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Secondo la lettrice Lidia Tarenzi (Fatto, 18/11) io sarei di destra perché mi rifiuto di mangiare carne sintetica. La lettrice evoca una serie di vantaggi green ed economici: risparmio di acqua, risparmio di energia, risparmio di antibiotici, risparmio di ormoni di cui fanno largo uso gli allevamenti intensivi. Eh già. La responsabilità è sempre della mucca che ha la colpa di scoreggiare come mucca comanda. La lettrice non sembra rendersi conto che tutti ‘i vantaggi’ di cui si fa paladina, che servono a colmare degli ‘svantaggi’ perduti, non esisterebbero se non si fosse imposto il modello “paranoico” dell’Occidente che ha ormai permeato di sé il mondo intero, anche la Cina, dove un tempo, accontentandosi di una dieta di riso, i cinesi sono arrivati ad essere quasi un miliardo e mezzo.

Finché abbiamo vissuto un’esistenza normale, diciamo prima dell’era industriale, non c’era inquinamento per cui non ci si doveva preoccupare delle scoregge delle mucche anche perché gli allevamenti intensivi non esistevano. Li ha creati la modernità contribuendo con ciò a distruggere l’Africa nera (si legga in proposito La mia Africa di Karen Blixen). L’acqua c’era per tutti tranne che nei deserti, che hanno pur loro una ragion d’essere, e gli autoctoni, poniamo per esempio i Tuareg, nomadi, non sentivano il bisogno di cementificarli anche perché ingegnandosi sapevano trarre dal deserto quel tanto di acqua che era loro sufficiente, si vedano in proposito le opere del geografo e viaggiatore Eugenio Turri (ma leggete, perdio, leggete!).

Eppoi è molto manicheo credere che tutto ciò che fa la destra è ‘malo’ e tutto ciò che fa la sinistra è ‘bono’. Tra l’altro destra/sinistra sono due facce della stessa medaglia, sono entrambe illuministe, ottimiste, progressiste, economiciste, entrambe hanno messo al centro del sistema l’Economia e la sua sorella gemella la Tecnologia, da cui è nato quel nano abnorme e deforme che è la Pubblicità diventato nel frattempo un gigante di fronte al quale noi lillipuziani non possiamo niente.

Le destre e le sinistre attuali, almeno quelle omologate come tali, non sono in grado di intercettare le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo che per quanto ciò possa sembrar strano, non sono economiche ma esistenziali. La comunità? Sparita. La fratellanza? Scomparsa. Il pudore? Inesistente. La dignitas latina, che fra le tante altre cose significa onestà, lealtà, protezione dei deboli (i valori che incarnava Catilina) spazzata via. Sono i valori che ho definito “pre-politici, pre-ideologici, pre-religiosi”, cioè i valori tradizionali che resistono ancora in aree sempre più periferiche dell’Impero. È in nome di questi valori che io, ma non solo io, preferisco mangiare una bistecca non sintetica, arrostita lo ammetto (ma anche sulla scoperta del fuoco i Greci avevano qualche perplessità, si veda il mito di Prometeo cui un’aquila artiglia perennemente il fegato – ma si veda anche, per par condicio, il bellissimo libro di Roy Lewis, La scimmia più intelligente del Pleistocene, una sorta di anti-Fini) come facevano i nostri nonni, i loro nonni e i nonni dei nonni.  

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2023

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“Caro amico ti scrivo” (Lucio Dalla).

Caro Antonio, prima a piccoli passi poi con una progressività sempre crescente stanno distruggendo il nostro grande giocattolo: il calcio che è diventato sempre più un fatto economico che ha prevalso su tutti gli elementi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, emotivi che avevano fatto la fortuna di questo gioco per un secolo e mezzo. Il punto di partenza è stata la “legge Bosman” che ha mortificato i vivai. Dopo Superga il Toro dovette necessariamente ricorrere al vivaio perché nel dopoguerra non c’erano i soldi per comprare giocatori e sotto la guida sapiente di Vatta sfornò giovani che sarebbero diventati dei campioni, Rosato, Cella, Ferrini, Pulici, Graziani. Oggi chi rischierebbe di puntare su un giovane dal futuro inevitabilmente incerto, quando può acquistarne uno, già formato, prelevato dalle grandi squadre nazionali e internazionali? Oggi i giocatori cambiano squadra ogni anno e all’interno dello stesso campionato, con tanti saluti alla regolarità del torneo, e per esigenze pubblicitarie in trasferta cambiano le maglie tradizionali. Una ventina di anni fa assistevo ad una partita con il mio amico Giagi, interista. Mi disse: “solo quando ho visto i baffi dello ‘zio’, Bergomi, mi sono reso conto che in campo c’erano i nerazzurri”.

Fu la “grande Olanda” dei Neeskens, Cruijff, Rensenbrink, Krol a inventare il “calcio totale”. Si dice che anche quello di oggi è un calcio totale perché tutti i giocatori, compreso il portiere, sono di movimento. Ma sono due cose molto diverse. Cruijff e gli altri giocavano in ogni parte del campo dove l’estro e l’istinto li portavano, il portiere, Jongbloed, un pazzo, stava stabilmente sul cerchio del centrocampo. Il calcio di oggi invece è monotono. Tu sai che gli ‘esterni’ devono andare su e giù lungo la linea laterale per poi crossare, che anche un calciatore di centrocampo deve stare li e non là, altrimenti si becca un cazziatone dall’allenatore. Insomma è un calcio molto tattico dove il vero frontman è l’allenatore, aiutato in questo anche dal fatto che può fare cinque cambi (si pensava che il passaggio dai tre ai cinque cambi fosse temporaneo a causa del covid, invece è rimasto). Come può una squadra media affrontarne un’altra dove in panchina c’è una squadra equivalente alla prima? Inoltre l’allenatore deve cedere il campo ai procuratori, che guadagnano spesso più dei calciatori, perché dominano il calciomercato e sono quindi indispensabili per assicurarsi ‘i meglio fichi del bigoncio’.

