0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

L’estate si avvicina minacciosamente. “La vecchiaia inizia quando l’estate invece che una promessa di felicità diventa una preoccupazione” ho scritto nel mio libro Il ribelle dalla A alla Z. Per me, quando ero ragazzo, l’estate e il mare hanno sempre coniugato la parola proibita: felicità. E questo sentimento era comune ai miei coetanei. Sto rimettendo a posto i miei ‘45 giri’ (vinile purissimo). Quasi tutte le canzoni d’amore dell’epoca sono ambientate d’estate al mare (Sapore di sale di Gino Paoli, Una rotonda sul mare di Fred Bongusto, Abbronzatissima di Edoardo Vianello sono solo alcuni degli infiniti esempi che si potrebbero fare) oppure la rimpiangono o l’attendono con ansia (“Come un giorno di sole fa dire a dicembre/l’estate è già qui” canta Patty Pravo).

Per i vecchi l’estate cambia completamente di segno. Le passioni d’amore, con i loro struggimenti, sono ormai alle spalle da tempo o se qualche traccia ne rimane è talmente affievolita da non avere più nulla a che vedere con l’età in cui le slacciavamo, con dita tremanti, i bottoni della camicetta.

Ma la questione non è questa. Sta nel fatto che l’estate acuisce tutti i problemi, drammatici, anche se occultati da una Scienza e da una pubblicistica ingannevoli e non innocenti, della tetra vecchiaia e al cui centro, almeno in Occidente, sta la solitudine.

In Europa solo il 3,5 % dei vecchi vive con i propri figli e i propri nipoti. Però d’inverno, e nelle stagioni contigue, i figli, a meno che non si siano avventurati in qualche altra regione del mondo, rimangono in città, ti restano in qualche modo vicini, qualche volta ti permettono di portare i nipotini ai giardini e di non stare perennemente a guardare, come un babbeo, con le mani incrociate dietro la schiena, i ‘lavori in corso’, malvisti dagli operai che hanno il loro daffare. Ma d’estate i figli e i nipoti se la filano in vacanza. Anche i vicini se ne vanno. E la tua casa piomba in un silenzio tombale. Rotto solo dalle sirene delle autoambulanze che si fanno più acute perché anche la città, con meno macchine, è più silenziosa. E i vecchi rabbrividiscono. Perché, per un singolare paradosso, non sentono il caldo, si disidratano e muoiono. Questo lo sanno, cercano di bere anche se non ne sentono l’esigenza, ma a ogni suono di sirena pensano: la prossima volta potrebbe toccare a me. Non è nemmeno un caso che sia proprio l’estate la stagione in cui gli psicolabili danno maggiormente in escandescenze.

Ma il killer più pericoloso resta la solitudine. Secondo una recente ricerca la solitudine uccide più di 15 sigarette al giorno. Non si tratta naturalmente della solitudine per scelta che è quella che puoi fare da giovane, traendone anzi un sottile piacere anche perché sai che puoi interromperla in ogni momento. Ma la solitudine dei vecchi non è una scelta, è una condizione sociale. Ed ecco che allora bisogna darsi da fare, trovare qualcuno, uno qualsiasi, con cui passare e “ammazzare il tempo” essendo consapevoli che è il Tempo che sta ammazzando noi e che stiamo spendendo malamente gli ultimi spiccioli che ci restano.

Terribile, veramente terribile, è la condizione del vecchio nella società moderna. Un tempo viveva in una famiglia allargata, circondato dall’affetto dei numerosi figli e degli ancora più numerosi nipoti, delle zie rimaste nubili che non mancavano mai e accudito dalle donne di casa per il tempo, fortunatamente breve (la medicina tecnologica non si era ancora inventata l’accanimento terapeutico) in cui non era più in grado di badare a se stesso. Nella società contadina, a prevalente tradizione orale, il vecchio era il detentore del sapere, rimaneva fino all’ultimo il capo della famiglia, conservava un ruolo e la sua vita un senso. Nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale e ancor più in quella digitale è un relitto. E il suo avvilimento è aggravato da quell’istituto crudele che solo la razionalità moderna poteva creare, la pensione (“E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”). Perso da un giorno all’altro il ruolo sociale, per quanto modesto, che aveva avuto nella vita non gli resta che attendere la morte e sollevare così la società da un peso divenuto intollerabile. L’estate provvederà a un salutare sfoltimento dei ranghi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2017

