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Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano dell’ 8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei Paesi che non rientrano nel circolo buono delle Democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili.

Al primo posto sta, per antonomasia, ‘a prescindere’, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan.

Sarò più pazzo di lui ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto col suo Paese nel famigerato ‘Asse del Male’. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti iraniana e anti curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più, al contrario l’Iran degli Ayatollah è uscito dall’ ‘Asse’ perché dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’ ‘Asse del Male’ non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo Paese comunista rimasto al mondo. È criminale oltre che folle essere comunisti? Per decenni, almeno fino al collasso dell’Urss, pregiati e stimati leader politici occidentali, italiani, francesi, tedeschi, appartenenti all’area della sinistra europea sono stati comunisti – alcuni ancora lo sono – senza che li si considerasse né criminali né folli. La Corea del Nord è circondata da Paesi ostili, alcuni nucleari e anche quelli che nucleari non sono, come la Corea del Sud, è come se lo fossero perché sono di fatto un protettorato della più grande Potenza atomica del mondo. È così strano, così criminale, così folle che la Corea del Nord voglia farsi un armamento nucleare peraltro minimo e ridicolmente inefficiente, come deterrente per non essere spazzata dalla faccia della terra dal primo che abbia la voglia di farlo?

Il venezuelano Maduro, eletto democraticamente, è quotidianamente sotto il fuoco incrociato delle Democrazie occidentali, non, come si afferma, per i suoi eccessi nella repressione degli oppositori (altri Paesi nostri alleati fanno ben di peggio) ma perché è erede dello chavismo che è stato il tentativo, per qualche tempo riuscito, di sottrarre i Paesi del Sud America, più efficacemente di quanto non avesse fatto Fidel, al soffocante abbraccio dell’ ‘amico americano’.

Putin è un autocrate criminale, responsabile insieme a Eltsin e al molto venerato Gorbačëv del genocidio ceceno, fa sparire, in un modo o nell’altro i suoi oppositori, ma non è affatto un folle. La sua politica di appeasement con i Talebani afghani, che l’Isis lo combattono, lo dimostra. Perché se l’Isis sfonda in Afghanistan poi può dilagare in Turkmenistan, Tagikistan, e altri Paesi con forti componenti musulmane che potrebbero diventare un serio pericolo per Mosca.  

Erdogan è effettivamente il peggiore di tutti. Come scrive Colombo “il numero delle persone arrestate e tuttora detenute è troppo alto per essere compatibile con una pur crudele normalità”. Peccato che Erdogan sia un nostro alleato e membro della Nato.

Fra gli ‘imperatori folli’ Colombo non inserisce, pudicamente, il generale Abd al-Fattāḥ al-Sīsī che, per giunta e a differenza di Erdogan non è stato democraticamente eletto, ma è autore di un colpo di stato in cui ha messo in galera tutti i dirigenti dei Fratelli Musulmani vincitori delle prime elezioni libere in Egitto, ne ha ammazzati, per ora, circa 2.500 e ne ha fatti sparire 4.000 di cui ci siamo accorti solo quando è stato ritrovato il cadavere del ricercatore dilettante Giulio Regeni (diciamolo: non si va nell’Egitto di al-Sīsī a fare un’inchiesta sui ‘sindacati indipendenti’). Ma l’Egitto è da moltissimi anni un alleato degli americani che lo foraggiano e lo armano e tanto più lo è ora al-Sīsī che l’imprudente Matteo Renzi, con la sua solita impudente leggerezza si è spinto a definire “un grande statista”.

I leader delle Democrazie occidentali non sono folli. Si chiamino Bush padre, Bush figlio, Clinton, Obama, Hollande, Sarkozy si presentano bene, ingiacchettati e incravattati. Sanno stare in società. Hanno modi gentili. Sono affidabili. Però da vent’anni a questa parte, perlomeno dall’attacco alla Serbia del 1999, si sono resi responsabili di cinque guerre di aggressione (Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, intromissione, con i russi e i turchi, nella guerra civile siriana) che hanno causato, direttamente o indirettamente, più di un milione di morti civili e altri ne continuano a causare insieme a migrazioni bibliche. Non sono folli. Sono semplicemente dei criminali, o se si preferisce, dei terroristi di stato.

È la solita storia. Noi siamo il Bene per definizione, gli altri, di conseguenza, il Male. I nostri sono eserciti regolari, quelli degli altri sono ‘orde’. I nostri nemici non appartengono mai alla categoria dello iustus hostis, ma sono sempre dei terroristi. Quando li facciamo prigionieri non gli riconosciamo lo status di ‘prigionieri di guerra’ e li trattiamo come criminali (vedi Guantánamo e Abu Ghraib).

