Il problema dell’Europa non è l’Italia, col suo pesantissimo debito pubblico accumulato soprattutto negli anni del glorioso CAF, con le pensioni di vecchiaia fasulle, di invalidità inventate, con le ‘pensioni d’oro’ e tutto lo smercio del voto di scambio, né la Spagna con l’indipendentismo catalano, né la periclitante Grecia.
Il problema è la Francia. Con la sua ridicola e pericolosa grandeur, la sua boria o, per esprimerci con le parole di Palazzo Chigi nei giorni dello scontro con Macron, “col suo atteggiamento di superiorità insopportabile”. Questi credono di vivere ancora l’epopea di Napoleone. Anche se pur sul teppista corso ci sarebbe poi da ridire: con i quattro milioni di soldati messi sul campo abbandonando la civile guerre en dentelles degli austriaci, e la democrazia esportata in Europa sulla punta delle baionette.
Comunque da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Non si era ancora spenta l’eco dei processi di Norimberga e di Tokio, che secondo le intenzioni avrebbero dovuto “escludere la guerra dalla vita della società”, che già le truppe francesi soffocavano con l’atroce brutalità di sempre un disperato tentativo del Madagascar di liberarsi delle manette coloniali. Questa vile e facile vittoria è stata l’unica della loro storia post napoleonica. Dopo non hanno fatto altro che buscarle. Nel 1870 nella guerra franco-prussiana i tedeschi annientarono in un sol mese l’esercito di Napoleone III. Nella prima Guerra Mondiale furono sconfitti dai tedeschi a Charleroi, si ritirarono sulla Marna e furono salvati dagli inglesi, come sempre dagli inglesi fu salvata non solo la Francia ma l’intera Europa nella seconda Guerra Mondiale. L’insuperabile Linea Maginot fu irrisa da Hitler che, passando per il Belgio, dopo pochi mesi passeggiava sugli Champs-Elysée. Il collaborazionismo francese col governo Pétain fu maggiore di quello degli italiani che pur dei nazisti erano alleati. Durante il governo fantoccio di Pètain, Gerhard Heller, il funzionario tedesco che doveva occuparsi di tenere sotto controllo i letterati e gli scrittori francesi sospettati di essere contrari al regime, si meravigliava che le denunce contro costoro venissero molto più dai loro connazionali che dai nazisti e dalla Gestapo. Nonostante tutto ciò, grazie all’escamotage del governo De Gaulle riparato a Londra, riuscirono a sedersi al tavolo della pace da vincitori a fianco degli inglesi, degli americani e dei russi che quella guerra, con enormi sacrifici di sangue, l’avevano combattuta e vinta davvero.
Nel 1954 furono sconfitti rovinosamente dai vietnamiti a Dien Bien Phu.
Però i ‘cugini d’oltralpe’ continuano imperterriti nel loro grottesco “complesso di superiorità” e nei tempi più recenti hanno causato danni gravissimi all’Europa e soprattutto all’Italia. La sciagurata aggressione alla Libia è stata una loro iniziativa. Sono stati poi seguiti dagli immancabili americani e purtroppo anche da noi italiani, eternamente autolesionisti. Il nostro premier del tempo, Silvio Berlusconi, grande amico di Gheddafi, era contrario ma si accodò per sottomissione agli americani come aveva fatto D’Alema nel 1999 nella guerra alla Serbia. Con la differenza che D’Alema non era amico di Milosevic e quindi Berlusconi, nel suo sottomettersi, è stato doppiamente coglione. Per giustificarlo si dice che fu il presidente Giorgio Napolitano a convincerlo. Ma per Napolitano-Berlusconi vale quanto abbiamo scritto per Mattarella-Conte: in una Repubblica parlamentare, qual è fino a prova contraria la nostra, la politica la fa il premier e non il Presidente della Repubblica.
Per non farsi mancar nulla i francesi, forse gli unici rimasti ad avere una mentalità colonialista vecchio stampo, hanno aggredito il Mali del nord abitato da pacifici Tuareg che, per difesa, si sono uniti agli jihadisti locali. Da qui la guerra e l’altrimenti inspiegabile migrazione maliana.
