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Ieri, su Il Giornale della famiglia Berlusconi, il direttore Alessandro Sallusti ha scritto che il pm John Henry Woodcock è “ben spalleggiato una parte della stampa. Non a caso ieri il Fatto Quotidiano (forse già sapendo di quello che sarebbe successo a ore) ha affidato alla penna di Massimo Fini –una volta grande e libero pensatore- un ritratto del pm napoletano così in ginocchio che neppure Paolo Brosio sulla Madonna di Medjugorje riuscirebbe a vergare. Che Massimo Fini, ahimè, si sia bevuto o venduto la testa spiace, ma è un problema suo”.

Ecco la risposta di Massimo Fini.

Non è Marco Travaglio a chiedermi i pezzi, ma sono io a mandarglieli. Il Direttore del Fatto li vede solo dopo. Avresti quindi potuto risparmiarti un’insinuazione partorita esclusivamente dalla tua testa. “Omnia sozza sozzis” verrebbe da dire.

Che la mia testa sia confusa può essere. Invecchiamo tutti male. Ma che tu ti permetta di dire che si è “venduto la testa” a un giornalista che a differenza di tanti, di troppi colleghi, in 45 anni di professione non si è mai legato a partiti, a giornali di partito, a camarille di sorta, come tu stesso di recente hai ammesso in pubblico, è un’offesa così sanguinosa che non può passare. Non ti querelo, come non ho mai querelato nessuno, ho la penna per difendermi e in ogni caso tu saresti graziato dal Presidente della Repubblica come mi pare sia già avvenuto. Ritorniamo ai vecchi metodi con cui un tempo fra gentiluomini si regolavano le questioni d’onore. So bene che il duello è attualmente proibito in Italia. Ma potremmo farlo a riparo da occhi indiscreti. Io scelgo l’arma adatta alla nostra età: la pistola. A te lascio il primo colpo. Accetta. Se sei un uomo d’onore.

m.f.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2017

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Ora possiamo tirare un respiro di sollievo, rilassarci, abbiamo trovato finalmente il responsabile di tutte le malefatte italiane: è il Pubblico ministero John Henry Woodcock. Questo magistrato, attualmente di stanza a Napoli, da cui è partita l’inchiesta sulla Consip, è sotto inchiesta della Prima commissione del Csm, presieduta dal ‘laico’ Giuseppe Fanfani Pd, e per “incompatibilità ambientale” potrebbe essere trasferito ad altra sede, preferibilmente il più lontano possibile dalle Procure che contano ma anche da quelle che non contano perché la sua storia dice che è capace di far danni ovunque.

Prima di occuparci del ‘caso Woodcock’ due parole sul Csm. I nostri Padri costituenti, che uscivano dal periodo fascista, vollero una Magistratura autonoma e totalmente indipendente dal potere politico, ma perché non fosse completamente avulsa dalla società stabilirono che l’organo di controllo sull’operato dei singoli magistrati, il Csm appunto, fosse composto per due terzi da giudici togati, cioè magistrati di carriera, e per un terzo da dei ‘laici’ scelti dal Parlamento fra “professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio”. I nostri ingenui Costituenti non potevano immaginare che la democrazia sarebbe stata sostituita, nel giro di pochi anni, dalla partitocrazia. E così i partiti hanno immesso nel Csm i loro uomini, travestiti da “professori di università e da avvocati”, in modo da poter controllare ed eventualmente innocuizzare magistrati troppo ficcanaso e poco graditi. Mi ricordo il precedente del pretore di Piacenza, Angelo Milana, che verso la fine degli Ottanta, qualche anno prima che iniziasse Mani Pulite, osò fare un’inchiesta analoga a quelle che sarebbero state poi condotte da Di Pietro e dagli altri magistrati della Procura di Milano: arrestò per corruzione due sindaci che erano stati alla guida della città, uno socialista, l’altro comunista, e un importante imprenditore, Romagnoli. Apriti cielo. Si scatenò il finimondo, contro Milana si sollevò tutto ‘l’arco costituzionale’ e non, anche il vescovo di Piacenza scagliò i suoi evangelici fulmini contro l’incauto pretore che fu deferito al Csm che, compiacente o indirettamente colluso, ne propose il trasferimento nella non esattamente vicina Trieste. Angelo Milana era un vecchio magistrato e disse: “Se le cose stanno così, se volete che la corruzione continui a dilagare indisturbata e impunita, sapete qual è la novità? Io me ne vado in pensione”.