    

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

L’Isis ha già vinto la partita. Non quella di Champions, dove il Madrid ha surclassato una Juventus inerte, fiacca, intimorita, quasi una metafora dell’Italia di oggi, ma la sua. Ora non ha più nemmeno bisogno di sacrificare un kamikaze e neppure di sparare un colpo di kalashnikov o di far balenare i coltelli. E’ riuscito a instillarci una tale paura che provvediamo noi a distruggerci da soli. Quanto è avvenuto in piazza San Carlo a Torino, con più di 1500 feriti, almeno tre ricoverati in codice rosso, è molto più grave, dal punto di vista qualitativo e del significato, di quanto nello stesso giorno avveniva a Londra per due attentati terroristi, dove pur i morti sono stati sette e i feriti 21, tutti gravi. Le scene di isteria collettiva che si son viste a Torino sono state impressionanti. Ora basta un botto, o anche semplicemente che qualcuno abbia l’impressione di aver sentito un botto, che si scatena il panico. E il panico è incontrollabile. Tu puoi anche rimanere freddo, freddissimo, aver capito che non è successo nulla, ma se rimani al tuo posto vieni investito dall’orda urlante e ti devi mettere a correre anche tu, diventandone a tua volta parte. Si sono viste, a Torino, persone urlanti che calpestavano senza pietà coloro che erano caduti a terra, bambini compresi, mentre l’altoparlante continuava grottescamente a dare la cronaca della partita. Per la verità un’eccezione c’è stata: un uomo che aveva visto un bambino a terra, sul punto di essere calpestato, si è messo a gridare “C’è un bambino! C’è un bambino!” e ha cercato di fermare in qualche modo l’orda, ma era un nero, non un italiano.

E’ il benessere che ci ha tolto, a noi europei, a noi occidentali, ogni coraggio. Siamo attaccatissimi alla pelle, alla nostra miserabile pelle. E non siamo disposti a metterla ‘a rischio’ in alcun modo e in alcun campo. Si potrebbe cominciare dal terrorismo della medicina preventiva. Dobbiamo avere sempre tutto sotto controllo. Vaccini contro dodici malattie, alcune delle quali, come il morbillo o la varicella, da sempre considerate innocue, sono un’assurdità. Siamo indotti a sottoporci almeno a cinque o sei controlli ‘di routine’ l’anno, anche quando siamo sanissimi. Siamo costretti a vivere da vecchi sin da giovani. I nostri ragazzi –tranne quelli delinquenti, meno male che esistono- giocano alla guerra sulle playstation, si beano davanti ai tanti film che mostrano stermini virtuali, molti dei quali trasmessi da Sky, ma se fossero messi davanti a un pericolo reale si vedrebbe di che pasta son fatti: dei vigliacchi incapaci di tenere i nervi a posto. E i fenomeni di bullismo e di sadismo, cibernetici o reali, vanno in parallelo e ne sono una conferma. Il sadico è un vile che esercita la sua violenza solo quando sa di essere al sicuro. Come scrive De Sade, che se ne intende, nelle Centoventi giornate, il Duca di Blangis, uno dei più feroci aguzzini della compagnia, “ si sarebbe fatto spaventare da un bambino un po’ deciso e, quando non poteva usare l’astuzia e il tradimento, diventava timido e vile”.