Dopo essere stati responsabili in notevole misura delle migrazioni, adesso i francesi respingono questi disperati ai loro confini, da Ventimiglia a Bardonecchia (per la verità a Bardonecchia sono andati anche oltre, penetrando con i loro militari nel nostro territorio). E nei giorni scorsi si sono permessi di bollarci, per il caso Acquarius, come “irresponsabili, cinici e vomitevoli”.
Però in questo caso una funzione utile l’hanno avuta. Ci hanno restituito un pizzico d’orgoglio d’esser italiani, che abbiamo eterni difetti che eternamente si ripetono (vedi il nuovo ‘caso Roma’ che coinvolge anche i Cinque Stelle), ma almeno non siamo schifosamente sciovinisti come i francesi che non ne hanno di meno.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2018
Sulla questione della nave Acquarius Salvini ha ragione nella sostanza, ma un grave torto nella forma e crediamo non innocente. Ha ragione perché è un messaggio forte alla Ue perché vengano finalmente sancite e imposte, con leggi europee, le quote di migranti di cui ogni Paese del Vecchio continente deve farsi carico. Ha torto nella forma perché non si può all’improvviso fermare una nave con più di 600 migranti il cui recupero era stato coordinato dal centro di Roma, come ha obbiettato il governo maltese per giustificare il diniego dell’approdo nei suoi porti. Lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere mandando una nota preventiva a Bruxelles più o meno di questo tenore: d’ora in poi non accoglieremo più le navi o i barconi dei migranti finché l’Unione europea non avrà stabilito, con una legge valida per tutti i Paesi della stessa unione, un’equa ripartizione. In questo modo chiunque avesse voluto approdare con un carico di migranti in un porto italiano sarebbe stato avvertito che non era cosa. Poiché, come diceva quello, “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre” Salvini ha giocato cinicamente, per motivi propagandistici, sulla pelle di questi disperati. Bastava, ripeto, invertire i tempi: prima l’avvertimento alla Ue e poi la chiusura delle frontiere.
Detto questo due osservazioni. Una di portata interna l’altra più generale e drammatica.
1) I sindaci dem di Palermo e Messina, per fare le ‘anime belle’, si sono dichiarati disponibili ad accogliere l’Acquarius. Non sta né in cielo né in terra che dei sindaci possano andar contro una decisione del Ministro degli Interni, cioè dello Stato italiano di cui fan parte.
2) Purtroppo, se alziamo un po’ lo sguardo, la questione delle migrazioni verso l’Europa in particolare l’Italia sembra irrisolvibile. L’80% di questi migranti non arrivano da guerre, che prima o poi finiranno, ma dall’Africa subsahariana cioè da quella che un tempo chiamavamo Africa Nera. Non cercano approdo in Europa perché attratti dalle bellurie del modello occidentale, come fu per la prima migrazione albanese (gli albanesi vedevano la Tv italiana e immaginavano il nostro come il paese di Bengodi). Vengono per fame. Perché la loro economia, autoproduzione e autoconsumo, oltre che la loro socialità, è stata distrutta dall’introduzione in quelle terre del nostro modello di sviluppo. In genere si crede nell’ignoranza generale che l’Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Agli inizi del Novecento, l’Africa Nera era totalmente autosufficiente dal punto di vista alimentare. Lo era ancora, sostanzialmente, (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall’integrazione economica occidentale –prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante- le cose sono precipitate. L’autosufficienza alimentare è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978 (P.N. Bradley, Produzione e distribuzione degli alimenti: la fame nel mondo in Geografia di un mondo in crisi, Franco Angeli, 1992). Per sapere come stanno le cose oggi, anno 2018, basta osservare, appunto, la fiumana di emigranti che tanto ci preoccupa. Ma quello che vediamo oggi non è che un pallido fantasma di ciò che vedremo domani. L’integrazione globale in Africa non fa che aumentare (adesso ci si sono messi anche i cinesi) e quindi non può che aumentare anche la fame. Per questo la posizione dell’”aiutiamoli a casa loro” è ipocrita e priva di senso. Perché più li “aiutiamo”, più li vincoliamo al nostro modello e li strangoliamo, riducendoli da poveri a miserabili. Ora, gli abitanti dell’Africa subsahariana sono 720 milioni (lasciando da parte il Sudafrica che fa caso a sé). Basta che una quota rilevante di questa gente, spinta dalla fame, cerchi la salvezza presso noi europei e non ci sarà chiusura delle frontiere che tenga. Non basteranno a far guardia le navi da guerra, i cannoni o qualsiasi altra misura. Saremo sommersi.
