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L’affluenza alle urne in Italia scende di anno in anno, a volte gradualmente, altre precipitosamente, con una tendenza che pare irreversibile anche se opportunamente occultata da tutti i media del Paese. Foggia, dal 66.74% del 2019 è scesa al 60.38% del 2023, a Monza, per il seggio che fu del fu Berlusconi, ha votato il 19.23%, in Trentino dal 64.05% al 58.39%, in Alto Adige dal 73.9% al 71.5%. Da notare che altrettanto opportunamente viene nascosto il dato delle nulle e delle bianche, cioè di gente che risulta fra i votanti ma in realtà non ha votato. È evidente che c’è una disaffezione degli italiani non tanto verso la politica, ma verso il sistema dei partiti, queste mafie legali che sono le padrone delle nostre vite, grazie anche, proprio come la mafia, ad affiliazioni continue.

Per consolarsi si sottolinea che anche in altri Paesi europei, come la Germania o la Francia, l’affluenza è mediocre. Ma lo è per ragioni diametralmente diverse. I tedeschi, poniamo, si fidano della loro classe dirigente, che poi vinca l’Spd o la Cdu fa lo stesso. Ci si fida della loro onestà, etica, intellettuale e materiale. In Germania nessun parlamento voterebbe mai che una marocchina è un’egiziana. Interessante anche il dato che a Bolzano sono stati eletti solo cinque italiani. Non ci si fida degli italiani quasi sempre corrotti, collusi e comunque familisti, anche l’ottima Meloni non ha potuto sfuggire a queste regole non scritte.

Il fatto è che noi votiamo, quando votiamo, sapendo poco o nulla di coloro che ci vanno a rappresentare. In una grande città come Milano tu non vedi gli uomini politici, non vanno al cinema, non vanno a teatro, non circolano per la città. Quando gli torna opportuno fanno “bagni di folla” con truppe cammellate e addestrate al plauso.

In Italia non si fa che ricorrere a tornate elettorali, politiche, amministrative, regionali. Durante queste tornate qualche candidato viene pescato dalla Magistratura con le mani nel sacco. Apriti cielo, subito i berluscones e non solo loro gridano alla “giustizia ad orologeria”. Famoso, almeno per chi ha una certa età, è il “caso Teardo” del 1983. Teardo, che era stato presidente della Regione Liguria, scaduto il mandato si era presentato alle elezioni politiche. Fu arrestato su mandato dei giudici Del Gaudio e Granero per “associazione a delinquere, concussione, concussione continuata, peculato ed estorsione”. Era il prodromo di Mani Pulite. Si farà dodici anni di galera, ma se non fosse intervenuta la magistratura sarebbe ancora li.

Quel geniale e insieme bizzarro pensatore che è stato Rousseau, che nella prima fase della sua vita fu illuminista e nella seconda anti-illuminista, diceva che l’unica forma possibile di democrazia è quella diretta, che vuole però ambiti circoscritti quale era la Ginevra in cui viveva (per dire della preveggenza di Rousseau nel “Discorso sulla scienza e le arti” prefigura, paro paro, la “società dello spettacolo” che ci ammorba oggi e i pericoli cui può portare la Scienza).

Ma per immaginare una democrazia diretta non è necessario ricorrere a Rousseau. La democrazia è esistita fino a due anni prima della Rivoluzione francese. Cioè la democrazia c’era quando non sapeva d’esser tale. L’assemblea del villaggio decideva tutto ciò che riguardava il villaggio, decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti. Riscuoteva ‘au pied de la taille’, cioè proporzionalmente, i canoni che alimentavano il bilancio comunale, poteva contrarre debiti ed iniziare processi, nominava, oltre i sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani delle messi, gli assessori e i riscossori di taglia. Regole rigorose erano fissate perché gli abitanti del villaggio avessero notizia in tempo utile che era stata convocata un’assemblea. Certo gli abitanti del villaggio, i “villani”, non partecipavano, se parliamo della Francia, ma il sistema era in uso in quasi tutti i Paesi europei ed estremizzato in Islanda (vedi gli scritti di Alain de Benoist), alle grandi decisioni che si prendevano a Versailles. Ma tali decisioni ci mettevano anni per arrivare al mondo contadino, che rappresentava insieme agli artigiani il 90 per cento della popolazione, per cui si può dire che quando arrivavano erano ormai obsolete, e quindi di fatto la comunità di villaggio godeva di un amplissima autonomia. Questo sistema funzionò benissimo fino al 1787, quando, sotto la spinta degli interessi e anche della smania regolamentatrice della borghesia avanzante, un regio decreto stabilì che non era più la collettività del villaggio a decidere autonomamente, poteva farlo solo attraverso esponenti da essa eletti. Era nata la tragedia della democrazia rappresentativa.