John Henry Woodcock è stato, fin dall’inizio, da quando era Pm a Potenza, la ‘bestia nera’ di tutti i poteri forti e meno forti. Ha inquisito politici di ogni colore, imprenditori, banchieri, prosseneti, ‘piquattristi’. Non a caso di origine inglese (lo è il padre), non ha mai rilasciato, che io ricordi, interviste o dichiarazioni pubbliche. Inattaccabile da questo punto di vista, i ‘berluscones’, che lo hanno sempre detestato, non sapendo che pesci pigliare non riuscirono a trovare di meglio che far pubblicare dal giornale di famiglia, Il Giornale, una fotografia del magistrato in sella a una moto, segno evidente e inequivocabile che era un personaggio borderline e inaffidabile. Cosa che ricorda la vicenda di un altro giudice, Raimondo Mesiano, che aveva condannato la gang berlusconiana a risarcire De Benedetti per lo scippo della Mondadori, e che un programma Mediaset pedinò fino a immortalarlo su una panchina mentre fumava una sigaretta e al fondo dei pantaloni gli si vedevano dei calzini di color celeste, segno anche qui inequivocabile di un qualche disturbo mentale.

Naturalmente a Woodcock è stata mossa l’accusa che molte delle sue inchieste sono finite 'nel nulla'. In via preliminare bisogna ricordare a quella massa di ignoranti e deficienti che sono diventati, in ogni settore, gli italiani, che la magistratura requirente e quella giudicante svolgono due funzioni diverse. Il Pm agisce nella fase delicata e inevitabilmente incerta delle indagini preliminari e poi porta le sue ipotesi di reato, con relativi indizi, davanti a un giudice ‘terzo’ che ne valuta, con criteri diversi, che sono quelli propri della magistratura giudicante, l’attendibilità e la validità. Può accadere benissimo che il Pm nella sostanza abbia colto nel segno, che colui che ha ritenuto colpevole sia realmente tale, ma che il Gip o Gup che dir si voglia non giudichi gli elementi raccolti sufficienti per rinviare a giudizio l’indagato. Per anni abbiamo sentito, e ancora continuiamo a sentire, questo refrain: se il Gip o Gup accetta le ipotesi di reato del Pm, allora vuol dire che si è ‘appiattito’ sulla Procura, se non le accoglie è il Pubblico ministero a essere un mascalzone.

Ritorniamo a Woodcock. Se si va poi a ben guardare si vede che le sue inchieste “finite nel nulla” lo sono perché i reati di cui si occupava sono stati nel frattempo depenalizzati o innocuizzati con leggi ‘ad personam’ o ‘ad personas’, o sono caduti in prescrizione, o le sue indagini sono state trasferite.

Il problema dell’Italia non è John Henry Woodcock. Sta nel fatto che nell’ex Bel Paese chiunque, in qualsiasi settore, si metta di traverso agli affari di ‘lorsignori’ deve essere, in un modo o nell’altro, eliminato.

Così mentre Woodcock è sotto inchiesta del Csm, il ‘delinquente naturale’ Silvio Berlusconi condannato in via definitiva per un reato fiscale, scontato con una pena ridicola, e ricondannato, sia pur in primo grado, per aver corrotto con tre milioni di euro il senatore De Gregorio (processo poi finito in prescrizione in appello, ma da cui molto difficilmente avrebbe potuto tirarlo fuori anche il più abile degli avvocati, come fece Franco Coppi che riuscì a convincere la Corte che il funzionario della Questura di Milano, Pietro Ostuni, che ricevette sei telefonate da Parigi dal Cavaliere, allora Presidente del Consiglio, perché affidasse la minorenne Ruby a Nicole Minetti che a sua volta la affidò a una prostituta ufficiale, contro il parere del Pm minorile Annamaria Fiorillo che era l’unico soggetto legittimato a decidere sulla questione, non era stato intimidito ma si era intimidito da solo) e dopo aver ridicolizzato l’immagine dell’Italia, con le sue corna, con le sue gaffe a ripetizione, con la sua inguaribile trivialità, potrebbe ridiventare, con i soliti inciuci, ma legalmente, Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana. E le recenti elezioni amministrative vanno in questo senso.

E ce lo saremo meritato. Perché siamo diventati, oltre che dei furfanti, un popolo di vigliacchi, di asini al basto, di pecore belanti da tosare, incapaci di reagire e di ribellarsi.

L’altra sera sono stato all’Hangar Pirelli di Milano a sentire un concerto di Goran Bregovic, il musicista che ha composto molte delle colonne sonore dei film di Kusturica. E’ un serbo-croato, tosto come lo è tutta la gente dei Balcani. In passato ha composto anche una canzone che è una sorta di inno al kalashnikov. Adesso, invecchiando, si è un po’ acquietato. Ma la sua musica, soprattutto quando entrano le trombe, è sempre trascinante. Tanto che molti dei giovani che erano nella vastissima sala hanno lasciato le sedie per mettersi a ballare. Verso la fine, prima di iniziare una canzone, si è rivolto al pubblico e ci ha chiesto di accompagnarlo. “Noi, prima di entrare in combattimento urliamo un motto –e ce ne ha dette le parole in slavo- Mi pare che da voi si dica ‘All’attacco!’. Bene, quando sentite queste mie parole gridate anche voi ‘All’attacco!’”. Lo abbiamo fatto. Ma il nostro “All’attacco!” era così misero, così flebile, così smorto che bastava, di per sé, a far e a farci capire che non siamo più adatti al combattimento. Possiamo solo ballare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2017