Ho notato che tutti coloro, o quantomeno la maggior parte, che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale, non necessariamente combattendola, almeno quelli che ho fatto in tempo a conoscere, hanno i nervi molto più saldi dei nostri, nonostante i traumi che hanno dovuto subire o, forse, proprio grazie a quelli. Quando si rischia ogni giorno la vita si è più capaci di accettare la morte, a volte anche con una certa noncuranza. Mi raccontava mio padre, che non era un uomo particolarmente coraggioso, che durante un bombardamento angloamericano su Milano si stava facendo la barba prima di andare in ufficio (le donne e i bambini erano stati ‘sfollati’ sulle prealpi del lago di Como o di Lecco, mentre i mariti, cioè gli uomini, che allora esistevano ancora, erano rimasti in città a lavorare) e lui, senza scomporsi, continuò a farsi la barba.

Noi oggi siamo timorosi di tutto. Degli spifferi e degli incroci. Chiamiamo i temporali “una bomba d’acqua”. Ci spaventiamo per un nonnulla.

Ecco perché l’Isis ha già vinto la partita. Con un petardo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2017

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

I Talebani non solo si sono dissociati dall’attentato del 31 maggio a Kabul che ha causato più di 90 morti e 400 feriti, tutti o quasi tutti afgani, ma lo hanno condannato senza se e senza ma. L’Isis lo ha invece rivendicato. Non è la prima volta che ciò accade. Il precedente più noto è quello dell’attentato nel dicembre del 2014 a un Istituto scolastico a Peshawar frequentato dai figli dei militari pachistani. Ma ci sono state molte altre occasioni di questo genere.

In Occidente non si è capito (qualche refolo arriva solo ora, vedi il pezzo di Curzi sul Fatto del 1° giugno) che Talebani e Isis non hanno niente a che vedere fra di loro, che anzi sono totalmente avversari. Per molte ragioni. Primo. I Talebani del Mullah Omar, finché è rimasto in vita, non sono affatto quei “tagliagole” che sempre ci è piaciuto descrivere. Sono musulmani ma non sono arabi, appartengono a un antico popolo tradizionale. Secondo. I Talebani conducono da 16 anni una legittima guerra di indipendenza contro gli occupanti occidentali. Non colpiscono i civili non solo perché non sono tagliagole ma perché non hanno nessun interesse a inimicarsi la popolazione il cui sostegno rende possibile la loro resistenza più che decennale. Terzo. Sono almeno quattro anni che i Talebani si battono contro l’Isis sia nelle regioni ai confini fra Afghanistan e Pakistan sia all’interno dell’Afghanistan. Decisivo in questo senso è l’ultimo atto del Mullah Omar: una lettera aperta del 16 giugno 2015 diretta ad Al Baghdadi in cui il Mullah intimava al Califfo di non cercare di penetrare in Afghanistan perché la guerra di indipendenza afgana è un fatto interno e non ha nulla a che vedere con i deliri planetari dell’Isis. In seconda battuta il Mullah Omar ammoniva il Califfo: “Tu stai dividendo pericolosamente il mondo musulmano”. E infatti durante i sei anni del governo talebano (1996-2001) non c’è stata alcuna persecuzione nei confronti delle minoranze religiose, sciiti, hazara, uzbeki. In quanto ai tajiki di Massoud, che non si rassegnava alla sconfitta, erano stati ricacciati nel Panshir. Almeno questa lettera, che solo io sul Fatto ho pubblicato, avrebbe dovuto aprire gli occhi all’Occidente. I Talebani diventavano oggettivamente nostri alleati in funzione anti Isis. Invece abbiamo continuato stolidamente a combatterli e loro a rispondere con i tradizionali metodi della guerriglia. Tutto ciò ha provocato il rafforzamento dell’Isis in Afghanistan. Stretti fra gli occupanti occidentali e gli uomini dell’Isis i Talebani, pur sempre egemoni nella vasta realtà rurale del Paese, hanno dovuto cedere posizioni soprattutto nelle città o attorno alle città, principalmente a Kabul. Inoltre, soprattutto dopo la morte di Omar che con il suo indiscusso prestigio teneva insieme il movimento talebano, molti giovani talebani sono stati attratti dal Califfo che con i suoi metodi brutali era riuscito a fare ciò che a Omar era costato quindici anni di guerriglia. Parte di quanto scrivo oggi e vado scrivendo da anni è ammesso dallo stesso Curzi: “Pur nella follia della loro dottrina, gli ‘studenti’ portano avanti da anni una battaglia ben precisa con gli apparati interni: nessun obbiettivo civile, solo attacchi contro polizia, esercito e amministratori afgani”. Che la dottrina dei Talebani sia una “follia” è un’opinione. Quel che è certo è che non si occupa per 16 anni un Paese, dopo averne abbattuto a suon di bombe un governo, quello talebano, che aveva riportato in Afghanistan l’ordine e la pace, per la prima volta dopo l’invasione sovietica e il conflitto civile fra i ‘Signori della guerra’, solo perché non ci piace la sua ideologia, come invece abbiamo fatto noi occidentali, americani in testa.