Il Fatto Quotidiano, 31.10.2023

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È da un po’ di tempo che i giornali di destra e di sinistra ma in definitiva tutti i milanesi hanno preso di mira Beppe Sala, il sindaco della metropoli. In genere si lamentano disagi materiali, l’estensione della ztl, la mancanza di polizia alla Stazione Centrale, la situazione delle periferie e, soprattutto, il costo della vita che è diventato insostenibile. Disagi materiali, dicevo, perché Milano un tempo cattolica (Sant’Ambrogio) e socialista oggi non è più né socialista né tantomeno cattolica né almeno attraversata da qualcosa che abbia a che fare con la religione o con lo spirituale e il sacro.

Ma di ciò Sala non ha alcuna responsabilità. I fenomeni che hanno portato all’evidenza delle disuguaglianze sociali e allo smodato individualismo vengono da lontano e hanno all’origine la modernizzazione e la sua madre naturale la globalizzazione. Gli Stati Uniti, punta di lancia dell’attuale modello di sviluppo e usi a omologare alla propria way of life ogni cultura, hanno una parte, anche se non decisiva, ma piuttosto marginale, in questi processi. Già nel 1956 Renato Carosone cantava “tu vuo’ fa l’americano”, volendo con ciò dire che gli autoctoni, in questo caso i napoletani, volevano adeguarsi agli stili di vita americani.

Ciò che ha cambiato Milano nel suo habitat, sociale e urbanistico, è l’omologazione che le ha fatto perdere il senso della comunità, che pur aveva avuto nel dopoguerra fino agli anni del boom. Io non conosco non dico i miei coinquilini ma nemmeno il vicino di pianerottolo da cui mi separa solo una sottile parete.

Milano era una città di quartieri in cui ci si conosceva tutti. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, per andare a giocare, e rientravamo alle otto di sera senza che i genitori se ne preoccupassero. Se uno di noi si fosse messo nei guai sarebbe intervenuto un adulto. E poi c’era il ghisa, vigile urbano disarmato, un po’ come il bobby londinese, di solito un bel giovanotto, come si usava dire allora, milanese, che nel quartiere era una autorità assoluta. Ed era pronto ad intervenire per ogni inconveniente: “dillo al ghisa, c’è lì il ghisa, parlane al ghisa”. C’era poi il Commissario di quartiere che, come il ghisa, ci conosceva tutti e sapeva bene dove si potevano nascondere dei pericoli. Pochi anni fa mi citofona la portinaia: “C’è la Polizia”. “Faccia salire”. Erano in due, il poliziotto buono e quello cattivo, come usa. “Dobbiamo fare una perquisizione”. “Fate pure, intanto io torno alla ‘lettera 32’ perché devo mandare un articolo al giornale”. Sono laureato in giurisprudenza, ma quando tocca a me non ricordo nulla dei miei diritti, però ad un certo punto mentre quelli perlustravano la casa, un po’ sbigottiti e resi incerti vedendo la mia libreria, chiesi: “Qual è la motivazione?”. Si trattava di “contraffazione di marchio industriale”. Ora io possa essere sospettato di ogni genere di violenze ma la contraffazione di marchio industriale è la cosa più lontana da me che ci possa essere. Se ci fosse stato il vecchio Commissario di quartiere lo avrebbe saputo e avrebbe evitato ai due pulotti quell’inutile perlustrazione.

Milano, dicevo, era una città di quartieri e ogni quartiere aveva un cine di terza visione (la prima e la seconda le davano in centro). Ogni cine dava durante la settimana il poliziesco, il giallo, l’americanata ma anche un film di qualità. Non era necessario andare all’Orchidea, cinema d’essai, in via Terraggio. Tutta la mia generazione si è educata filmicamente nei cine di terza visione. Era anche un modo per conoscere quartieri meno frequentati, perché ogni quartiere aveva le sue abitudini.

Gli affitti non erano proibitivi. Una giovane coppia, quale eravamo noi, sposati, mi pare nel 1973, poteva scegliere fra una casa piccola ma centrale e una più grande, ad Affori, alla Bovisa, ma comunque pur sempre in città.

