemblea. Certo gli abitanti del villaggio, i “villani”, non partecipavano, se parliamo della Francia, ma il sistema era in uso in quasi tutti i Paesi europei ed estremizzato in Islanda (vedi gli scritti di Alain de Benoist), alle grandi decisioni che si prendevano a Versailles. Ma tali decisioni ci mettevano anni per arrivare al mondo contadino, che rappresentava insieme agli artigiani il 90 per cento della popolazione, per cui si può dire che quando arrivavano erano ormai obsolete, e quindi di fatto la comunità di villaggio godeva di un amplissima autonomia. Questo sistema funzionò benissimo fino al 1787, quando, sotto la spinta degli interessi e anche della smania regolamentatrice della borghesia avanzante, un regio decreto stabilì che non era più la collettività del villaggio a decidere autonomamente, poteva farlo solo attraverso esponenti da essa eletti. Era nata la tragedia della democrazia rappresentativa.

Il Fatto Quotidiano, 31.10.2023

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È da un po’ di tempo che i giornali di destra e di sinistra ma in definitiva tutti i milanesi hanno preso di mira Beppe Sala, il sindaco della metropoli. In genere si lamentano disagi materiali, l’estensione della ztl, la mancanza di polizia alla Stazione Centrale, la situazione delle periferie e, soprattutto, il costo della vita che è diventato insostenibile. Disagi materiali, dicevo, perché Milano un tempo cattolica (Sant’Ambrogio) e socialista oggi non è più né socialista né tantomeno cattolica né almeno attraversata da qualcosa che abbia a che fare con la religione o con lo spirituale e il sacro.

Ma di ciò Sala non ha alcuna responsabilità. I fenomeni che hanno portato all’evidenza delle disuguaglianze sociali e allo smodato individualismo vengono da lontano e hanno all’origine la modernizzazione e la sua madre naturale la globalizzazione. Gli Stati Uniti, punta di lancia dell’attuale modello di sviluppo e usi a omologare alla propria way of life ogni cultura, hanno una parte, anche se non decisiva, ma piuttosto marginale, in questi processi. Già nel 1956 Renato Carosone cantava “tu vuo’ fa l’americano”, volendo con ciò dire che gli autoctoni, in questo caso i napoletani, volevano adeguarsi agli stili di vita americani.

Ciò che ha cambiato Milano nel suo habitat, sociale e urbanistico, è l’omologazione che le ha fatto perdere il senso della comunità, che pur aveva avuto nel dopoguerra fino agli anni del boom. Io non conosco non dico i miei coinquilini ma nemmeno il vicino di pianerottolo da cui mi separa solo una sottile parete.

Milano era una città di quartieri in cui ci si conosceva tutti. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, per andare a giocare, e rientravamo alle otto di sera senza che i genitori se ne preoccupassero. Se uno di noi si fosse messo nei guai sarebbe intervenuto un adulto. E poi c’era il ghisa, vigile urbano disarmato, un po’ come il bobby londinese, di solito un bel giovanotto, come si usava dire allora, milanese, che nel quartiere era una autorità assoluta. Ed era pronto ad intervenire per ogni inconveniente: “dillo al ghisa, c’è lì il ghisa, parlane al ghisa”. C’era poi il Commissario di quartiere che, come il ghisa, ci conosceva tutti e sapeva bene dove si potevano nascondere dei pericoli. Pochi anni fa mi citofona la portinaia: “C’è la Polizia”. “Faccia salire”. Erano in due, il poliziotto buono e quello cattivo, come usa. “Dobbiamo fare una perquisizione”. “Fate pure, intanto io torno alla ‘lettera 32’ perché devo mandare un articolo al giornale”. Sono laureato in giurisprudenza, ma quando tocca a me non ricordo nulla dei miei diritti, però ad un certo punto mentre quelli perlustravano la casa, un po’ sbigottiti e resi incerti vedendo la mia libreria, chiesi: “Qual è la motivazione?”. Si trattava di “contraffazione di marchio industriale”. Ora io possa essere sospettato di ogni genere di violenze ma la contraffazione di marchio industriale è la cosa più lontana da me che ci possa essere. Se ci fosse stato il vecchio Commissario di quartiere lo avrebbe saputo e avrebbe evitato ai due pulotti quell’inutile perlustrazione.

