0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

31/7. Attacco a Kabul a un compound della polizia afghana vicino all’ambasciata irachena (rivendicazione Isis). 25/8. Attacco alla moschea sciita di Imam Zaman. Venti morti e 35 feriti (attacco Isis). 29/8. Attacco alla filiale della Kabul Bank dove soldati e poliziotti stavano ritirando il salario. Cinque morti e nove feriti. Rivendicato dai Talebani.

Kabul brucia. Per i Talebani e gli jihadisti concentrare i propri sforzi sulla capitale afghana, oltre che un importante valore simbolico ne ha uno, ancor più importante, strategico. Infatti tutte le volte che i Talebani sono riusciti a riconquistare una città di piccole o medie dimensioni sono stati spazzati via dall’aviazione americana che bombarda a ‘chi cojo cojo’, come avvenne a Kunduz il 3 ottobre 2015 dove riuscirono a centrare, con precisione chirurgica, anche un ospedale di Medici senza frontiere, che da quelle parti, e non sul Mediterraneo, ha una funzione insostituibile. A Kabul gli americani e le forze Nato non possono comportarsi con la stessa criminale disinvoltura, non perché colpirebbero sicuramente dei civili (dei civili afghani non gli potrebbe fregar di meno, in sedici anni di guerra ne sono stati uccisi dai 200 ai 300 mila senza che nemmeno Amnesty International osasse emettere un solo lamento) ma sicuramente dei soldati ‘regolari’, poliziotti, spie, infiltrati, Ong, collaborazionisti di ogni genere, imprenditori ‘amici’. Devono quindi agire con più cautela, con uomini sul terreno.

Si è detto che sarebbe in corso un’alleanza fra Talebani e gli uomini di Al-Baghdadi. Un’alleanza in senso stretto non è possibile, allo stato. Perché diversi sono gli obbiettivi dei due movimenti. I Talebani vogliono ridare all’Afghanistan la sua indipendenza. La loro è una guerra ‘laica’. Quella jihadista è una guerra religiosa per piegare al verbo sunnita , in salsa wahabita, il mondo intero. Questo almeno in superficie, perché i motivi più profondi dello jihadismo sono sociali, come ho scritto più volte e come adesso è stato ammesso anche dal Procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni: “L’islamizzazione eversiva di ogni disagio, sia esso sociale, etnico che esistenziale sembra un dato ormai accertato idoneo a collocare in secondo piano persino la stessa conversione religiosa”. Ad obbiettivi diversi corrispondono metodi diversi. I Talebani hanno sempre mirato a colpire obbiettivi militari e politici, risparmiando il più possibile i civili, perché non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione afghana sul cui appoggio si sostiene, da sedici anni, la loro resistenza. Gli jihadisti non hanno nessun a remora a colpire la popolazione, in particolare quella sciita (numerosi sono stati in Afghanistan gli attentati alle moschee sciite durante le funzioni, con centinaia di morti). Faccio notare che nei sei anni e mezzo di governo talebano la consistente minoranza sciita non è mai stata toccata. Nell’Afghanistan del Mullah Omar si poteva essere sunniti, sciiti, hazara e anche laici (Gino Strada era lì con i suoi uomini, e donne, di Emergency). L’importante era che tutti rispettassero la legge. Punto e basta.

Qualcosa però è cambiato nello scenario afghano. I Talebani, pur rimanendo militarmente, socialmente, culturalmente egemoni in tutta la vastissima area rurale del Paese (mentre la presenza dell’Isis, quasi esclusivamente militare, è assai più ridotta) si sono indeboliti. Non è stato facile per loro fronteggiare contemporaneamente gli occupanti occidentali e gli invasori dell’Isis. Inoltre la morte del Mullah Omar è stato un colpo durissimo per il movimento talebano. Omar con l’enorme prestigio che si era conquistato combattendo contro i sovietici, combattendo i ‘signori della guerra’ che avevano fatto dell’Afghanistan terra di assassinii, di stupri, di taglieggiamenti e di ogni sorta di abuso sulla povera gente, riportando la pace e l’ordine nel Paese, governandolo saggiamente, senza inutili ferocie che gli erano estranee e guidando poi per quattordici anni la resistenza agli occupanti occidentali, riusciva a tenere compatto il movimento e coerente con i suoi obbiettivi. I successori non sono alla stessa altezza. Inoltre gli americani, con grande intelligenza, sono riusciti a far fuori, col solito drone teleguidato, il suo ‘numero due’, Mansour, che se non aveva lo stesso prestigio di Omar, appartenendo alla ‘vecchia guardia’ ne condivideva le idee e le linee politiche e militari, che possiamo definire, con tranquilla coscienza, moderate. Quindi molti giovani talebani, che non hanno fatto la resistenza, vittoriosa, agli invasori sovietici, la guerra, altrettanto vittoriosa, contro i ‘signori della guerra’, che non conoscono la rigida etica talebana, così puntigliosamente precisata dal ‘libretto azzurro’ del 2009 del Mullah Omar, più che dalla moderazione della dirigenza talebana sono attratti dalla ferocia senza limiti, ma efficace, dell’Isis di cui vanno a ingrossare le fila. Inoltre molti foreign fighters che hanno perso la partita in Iraq stanno convergendo in Pakistan e in Afghanistan.