Forse dovremmo smetterla con questo doppiopesismo ipocrita e un tantino ripugnante. A mio avviso il vero folle è chi considera tutti gli altri ‘folli’.

 

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2017

 

 

            

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Secondo una ricerca di Sergio Dugnani, docente di Scienze del Movimento all’Università di Milano, in prima media due ragazzi su tre non sono in grado di fare una capriola. Per Annalisa Zapelloni, decano dei docenti di educazione fisica romani, mancano in moltissimi giovani, non più bambini, la forza delle braccia e il senso dell’equilibrio. “Vedo ragazzini in difficoltà se chiedi loro di saltare a piedi pari una riga disegnata sul pavimento. Non sono disabili: semplicemente non l’hanno mai fatto”.

Com’è possibile in un’epoca che ha fatto della cura del corpo un cult e quasi un’ossessione? Dice la Zapelloni che ciò è dovuto alla scomparsa del “gioco di strada”. Che a sua volta è conseguenza delle strutture che hanno assunto le nostre città, grandi, medie, ma anche piccole, dove non ci sono più spazi liberi e non regolamentati. Ai tempi miei, di bambino e adolescente degli anni Cinquanta, per noi ragazzi milanesi c’erano immensi terrain vague anche grazie ai bombardamenti anglo americani. Noi ci giocavamo a calcio, a correre a chi arriva primo, a guardie e ladri e, dividendoci in bande, facevamo a cazzotti che a quell’età non possono fare un gran male perché i pugni sono leggeri, al massimo ne uscivi con un labbro spaccato o col classico ‘occhio nero’ (onta da nascondere ai padri non perché si era fatto zuffa, ma perché voleva dire che le avevi prese). Le bambine avevano giochi più quieti. Ma col ‘pampano’ devi almeno essere capace di saltare con un piede solo, tenendoti in equilibrio, una serie di righe, segnate col gesso, e chinarti per raccogliere il sasso gettato sempre più lontano. E poi, senza distinzione di sesso, di ‘genere’ come si dice adesso con un termine che trovo raggelante, si giocava a prendersi, a nascondersi, a ‘palla prigioniera’, a ‘palla avvelenata’, ai ‘quattro cantoni’. Era insomma un allenamento inconsapevole, un’educazione fisica naturale. La strada era poi una scuola di vita, dove si imparava a conoscere gli altri e se stessi: la lealtà, la slealtà, il coraggio (ma questo è un altro discorso anche se tout se tient).

Oggi i bambini e i ragazzini hanno perso quello spazio che noi avevamo in abbondanza. Al posto della campagna, che fino agli anni Cinquanta penetrava ancora nelle città, hanno il famigerato ‘verde’ che non si può toccare, quando non i ‘boschi verticali’ dove gli alberi sono impiccati alle facciate dei grattacieli (i boschi, per quanto ne so io, uomo del pleistocene, sono fatti per camminarci dentro). Milano ha pochissimi parchi, anch’essi peraltro di fatto impraticabili, ma le lussuose case del centro hanno tutte, all’interno, uno splendido giardino, però i regolamenti condominiali vietano ai bambini di giocarci: troppo rumore, troppe risa, troppe grida che invece di rallegrarli disturbano i vecchi rincoglioniti. Mettiamoci anche l’apprensione delle ‘mamme’ che appena vedono il loro figlioletto fare un gioco un po’ ardito vanno in catalessi e la fine della leva militare obbligatoria ed ecco che abbiamo generazioni di giovani debosciati, giovani che con tutte le loro preoccupazioni salutiste sono già vecchi. Dice Mario Bellucci, autore di uno studio sulla questione: “Tanti quindicenni non sanno andare in bici. Di correre non se ne parla, il camminare è ridotto a pochi metri al giorno. La loro muscolatura è così poco tonica da creare problemi di postura: dopo pochi minuti in piedi devono sedersi. Sono stanchi”. Giovani privi di forza fisica o della capacità di usarla. Non è ammissibile che un uomo della mia età, che non ha certo la struttura di Mike Tyson, batta regolarmente a braccio di ferro ragazzi poco più che ventenni.