In questo marasma senile del calcio non è più possibile immedesimarsi in un giocatore simbolo, il Bulgarelli o il Riva d’antan. Solo Totti, romano de Roma, ha avuto il coraggio di rimanere nella sua città, rinunciando a ingaggi favolosi.

Il calcio è diventato un gioco da educande, basta una spinta un po’ robusta che ti becchi non solo il fallo, ma il giallo e anche il rosso. Se poi il giocatore perde un po’ di sangue è la fine del mondo. In altri tempi io ho visto Butcher, centrale dell’Inghilterra, giocare un tempo con la maglia e i calzoncini insanguinati. Questo politically correct lo si vorrebbe applicare anche alle tifoserie, adesso oltre la ‘discriminazione razziale’ esiste la ‘discriminazione territoriale’. Se sei del Verona non puoi dire “forza Vesuvio” e i napoletani rispondere con “Giulietta era una troia”. Si è dimenticato che dare sfogo a questa aggressività sostanzialmente innocua evita “i delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Ceronetti.

Poi ci sono altre cose che avvengono fuori dal rettangolo di gioco. Il Var per cui tu prima di esultare dopo una rete devi aspettare cinque minuti la decisione del Var i cui componenti stanno in qualche catacomba dentro lo stadio e anche, a volte, lontani dallo stadio. Col Var, a differenza dell’arbitro, anch’esso esautorato, non puoi sentire la durezza dei colpi. Inoltre il Var, che pretende un’esattezza assoluta, non evita le polemiche del dopopartita, come le cronache ci raccontano. Insomma, per dirla in senso lato, la tecnologia e il denaro hanno finito per prevalere su tutto (tanto varrebbe giocare qualche titolo in Borsa). Infine c’è la musica assordante, prima dopo e a volte anche durante la partita. Lo stadio non è una discoteca.

Perché, caro Antonio, ci ostiniamo a seguire questo gioco che ha perso quasi tutti i suoi elementi fondanti? Perché tutti, naturalmente ognuno al suo livello, lo abbiamo giocato. All’epoca nostra, per noi ragazzi, c’era solo il calcio, il tennis era uno sport da ricchi, il basket e il baseball erano troppo americani (“tu vuo’ fa’ mericano…tu abball' o' rock'n'roll, tu gioch' a baseball” cantava con grande anticipo, che riguarda non solo il mondo del calcio, Renato Carosone, 1956).

Tutti quindi, nella nostra generazione, abbiamo giocato a calcio. Tranne Giampiero Mughini che faceva le parallele e in seguito è diventato cantore del nostro giocattolo. E questo dice tutto.

Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2023

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“In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
Dove regna il capitale, oggi più spietatamente”

(Don Chisciotte, Francesco Guccini)

La parola “capitalismo” sembra essere uscita dal vocabolario. La usa ancora solo il Manifesto, ma in un marxese cosi stretto, da Gründrisse, che di fatto diventa incomprensibile. Esiste sui media il termine capitale ma usato in senso statico, non dinamico come nella celeberrima opera di Marx, cioè con tutte le sue conseguenze, ma nel senso di capitale di questa o quella impresa, di questa o di quell’azienda, di questo o quell’individuo.   

Come mai? Elementare. Il capitalismo ha ormai occupato il mondo intero, tranne alcune, rare, sempre più rare, comunità ai margini del mondo: le società statiche che stanno all’opposto del dinamismo del capitale. Se si tratti di capitalismo di mercato o di capitalismo di Stato, come in Cina, la solfa non cambia, sempre capitalismo è, con lo  “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” per dirla ancora con Marx.

Inoltre da qualche decina d’anni al capitalismo industriale, che perlomeno produceva cose, oggetti, soddisfacendo bisogni di cui peraltro l’uomo non aveva mai sentito il bisogno, inventandoseli (tutta la pubblicità è diretta in questo senso), dava lavoro agli ‘schiavi salariati’, si è sostituito il capitalismo finanziario che produce denaro con cui fare altro denaro, cioè un’astrazione su un’altra astrazione, che invece di dare lavoro, sia pur un lavoro da schiavi, lo toglie in combutta con la mitica “digitalizzazione”. Infatti per fare capitale finanziario sono sufficienti pochissimi adepti, alle volte anche uno solo. Attualmente sto cercando di assumere un assistente, mi sorprende che a rispondere al mio annuncio siano giovani o anche molto meno giovani che non solo hanno una laurea, ma, spesso, un master ottenuto in qualche università italiana o europea. Evidentemente non sanno manovrare il denaro che è la cosa astratta più concreta che ci sia.

“Che fare”, per usare le parole del famoso filosofo russo Černyševski, poi saccheggiato, nel titolo, da Lenin? Niente. Non possiamo farci niente. Non possiamo far altro che aspettare il collasso del “modello paranoico”. Nel frattempo possiamo solo contare su estremismi religiosi, in totale antitesi col sistema del denaro preferendo all’astrazione di quello che Martin Lutero ha chiamato “sterco del demonio”, la spiritualità e la concretezza della vita e della morte, propria e altrui, tipo Isis per dirla in termini molto chiari.

Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2023