0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

La novità più interessante del pensiero a Cinque Stelle è il privilegiare, nella scala dei valori, il tempo sul lavoro, di cui il prossimo primo maggio si celebra la Festa (“la festa della nostra schiavitù” come l’ho sempre chiamata io). In epoca preindustriale il lavoro, per dirla con San Paolo, é “uno spiacevole sudore della fronte”. Non è un valore. E’ nobile chi non lavora. Con quel grandioso fenomeno (a parer mio non ancora studiato a sufficienza) che prende il nome di Rivoluzione industriale la prospettiva cambia radicalmente. Sia nella versione marxista che liberista dell’Illuminismo, che cerca di razionalizzare le profonde novità introdotte da questa Rivoluzione, il lavoro diventa centrale. Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stachanov, in realtà uno ‘schiavo di Stato’, è un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberisti è esattamente quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso ‘plusvalore’.

Per me il vero valore della vita è il tempo e l’ho scritto in tutta la mia opera. La novità portata, sia pur in modo saltabeccante, da Grillo, che riprende un’intuizione di Gianroberto Casaleggio, è di aver precisato, con la sua definizione di “tempo liberato”, di quale tempo si stia parlando.

In che cosa si distingue il “tempo liberato” dal più noto tempo libero? Il tempo libero è un tempo sincopato, determinato dai ritmi e dai tempi del lavoro. In realtà non è affatto ‘libero’, ma è destinato al consumo senza il quale tutto il grande castello produttivo che abbiamo costruito, e sul quale si basa l’attuale modello di sviluppo, crollerebbe miseramente. Noi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre, un’aberrante incongruenza che era già stata avvertita da Adam Smith che pur è, insieme a David Ricardo, uno dei padri fondatori di questo sistema. “Dobbiamo consumare per aiutare la produzione”, quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase dagli economisti e dagli uomini politici? Il ‘tempo libero’ quindi non è affatto tale, non solo perché è determinato inesorabilmente dai ritmi e dalle esigenze dei tempi del lavoro e della produzione ma perché deve essere destinato al consumo compulsivo e nevrotico. Milano da questo punto di vista è una buona base di osservazione. Nel weekend i milanesi schizzano via e si catapultano, a seconda delle stagioni, a Cortina, a Saint Moritz, a Gstaad o a Portofino, a Rapallo, al Forte dei Marmi, dove vedono le stesse persone che hanno lasciato in città e si abbandonano agli stessi riti e agli stessi ritmi. Per rientrare la domenica sera più stanchi e sfatti di quando sono partiti. Paradossalmente se la passa meglio chi, per mancanza di denaro, resta in città. E’ “la ricchezza di chi è più povero” per parafrasare un aforisma di Nietzsche capovolgendolo lessicalmente ma mantenendone il senso.

Il “tempo liberato” è invece quello che dedichiamo a noi stessi, alla nostra interiorità e spiritualità, alla riflessione, alla contemplazione, alla creatività disinteressata. E’ un tempo quasi ‘religioso’ (non per nulla sia Wojtyla che Francesco ne hanno fatto a volte cenno) intendendo questa espressione in senso molto lato. E’ quel “pauperismo” che Berlusconi, che sta dalla parte opposta della barricata ma di cui tutto si può dire tranne che manchi di intuito, ha percepito e condannato nel ‘grillismo’ e di cui, probabilmente, nemmeno buona parte dei seguaci dei Cinque Stelle è consapevole.

E’ chiaro che la piena attuazione del “tempo liberato”, a scapito del mito del lavoro, imporrebbe uno scaravoltamento dell’attuale modello di sviluppo, al momento impensabile. Per ora accontentiamoci del possibile: che sia la tecnologia a lavorare, almeno in parte, al nostro posto, senza per questo sbatterci sul lastrico (il “reddito di cittadinanza”, il cui contenuto va naturalmente approfondito e reso economicamente più compatibile, va in questo senso) e non noi a dover lavorare, a velocità sempre più sostenuta, in funzione della tecnologia.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2018

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Siamo alle solite. Dopo la sentenza della Corte di Assise di Palermo che ha condannato gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e Marcello Dell’Utri per essersi fatti interpreti delle richieste della mafia nei confronti dello Stato, la Magistratura è stata investita dalle accuse che sentiamo ripetere da un quarto di secolo, dall’epoca di Mani Pulite: cioè di essere “politicizzata” e niente affatto indipendente come il suo ruolo richiede. Poiché in Italia si sono persi i ‘fondamentali’, per dirla in gergo calcistico, bisogna sempre ricominciare da capo, dal punto e dalla retta.