La mancanza di spazi di libero gioco si lega, come concausa e conseguenza della scarsa efficienza fisica dei bambini e dei ragazzi delle nuove generazioni, all’irrompere nella loro vita della playstation e di tutto il mondo digitale che vi gira attorno. Stanno ore e ore, immobili, seduti sul divano, a trafficare con questi aggeggi che offrono loro ogni tipo di divertimento virtuale ma non l’azione fisica. Una mia vicina di casa ha un figlioletto di sei/sette anni. Ogni tanto i due vengono a trovarmi. E io dico al bambino: “Dai, giochiamo a nasconderci, a prenderci, a mosca cieca” e, scherzosamente, aggiungo “con me non hai neanche bisogno di bendarmi”. Ma vedo che non è contento. Ha voglia di tornare al computer.

E’ comico, se non fosse tragico, che esista un ‘centro di rieducazione motoria’ per bambini e ragazzini. Mi suona come quei centri per la rieducazione dei rapaci, aiutati a ridiventare dei serial killer. La felicità di un bambino è correre. La necessità di un rapace è uccidere. Se il bambino non sa correre e il rapace non è in grado di uccidere, il primo non è più un bambino e il secondo non è più un rapace.

Naturalmente molti genitori –almeno quelli che possono permetterselo- per impegnare il tempo dei loro figli li mandano a scuola di tennis, di nuoto, di calcio. Ma è una cosa molto diversa dal movimento naturale e spontaneo del gioco da strada. Per parecchi motivi. E’ eterodiretto. Stimola solo certi muscoli e certe articolazioni e non altre. E può essere persino controproducente, perché oggi si ha la tendenza a professionalizzare fin da subito i bambini e i ragazzini con la speranza che dal mucchio esca qualche campione. Giocare liberamente seguendo il proprio istinto è una cosa, fare movimenti forzati e obbligati in un’età prematura è un’altra. Nelle scuole di calcio, magari sponsorizzate da grandi squadre, ho visto bambini sviluppare seri problemi alle anche, ai legamenti, ai tendini.

Anche noi facevamo, a volte, dei giochi statici. I tappi di bottiglia, i ‘tollini’, solo per fare un esempio fra i tanti possibili, erano l’ideale per simulare Giri d’Italia, Tour de France, partite di calcio. Ma questi giochi ce li inventavamo da noi e questo sviluppava la nostra fantasia. E anche se sembra non c’entrarci col problema della capacità motoria, in qualche modo vi si ricollega.

Io sono divorziato da quando mio figlio aveva sette anni. A weekend alterni veniva a casa mia. Se non potevo occuparmi di lui perché avevo da scrivere, se ne stava nella sua stanzetta. Un pomeriggio venne da me e mi chiese, sconsolato: “Papà, come facevi tu a inventarti tanti giochi?”. La playstation non esisteva ancora, ma in ogni caso i giochi eterodiretti cui era abituato, come tutti i suoi coetanei, avevano tarpato le ali alla sua fantasia.

Ma anche se le ricerche sulla forma fisica degli studenti, piccoli e meno piccoli, sono focalizzate sul nostro Paese, il problema riguarda tutto il mondo occidentale propriamente detto. Gli americani, bambini o adulti, sono obesi. Nel complesso, complice certamente anche la mancanza dell’esercizio fisico praticato in modo naturale fin da bambini, ma non solo, nella società del benessere, dove le macchine e gli algoritmi fanno tutto al nostro posto, impigrendoci, infiacchendoci, fisicamente e spiritualmente, è la vitalità che ci è venuta meno. Per restare in Europa: se c’è una rapina in banca non è mai un locale a reagire, ma un serbo, un rumeno, un nero.

Non possiamo poi meravigliarci se poche migliaia di guerriglieri dell’Isis, che certamente non hanno problemi motori, tengono in scacco centinaia di milioni di occidentali superarmati ma incapaci di saltare una siepe.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2017

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Credo che noi siamo in una situazione molto simile a quella in cui dovettero trovarsi a vivere i Romani nei decenni che precedettero il crollo dell’Impero. C’è nell’aria un ‘sensus finis’, un’assenza di speranze, collettive e individuali, uno sfinimento, uno sfibramento, una mancanza di vitalità, un sentimento di impotenza. Che sono i classici segni di un mondo in decadenza.