C’è quindi un interesse obbiettivo dei Talebani di venire a patti con l’Isis. Per il momento sembra che abbiano smesso di combattersi fra di loro, finendo di fare il gioco dei loro nemici comuni, anche se per motivi diversi: gli occidentali. Ma qualche alleanza ‘tattica’ è probabilmente già in atto. L’ultimo attentato alla Kabul Bank è stato rivendicato dai Talebani ma ha anche modalità Isis (il kamikaze, l’autobomba, il fatto che a ritirare i salari c’erano sì soldati, poliziotti, collaborazionisti, ma anche molti civili afghani).

Un’alleanza strategica è possibile, ma solo sulle basi poste dal nuovo leader talebano, che ha preso il posto di Mansour, Maulvi Haibatullah Akhundzada: “Voi ci aiutate a combattere gli occupanti occidentali, ma con i nostri metodi non con i vostri. Niente obbiettivi civili. Una volta cacciati gli occidentali, noi vi permettiamo di attraversare l’Afghanistan e di entrare in Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan che sono fra i vostri obbiettivi (Progetto Khorasan, con esclusione ovviamente dell’Afghanistan). Vedremo. Speriamo.

Massimo Fini

Il Fatto quotidiano, 1 settembre 2017

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Questi qui sono inesausti. Non dormono di notte. Pensano e, purtroppo, anche fanno. Nei più cupi romanzi di fantascienza qualche scrittore aveva immaginato che un giorno ci saremmo nutriti con delle pillole, mandandole giù come si fa con l’ecstasy. Oggi ci siamo, o quasi.

Bill Gates e Richard Branson (padrone di Virgin), noti benefattori dell’umanità, stanno investendo milioni di dollari in una società, la Memphis Meats, che vuole produrre in modo sintetico bistecche e altre carni animali. Scrive su Dday.it, quotidiano dell’hi-tech, Massimiliano Zocchi: “Carne venduta con il nome degli animali da cui deriva, ma per crearla non è stato ucciso nessun essere vivente perché generata in laboratorio ed ha lo stesso identico gusto e sapore. Questo è quello che promette Memphis Meats, startup di San Francisco”. Dice Richard Branson, entusiasta: “Credo che entro trent’anni non avremo più bisogno di uccidere animali e che tutta la carne sarà prodotta con processi puliti o basata sulle piante, con lo stesso sapore e anche più salutare per tutti”. Memphis Meats è già in grado di produrre carne di tre differenti tipologie, manzo, pollo e anatra, le tre più diffuse negli Stati Uniti. Secondo il CEO Uma Valeti questo processo “consente di controllare al massimo la crescita delle cellule, evitando le tossine e altri sottoprodotti che possono essere nocivi per l’uomo”. Questo processo in laboratorio utilizza cellule di animali, cellule che si autoriproducono, ma soprattutto cellule vegetali. Secondo Zocchi, ma non solo lui, con questo metodo si ottiene “la stessa massa ma con molto meno nutrimento, occupazione di suolo e risorse idriche e ovviamente si eliminano tutte le critiche per la detenzione e la violenza sugli animali”.

La proposta è stata accolta con ululati di gioia da tutto il mondo animalista (l’animalismo è ‘la malattia infantile dell’ambientalismo’). A parte il fatto che nessuno scienziato può garantire che questo tipo di cibo non porti con sé alterazioni pericolose per l’organismo umano, costoro non si rendono conto che ciò vorrebbe dire la scomparsa dalla faccia della terra dei bovini, del pollame e in seguito, poiché il programma della Memphis Meats ha grandi ambizioni, dei suini e degli ovini. Nessun agricoltore alleverebbe più animali da cui non può trarre alcun guadagno. Qualcuno terrebbe forse un paio di mucche o di galline nel cortile. Tutti gli altri sarebbero condannati a una più o meno lenta estinzione.