Nel diritto moderno lo Stato assume su di sé il monopolio della violenza per evitare l’interminabile filiera delle vendette private (la faida dell’antico diritto germanico). In questo schema la magistratura, secondo la classica divisione dei poteri disegnata da Montesquieu, ha il compito di punire i delitti e di giudicare sulle liti dei privati cittadini. Cioè è chiamata a far rispettare la legge così come nel calcio l’arbitro ha il compito di far rispettare le regole del gioco. Naturalmente si può rifiutare questo schema e porsi al di fuori dello Stato, con ciò combattendolo, come fecero a suo tempo i terroristi delle Brigate Rosse che quando venivano incarcerati si dichiaravano “prigionieri politici”. E’ una posizione coerente e logica. Totalmente illogico è invece negare la validità delle sentenze della magistratura quando ci sono contrarie e pretenderne la validità quando sono a nostro favore. Cercherò di spiegarmi con un esempio. Anni fa ero in una trasmissione a confronto con Cirino Pomicino che lamentava di aver avuto una ventina di assoluzioni. “Ma lei ha avuto anche due condanne” dissi. “Ah, ma quelle non sono valide” affermò Pomicino. “Ma allora non sono valide nemmeno le sue venti assoluzioni” replicai. E Cirino Pomicino si zittì. Insomma la funzione dell’arbitro va accettata in toto o negata in toto, non può essere valida a giorni alterni.

Le sentenze della magistratura vanno quindi sempre accettate, tenendo naturalmente presente che, sul piano giudiziario, se si è in primo grado, come nel caso del verdetto della Corte di Assise di Palermo, c’è sempre la possibilità del ricorso in Appello e infine in Cassazione.

Ma se le sentenze vanno accettate per quello che dicono, non vanno nemmeno interpretate a nostro gusto per quello che non dicono. E la Corte di Assise di Palermo non ha sentenziato che Berlusconi, nella sua qualità di presidente del Consiglio, si sia attivato per favorire i desiderata della mafia. E infatti non è stato incriminato per questo, come non sono stati incriminati i suoi predecessori Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. E’ scorretto attribuire a Berlusconi una responsabilità che la magistratura non ha accertato e inoltre offrirgli la possibilità, questa volta con qualche ragione, di fare la vittima. Di Berlusconi ci basta e avanza quello che sappiamo con certezza (la certezza giudiziaria): che è stato condannato in via definitiva per una colossale evasione fiscale e definito dai Tribunali della Repubblica un “delinquente naturale”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2018

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Si moltiplicano gli episodi di studenti, in genere delle prime classi, cioè adolescenti o preadolescenti, che offendono, minacciano, picchiano, umiliano i loro professori. Ma anche di genitori che aggrediscono i docenti. Sono solo le manifestazioni più appariscenti di una questione che solo apparentemente riguarda la scuola e i giovani, o in particolare l’Italia, ma si innesta nella profonda decadenza del mondo occidentale, il suo lento e inesorabile marcire. Dove tout se tient.

1. Il crollo del principio di autorità. Da troppi decenni, direi anzi da un paio di secoli, abbiamo privilegiato la libertà sull’autorità. Ma la libertà è la cosa più difficile da gestire. Del resto l’autorità non esisterebbe da millenni se non fosse necessaria alla convivenza sociale. Lo sapevano molti dei nostri maggiori, da Platone a Dostoevskij, pensatori di cui oggi è perfin difficile immaginare l’esistenza, in un mondo che non pensa più se non in termini scientifici, tecnologici, quantitativi.

2. La graduale scomparsa della famiglia come nucleo essenziale di una comunità, scomparsa che si lega ad un individualismo senza più freni e inibizioni.

3. La necessità assoluta dell’apparire per poter essere in una società dove ci sentiamo tutti omologati, tutti dei ‘nessuno’. Non è certamente un caso che i fenomeni di bullismo, scolastico e non scolastico, non abbiano, agli occhi di chi li compie, valore di per sé ma solo se visualizzati nel mondo globale.

4. Lo strapotere della tecnologia che ha preso il posto dell’umano. Dai robot alle macchine che si guidano da sole a tutto l’enorme complesso dell’intelligenza artificiale. Gli adolescenti poiché più fragili ma quindi anche più sensibili, sono solo la spia più evidente di una tragedia che ci coinvolge e ci travolge tutti.

Rimontare la china, a questo punto, è impossibile. Bisogna lasciare che il corpo malato si decomponga ulteriormente fino a diventare cadavere. Solo allora si potrà ricominciare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2018