Milano, dicevo, era una città di quartieri e ogni quartiere aveva un cine di terza visione (la prima e la seconda le davano in centro). Ogni cine dava durante la settimana il poliziesco, il giallo, l’americanata ma anche un film di qualità. Non era necessario andare all’Orchidea, cinema d’essai, in via Terraggio. Tutta la mia generazione si è educata filmicamente nei cine di terza visione. Era anche un modo per conoscere quartieri meno frequentati, perché ogni quartiere aveva le sue abitudini.

Gli affitti non erano proibitivi. Una giovane coppia, quale eravamo noi, sposati, mi pare nel 1973, poteva scegliere fra una casa piccola ma centrale e una più grande, ad Affori, alla Bovisa, ma comunque pur sempre in città.

La gente che non ha soldi è stata spinta, gradualmente e inesorabilmente, nell’immenso ed anonimo hinterland dove ci sono paesi che del paese hanno spesso solo il nome, hanno il municipio e poco più.

Nella Milano cui mi riferisco, quella degli anni Cinquanta e primi Sessanta a Brera o al Garibaldi si mescolavano ceti molto diversi dal punto di vista economico e sociale. Certo Pirelli abitava in una casa di Caccia Dominioni. Gli altri in case molto più modeste (oggi Brera è diventata un baraccone per turisti scemi). Ma così i diversi ceti si interfecondavano. Poi c’erano i locali, il Giamaica, Oreste dove anche noi ragazzini, o comunque giovanissimi, potevamo incontrare letterati di fama che non si erano ancora trasformati in funzionari di Case editrici e bazzicavano la città. Da Oreste, in piazza Mirabello, dietro al Corriere (ma per fortuna quelli del Corriere non si facevano vedere) incrociai Umberto Eco che mi regalò e mi dedicò Diario minimo che, a parer mio, resta il suo libro più interessante a dispetto dei successi di quelli successivi, perché Eco è sostanzialmente un antropologo sociale e non un romanziere.

Ogni bar, allora, aveva un biliardo. I biliardi, a parte alcuni luoghi per professionisti, sono spariti. Ho chiesto il perché al gestore di un bar che frequento in via Fara: “elementare Watson” mi ha risposto “i biliardi occupano un grande spazio e rendono poco. Le slot, addossate alle pareti, occupano niente spazio e rendono molto”. Ma il biliardo era un modo naturale di avvicinare i giovani e gli anziani. Nel locale interno si giocava d’azzardo, poker, ramino pokerato, tresetteciapàno, senza che ad alcun pulotto venisse la bizzarra idea di venire a ficcare il naso, e se lo faceva si metteva a giocare anche lui.

Giocando a poker, quello vero, non l’insopportabile Texas hold’em, finivamo alle tre o alle quattro del mattino. Potevamo scegliere fra almeno venti locali, quelli di lusso o le bettole più malfamate frequentate dalla “mala” ed erano i posti più sicuri perché lì non doveva succedere niente.

Quando andai ad abitare in via Novara, estremo ovest della città, c’erano ancora gli “orti di guerra”. La campagna si intersecava con la città. Mi ricordo che un omino, che mia madre chiamava l’uomo delle uova, veniva a portarci a casa prodotti agricoli, frutto proprio di quegli orti.

Milano poi, che non è mai stata, a differenza di Torino, una città “mono”, culturalmente e socialmente, aveva infiniti negozietti, le drogherie, le mercerie, i tappezzieri, i fruttivendoli, i macellai, i salumieri, i ferramenta, i casalinghi. Oggi se ho bisogno di un martello devo rivolgermi ad amazon.

Dischi. Una volta c’era il mitico vinile, oggi superatissimo dall’AI. Del resto nei locali trendy, poniamo di corso Como, si vedono coppie impegnate perennemente con i loro smartphone che non si scambiano una parola. Milano è una città di solitudini, individuali e collettive. I vecchi, sempre per ragioni legate al cambiamento urbanistico (i locali sono troppo piccoli per tenerseli in casa), finiscono nelle Rsa. Certo ci sono anche i volontari che vengono a casa quando sei in fase terminale. Se dovesse venirne uno da me, con le residue forze che mi rimangono, lo farei ruzzolar giù lungo le scale.

Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2023

Un articolo sulla costante e, a quanto pare, disaffezione alle urne degli italiani verrà pubblicato domani sul Fatto.

m.f