L’uomo è un animale onnivoro e, come tale, anche carnivoro, e quindi ha il diritto di cibarsi di altri animali come fan tutti i carnivori, senza per questo sentirsi in colpa. Il leone sarebbe molto sorpreso se qualcuno gli venisse a dire che è immorale che sbrani l’antilope.

Invece di architettare di queste scemenze i milioni di dollari che Gates e Branson hanno raccolto (l’investimento non lo fanno solo con i loro quattrini) dovrebbero servire per dare agli animali, prima di finire sulla nostra tavola, un’esistenza meno atroce . Oggi vivono stabulati, compressi in spazi limitatissimi sotto i riflettori 24 ore su 24 per farli crescere più velocemente. E gli vengono malattie che non hanno mai avuto, quelle tipiche dell’uomo: disturbi cardiovascolari, infarto, ictus, diabete, depressione. Certo liberando gli animali, come fanno in Svizzera dove esiste ancora l’alpeggio, ci sarebbe meno terreno per costruire. Il che dice che Gates and Soci, strizzando l’occhio agli animalisti, ai vegetariani, ai vegani, pensano in realtà a ciò cui hanno sempre pensato: il business. Tant’è che questi soggetti, o comunque dei loro compari, hanno accusato le mucche di essere loro, e non il Co2, la vera causa dell’inquinamento, perché scorreggiando emettono metano.

Non ci resta che sperare nell’Isis. Che tagli le gole. Ma quelle giuste.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il guazzabuglio creatosi dopo i fatti di Roma dice in quale confusione, mentale e legale, è precipitata l’Italia dove tutti si sentono autorizzati a mettere becco là dove non dovrebbero (per citare un esempio recentissimo: gli interventi del Papa e dei vescovi sulla questione dello ‘ius soli’ che, comunque lo si intenda risolvere, è una questione interna allo Stato italiano).

I fatti sono noti. Su ordine della Prefettura la polizia deve sgombrare uno stabile occupato abusivamente da quattro anni da migranti. I migranti non ci stanno. Lanciano sassi e pericolose bombole di gas dal decimo piano. La polizia reagisce, come è suo diritto e dovere, con cariche e idranti, senza provocare feriti. Questione di ordinaria amministrazione. E la cosa dovrebbe fermarsi qui. E invece che ci fa in mezzo al guazzabuglio Medici senza frontiere? Medici senza frontiere è la più autorevole delle Ong, meritevole perché opera in pericolosi scenari di guerra, dove volano i bombardieri e ci sono scontri fra le varie fazioni in causa (sia detto di passata: l’altro giorno i droni americani bombardando Raqqa hanno ucciso 41 civili, più o meno tre volte l’attentato jihadista a Barcellona). È in queste situazioni che Medici senza frontiere ha la sua funzione e la sua utilità. Ma che ci sta a fare sul nostro territorio, in Italia che fino a prova contraria è un Paese democratico, sia pure con mille pecche, e che sul piano dell’ordine pubblico agisce, in linea di massima, con metodi democratici? Che ci stanno a fare i preti e alti prelati come Mussie Zerai e il vescovo Paolo Lojudice? Che senso ha zoomare su un funzionario di polizia, che in piena bagarre, in trance agonistica grida ai suoi: “Devono sparire, se tirano qualcosa spaccateglie ‘n braccio” senza che poi nulla di ciò accada? Quella frase ha lo stesso valore di quella di un calciatore che all’ennesimo intervento duro dell’avversario gli dice: “La prossima volta ti spezzo le gambe”.

Siamo quindi d’accordo, una volta tanto, con l’editoriale di Alessandro Sallusti (Il Giornale del 25 agosto) che difende la polizia e la legalità. Solo che Il Giornale ha il difettuccio di difendere la legalità solo quando c’è di mezzo la polizia ma non la Magistratura che della legalità è supremo garante e che invece i berlusconiani – per la notoria criminalità del loro capo e di una parte della classe dirigente che lo sorregge – attaccano costantemente da almeno quindici anni. La legalità va difesa sempre. O mai. Non comunque a fasi alterne.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2017