Chi dice, fra la gente comune e anche fra i politici (per esempio Giorgia Meloni) “via gli africani dall’Europa, ognuno deve restare a casa propria” avrebbe ragione se aggiungesse che anche noi avremmo dovuto restare a casa nostra e non invadere l’Africa Nera e i Paesi che con ipocrisia e drammatica ironia chiamiamo “in via di sviluppo ”, con le nostre industrie, con le nostre aziende, con i nostri “aiuti” pelosi e anche non pelosi, insomma col nostro modello di vita. Chi è causa del suo mal, oltre che di quello altrui, pianga se stesso.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2018
Lo strapotere degli States
L’esordio del nuovo governo italiano in un consesso internazionale, il G7 di La Malbaie in Canada, non poteva essere più difficile. Il nostro premier, Giuseppe Conte, è stato infatti il primo e finora l’unico leader europeo ad avere il coraggio, nel suo discorso d’investitura al Senato, di avanzare qualche riserva sulle sanzioni che gli Stati Uniti, seguiti dall’Europa, hanno imposto alla Russia per aver occupato la Crimea. C’è stato subito un niet della Nato (che come tutti sanno è un’alleanza a solo uso e consumo degli Stati Uniti) attraverso le dichiarazioni del suo attuale e fantoccio Segretario generale Jens Stoltenberg e dell’ambasciatrice Usa nel quartier generale dell’Alleanza atlantica a Bruxelles, Bailey Hutchinson. Una delle obiezioni per tenere fermo il punto su queste sanzioni è che non si possono violare le leggi di diritto internazionale senza che siano seguite da un’adeguata punizione. Ora, se c’è un Paese che negli ultimi vent’anni ha violato queste norme e agito col massimo disprezzo verso l’Onu, che rappresenta tutti gli Stati del mondo e ne dovrebbe essere il difensore, è proprio l’America. Quando, per esempio, si aggredisce la Serbia per la questione del Kosovo (1999) contro la volontà dell’Onu è poi difficile, avendo creato questo precedente, attaccare la Russia per essersi annessa la Crimea. Anche perché c’è una differenza sostanziale. Il Kosovo era fuori dall’area d’influenza americana e lontanissimo dai suoi confini, tanto che il presidente Clinton per convincere i suoi concittadini della bontà di quella aggressione, giustificata naturalmente in nome dei soliti “diritti umani” pronti per ogni uso, dovette prendere un’enorme carta geografica e con una bacchetta, come un maestrino, indicare loro dove mai fosse questo misterioso Kosovo che nessuno negli States aveva mai sentito nominare. La Russia ha invece occupato un territorio, la Crimea, che se proprio russo non è, era però russofono da sempre.
Si possono poi ricordare l’aggressione e l’occupazione dell’Iraq (2003) contro la volontà dell’Onu e, sempre contro la volontà dell’Onu, quella alla Libia di Muammar Gheddafi le cui conseguenze sanguinano ancora, e sanguineranno per chissà quanto altro tempo, sull’Europa e in particolare sull’Italia.