I ‘barbari’ sono alle porte, molti sono già dentro le mura, premono, come ai tempi dell’Impero, ai nostri confini. I Goti, i Burgundi, i Franchi, i Vandali poterono averla vinta sulle ben più potenti e organizzate armate romane, fino a conquistarne la Capitale, riducendola ai tempi dei Lanzichenecchi a 37 mila abitanti, perché nei secoli precedenti, l’Impero e le sue strutture istituzionali e mentali erano state corrose da un tarlo che si chiamava cristianesimo. Invano gli imperatori, da Diocleziano in poi fino all’ultimo e disperato tentativo di Giuliano l’Apostata, avevano cercato di estirpare, con la repressione e la violenza, questo tarlo. Il mondo pagano, corrotto fino al midollo proprio a cagione della propria potenza, verrebbe da dire della Superpotenza, non poté nulla contro un’ideologia che portava in sé valori fortissimi e nuovi. Ma solo parzialmente nuovi perché originavano dal giudaismo. Insomma il cristianesimo rimaneva un fenomeno mediterraneo che non partiva dal nulla e non veniva dal nulla. Perciò nel giro di pochi secoli il cristianesimo poté avere di fatto la meglio sul mondo germanico, apparentemente vincitore, convertendolo a sé com’è documentato dai canti dell’Edda. Alle quasi infinite superstizioni che avevano attraversato quel mondo, ma che avevano anche, per misteriosi canali, molti punti di contatto con la Bibbia e con il Vangelo, se n’era sostituita un’altra, unica, più forte, più convincente, più coinvolgente.

Ma anche il cristianesimo, tradotto da San Paolo in una struttura potente, religiosa ma anche temporale come la Chiesa, aveva in sé i germi e i prodromi della sua fine. Dopo venti secoli di egemonia e di ascesa il pensiero cristiano nelle sue varie declinazioni cattolica, ortodossa, protestante ha terminato la sua fase propulsiva, per dirla con le parole di Enrico Berlinguer in riferimento al comunismo sovietico.

Forse noi non abbiamo compreso appieno cosa ha voluto dire “la morte di Dio”. Quando Friedrich Nietzsche la proclama nei primi anni ’80 dell’Ottocento, constata, con qualche decennio di anticipo, perché era un genio, che Dio, in virtù o a causa dell’Illuminismo e dell’affermarsi della Dea Ragione, è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Ma i suoi funerali non saranno affatto indolori. Non per nulla il capitolo successivo a questa affermazione nicciana si intitola Incipit tragoedia. Dio sarà sostituito dalle Ideologie. Ma le Ideologie, nel giro di un tempo relativamente breve, due secoli e mezzo all’incirca, periranno anch’esse. E anche la loro morte, come quella di Dio, verrà salutata come una liberazione. Invece è un’altra tragedia. Perché è venuto meno ogni punto di riferimento laico o religioso (un Dio morto non può essere resuscitato), non potendosi considerar tale il libero mercato che non è nemmeno più non dico un’ideologia, com’era ai tempi di Adam Smith e di David Ricardo, ma neppure un’idea. E’ semplicemente un meccanismo che va per conto suo, autopotenziandosi nella misura in cui indebolisce l’uomo che lo ha innescato, sfuggito di mano non solo agli ‘apprendisti stregoni’ che lo concepirono, ma anche alle mosche cocchiere che si illudono di guidarlo e del quale, prima o poi, saranno anch’esse vittima.

Da qui lo smarrimento che ci coinvolge tutti, poveri e ricchi. E la paura, l’abbietta paura (basta pensare a quanto è avvenuto pochi giorni fa alla Gare du Nord dove c’è stato un fuggi fuggi generale dei passeggeri, che hanno abbandonato persino i loro bagagli, la ‘robba’, perché un uomo si aggirava armato di un coltello) nei confronti dei ‘nuovi barbari’ che sono davvero, a differenza di quelli d’antan, ‘altro da noi’. Ma non è del terrore che noi dovremmo aver terrore. Ma del nostro vuoto di valori. Sarà questo che ci perderà, nonostante noi occidentali si sia tanto superiormente armati, come lo erano i Romani di fronte alle orde di origine germanica.

Presso ogni cultura, quasi senza eccezioni, è previsto che il proprio sistema di valori non sia eterno, ma a un certo punto collassi. Ma la favola convenuta, nella inesausta necessità di speranza che è propria di quella tragica creatura che è l’uomo, vuole che dopo ogni krisis, intesa in senso greco, rinasca un mondo migliore e più degno di essere vissuto. A noi non resta che aggrapparci a questa favola e augurarci che non sia veritiera la premonizione di Eraclito che nel VI secolo prima di Cristo ammoniva che l’umanità era destinata a degenerare senza soluzione di continuità. Anche se la Storia, almeno finora, sembra dargli ragione.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2017