Ultimamente si assiste a una riscossa talebana. Lo scorso aprile un commando talebano ha attaccato una caserma del Corpo d’armata afgano nella provincia settentrionale di Balkh uccidendo, secondo Tolo Tv, 256 soldati. Ma, sempre recentemente, ci sono stati altri attacchi talebani sia pur meno clamorosi. Come si spiega? I russi hanno riconosciuto ufficialmente che i Talebani sono un legittimo movimento politico e militare e probabilmente forniscono loro armi. Perché lo hanno fatto? Perché sono meno idioti degli occidentali. Hanno capito che se Isis sfonda in Afghanistan poi si espande in Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan (progetto Khorasan dell’Isis che comprende anche il Pakistan) tutti Paesi con forti componenti musulmane, e il terrorismo jihadista si avvicinerebbe pericolosamente a Mosca.

Come si esce da questa situazione? E’ assolutamente inutile, anzi estremamente dannoso, continuare ad addestrare i militari afgani fedeli al governo fantoccio di Ashraf Ghani. Lo stiamo facendo da 16 anni e non ne abbiamo cavato nulla. I militari dell’esercito ‘regolare’ afgano, tagiki a parte, sono dei poveri ragazzi disoccupati (durante il governo del Mullah Omar la disoccupazione era dell’8%, oggi è al 40) che entrano nell’esercito senza nessuna convinzione, riluttanti a sparare su dei loro connazionali e solo per avere un salario. Appena possono se la filano. Ogni anno per tot giovani afgani che entrano in questo esercito fantoccio altrettanti ne escono.

La sola soluzione è che gli occupanti se ne vadano dall’Afghanistan invece di portarvi nuove truppe come aveva preannunciato Obama e come sta per fare Trump. In questo modo i Talebani che hanno un’esperienza di guerriglia lunghissima (quelli di generazione più antica hanno combattuto i sovietici) superiore a quella dell’Isis, e un coraggio non minore, potrebbero sconfiggere gli uomini di Al Baghdadi.

C’è però un ma. Mettendo afgani contro afgani gli occupanti occidentali hanno posto le premesse per una nuova guerra civile. La struttura della popolazione afgana è fatta a clan: se tu uccidi mio fratello io devo uccidere tuo fratello. Se ci fosse ancora il Mullah Omar, con la sua saggezza, con la sua moderazione, con il suo prestigio, avrebbe potuto forse comporre le reciproche ostilità che si sono create nel frattempo. Ma il Mullah è morto fra il giubilo ‘folle’, demente, degli occidentali.

Se una nuova guerra civile ci sarà vorrà dire che gli occidentali saranno riusciti a far ritornare l’orologio della Storia dell’Afghanistan al 1992 quando Dostum, Ismail Khan (oggi al governo), Gulbuddin Hekmatyar e il molto apprezzato Massoud si combattevano per conquistare il potere lasciato vacante dai sovietici, assassinando, stuprando, taglieggiando e, come disse il Mullah Omar, “compiendo ogni sorta di abuso, di sopruso e di violenze sulla povera gente”. Il che diede origine, e ragione, alla rivolta sua e dei suoi ragazzi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2017