Per l’Europa e l’Italia un buon rapporto con la Russia di Putin (che è un autocrate se non un dittatore, come tanti altri leader di Paesi nostri alleati e magari membri della Nato, tipo Turchia) è essenziale. Per questioni di vicinanza geografica, energetiche, commerciali e anche, se si vuole, culturali. E ha detto bene, anche se non ha detto tutto, Matteo Salvini quando ha fatto notare che non vede nessuna minaccia della Russia nei confronti nostri e dell’Europa mentre vede benissimo lo sconquasso migratorio nel Mediterraneo provocato proprio dall’aggressione americana, francese e sciaguratamente appoggiata anche da noi italiani (governo Berlusconi). Salvini ha anche aggiunto –ed è il punto su cui ci permettiamo di non essere d’accordo- che la Nato è di questo che dovrebbe occuparsi: Dio ne scampi, più sta lontana dai nostri confini e meglio è. Naturalmente Salvini è stato subito accusato, in particolare da quel bel tipetto di George Soros, di essere a ‘busta paga’ di Putin. E tutta la grande stampa americana è contro il governo Cinque Stelle-Lega. Ha scritto Robert Cohen sull’autorevole New York Times: “Lega e il Movimento 5 Stelle mettono insieme il bigottismo e l’incompetenza a un livello insolito. Sono un gruppo miserabile portato in alto sulla marea globale anti liberale. In breve non vedo nulla da loro propagandato che non mi crei disgusto”. Questo disgusto deriva dal fatto che si capisce bene che il nuovo governo italiano cercherà, nei limiti delle sue forze, di svincolarsi dalla pelosa tutela yankee. Che è poi la stessa posizione di Angela Merkel, anche se con la Germania gli Stati Uniti sono costretti ad andarci più piano e a usare parole meno sprezzanti.
L’arroganza americana nei confronti dell’Europa si vede ancor meglio nella questione iraniana. Il governo degli Stati Uniti ha dato 180 giorni di tempo, a partire dall’8 maggio, alle imprese europee che hanno affari in corso con l’Iran. Siamo ai classici ‘otto giorni’ che si danno alla domestica quando la si licenzia. Gli ambigui francesi hanno subito obbedito: la Total e la Peugeot Citroen “si apprestano –come scrive Stefano Montefiori sul Corriere del 7.6- ad abbandonare le joint venture che avevano creato con le imprese iraniane”. Ma anche l’Italia ha corposi e legittimi interessi in Iran, Eni in testa ma non solo. Noi europei non abbiamo nessun contenzioso aperto con l’Iran e nessun pericolo che può venire dal Paese degli ayatollah. E per spazzare il campo da ogni equivoco il 14 luglio 2015 il cosiddetto gruppo dei 5+1 (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, tutti membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) hanno firmato a Vienna un accordo sul nucleare iraniano in cui il governo di Teheran si impegnava a non arricchire l’uranio oltre il 20%, quindi mantenendo il nucleare a usi civili, e ad accettare le ispezioni dell’Aia, cosa che peraltro aveva sempre fatto almeno a partire dal 2003, in cambio dell’ammorbidimento delle sanzioni economiche che gli americani avevano imposto a quel Paese. Gli Stati Uniti si sono sfilati da quell’accordo perché da sempre hanno il dente avvelenato contro il regime degli ayatollah, per ragioni ideologiche e in funzione pro Israele la loro ‘longa manus’ in Medio Oriente. Naturalmente, e diremmo logicamente, il governo di Teheran ha minacciato di avviare un programma atomico, cui aveva sempre rinunciato, se anche gli altri protagonisti di quell’accordo, seguendo gli Usa, non vi terranno fede.
C’è poi la questione dei dazi su alluminio e acciaio che gli Stati Uniti hanno imposto anche all’Europa. Ma in questo caso l’Europa è in grado di difendersi perché come scrive Le Monde (ma non c’era bisogno dell’acume di Le Monde, lo avevo scritto anch’io, Il Fatto del 6 giugno) “l’Unione europea è la più grande area commerciale del mondo”.
C’è poi il fatto, come richiamava l’altro giorno Ferruccio Sansa, che i militari americani presenti in Italia, si tratti di Vicenza o di Napoli, possono commettere reati, tra cui stupri, avendo la pressoché totale certezza di rimanere impuniti (si possono ricordare, fra gli altri, fatti ancor più gravi come il Cermis o il rapimento da parte di agenti segreti statunitensi di Abu Omar sul suolo italiano).
Gli Stati Uniti infine non accettano che i loro militari siano giudicati dai Tribunali internazionali per crimini di guerra. Insomma gli americani sono “legibus soluti”. Aggrediscono, occupano, uccidono, ricattano economicamente, puniscono, fanno insomma tutto ciò che gli pare e piace. Ci fa piacere che, per una volta tanto fra gli occidentali, sia stato un italiano, il nuovo premier Giuseppe Conte, ad avanzare una sia pur timida riserva su questa intollerabile prepotenza.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2018