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Nonostante la furiosa e disperata resistenza degli uomini di Al Baghdadi, Mosul e Raqqa, le roccaforti di quello che ai suoi esordi si chiamava ‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levante’, definizione che avrebbe già dovuto mettere in allarme, stanno per capitolare e il Califfato per essere spazzato via dalla faccia della terra. Ma con esso non sparirà la Jihad. Perché la Jihad è un’epidemia, ideologica, sociale, esistenziale, che finora, oltre che in Iraq e in Siria, si è manifestata, sia pur in forme non omogenee, in Libia, in Egitto, in Tunisia, in Algeria, in Marocco, in Somalia, in Mali, nelle Filippine, in Bangladesh, in Pakistan (l’Afghanistan fa storia a sé) e potrebbe contagiare anche gli occidentali propriamente detti (non solo i figli degli immigrati che vivono in Europa e i figli dello ‘ius soli’).

Le ragioni più profonde della Jihad, di questa Jihad, che solo in parte, più in superficie che nella sostanza, appaiono religiose, emergono da uno splendido libro Ma quale paradiso? Tra i jihadisti delle Maldive (Einaudi) non a caso recensito in modo entusiasta dal fisico Carlo Rovelli, che non è proprio l’ultimo della pista, di Francesca Borri, collaboratrice del Fatto e di una ventina di media internazionali, che nonostante la giovane età (37 anni) ma già con una lunga esperienza sul campo, a partire dal Kosovo, è secondo me il migliore inviato di guerra oggi in circolazione, perché ha il coraggio degli storici inviati del Giornale Gian Micalessin e Fausto Biloslavo (per la verità Biloslavo, se fosse per lui, si metterebbe anche a combattere) ma a differenza di costoro, filoamericani e filoccidentali a oltranza, il che nuoce non poco all’obbiettività delle loro corrispondenze del tutto unilaterali, è molto più ‘open mind’, mentre di Lorenzo Cremonesi, l’inviato di punta di Esteri del Corriere, ha la limpidezza nell’esporre ma ci mette una passione che l’altro non dimostra per cui i suoi scritti sono più affascinanti.

Le motivazioni più profonde e più vere della Jihad vengono fuori dai colloqui (Borri non intervista, conversa con gli interlocutori, cerca cioè di capire anche le ragioni dell’’altro’, cosa proibitissima in tutto il mondo occidentale per non dire in Italia) che la giornalista ha con gli jihadisti delle Maldive (circa 300 sono partiti per l’Iraq, per la Siria e per altri luoghi di combattimento).

Nelle Maldive lo jihadismo nasce dai resort. Dice Kinan: “I camerieri, i cuochi, ormai vengono tutti dal Bangladesh, sono tutti immigrati disposti a farsi trattare come schiavi. Mentre per le mansioni superiori, quelle a contatto con i turisti, vogliono solo occidentali. Solo bianchi…Qui accoltelli fino a quando non vieni accoltellato, nient’altro. E per una guerra che non è la tua. In Siria, se non altro, sarei ucciso per una ragione migliore”. Dice Mohamed studente ventenne in partenza per la Siria: “L’Islam è giustizia. Giustizia come è intesa ovunque. Come uguaglianza di diritti e di opportunità…Qui non siamo cittadini. Siamo mendicanti”. La Jihad è una questione innanzitutto sociale, oltre che esistenziale, il tentativo di recuperare una dignità perduta. Un combattente di Aleppo, parlando con la Borri aggiunge: “La sicurezza non viene dalle armi, è inutile. Viene dalla giustizia. Oggi nel mondo una minoranza della popolazione possiede tutto. Quanto sarà? Il 10%? E però voi non è che pensate che il mondo così non può funzionare: pensate che volete essere in quel 10%. Poi dici a me violento. Non siamo mica più brutali di altri. Per niente. Avessimo i droni, staremmo anche noi ad abbattervi con il telecomando. Senza mezzo schizzo di sangue. In fondo voi volete liberare noi. E noi vogliamo liberare voi”.

Il grande reportage della Borri, che parla dal campo, conferma un’intuizione che, da qui, avevo avuto in due pezzi pubblicati dal Fatto, il primo del 29.6.2016 intitolato Califfo in salsa marxista, il secondo del 5.3.2017 che concludevo con queste parole: “Io leggo l’Isis, in ultima istanza, come una guerra che i popoli poveri, o almeno una parte di essi, stanno muovendo a quelli ricchi”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2017