La gente che non ha soldi è stata spinta, gradualmente e inesorabilmente, nell’immenso ed anonimo hinterland dove ci sono paesi che del paese hanno spesso solo il nome, hanno il municipio e poco più.

Nella Milano cui mi riferisco, quella degli anni Cinquanta e primi Sessanta a Brera o al Garibaldi si mescolavano ceti molto diversi dal punto di vista economico e sociale. Certo Pirelli abitava in una casa di Caccia Dominioni. Gli altri in case molto più modeste (oggi Brera è diventata un baraccone per turisti scemi). Ma così i diversi ceti si interfecondavano. Poi c’erano i locali, il Giamaica, Oreste dove anche noi ragazzini, o comunque giovanissimi, potevamo incontrare letterati di fama che non si erano ancora trasformati in funzionari di Case editrici e bazzicavano la città. Da Oreste, in piazza Mirabello, dietro al Corriere (ma per fortuna quelli del Corriere non si facevano vedere) incrociai Umberto Eco che mi regalò e mi dedicò Diario minimo che, a parer mio, resta il suo libro più interessante a dispetto dei successi di quelli successivi, perché Eco è sostanzialmente un antropologo sociale e non un romanziere.

Ogni bar, allora, aveva un biliardo. I biliardi, a parte alcuni luoghi per professionisti, sono spariti. Ho chiesto il perché al gestore di un bar che frequento in via Fara: “elementare Watson” mi ha risposto “i biliardi occupano un grande spazio e rendono poco. Le slot, addossate alle pareti, occupano niente spazio e rendono molto”. Ma il biliardo era un modo naturale di avvicinare i giovani e gli anziani. Nel locale interno si giocava d’azzardo, poker, ramino pokerato, tresetteciapàno, senza che ad alcun pulotto venisse la bizzarra idea di venire a ficcare il naso, e se lo faceva si metteva a giocare anche lui.

Giocando a poker, quello vero, non l’insopportabile Texas hold’em, finivamo alle tre o alle quattro del mattino. Potevamo scegliere fra almeno venti locali, quelli di lusso o le bettole più malfamate frequentate dalla “mala” ed erano i posti più sicuri perché lì non doveva succedere niente.

Quando andai ad abitare in via Novara, estremo ovest della città, c’erano ancora gli “orti di guerra”. La campagna si intersecava con la città. Mi ricordo che un omino, che mia madre chiamava l’uomo delle uova, veniva a portarci a casa prodotti agricoli, frutto proprio di quegli orti.

Milano poi, che non è mai stata, a differenza di Torino, una città “mono”, culturalmente e socialmente, aveva infiniti negozietti, le drogherie, le mercerie, i tappezzieri, i fruttivendoli, i macellai, i salumieri, i ferramenta, i casalinghi. Oggi se ho bisogno di un martello devo rivolgermi ad amazon.

Dischi. Una volta c’era il mitico vinile, oggi superatissimo dall’AI. Del resto nei locali trendy, poniamo di corso Como, si vedono coppie impegnate perennemente con i loro smartphone che non si scambiano una parola. Milano è una città di solitudini, individuali e collettive. I vecchi, sempre per ragioni legate al cambiamento urbanistico (i locali sono troppo piccoli per tenerseli in casa), finiscono nelle Rsa. Certo ci sono anche i volontari che vengono a casa quando sei in fase terminale. Se dovesse venirne uno da me, con le residue forze che mi rimangono, lo farei ruzzolar giù lungo le scale.

Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2023

Un articolo sulla costante e, a quanto pare, disaffezione alle urne degli italiani verrà pubblicato domani sul Fatto.

m.f

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Anche le guerre stufano. E ancor più stufa doverle descrivere o commentare. Se poi ci si inserisce nel filone diplomatico è una frustrazione senza pari . Nessuna guerra è mai finita per gli sforzi diplomatici. La guerra è come una partita di calcio in cui manca il pareggio. C’è uno che vince e uno che perde. E i diplomatici, di qualsiasi Paese, sono un corpo di fannulloni, molto ben pagati e oltretutto discendenti, in genere, da nobili lombi.

Io voglio quindi oggi parlare di qualcosa di più umano: la “grazia” .
Grazia. Chi non ce l’ha non se la può dare e nemmeno comprare: non si trova nei supermarket  del beauty e del fitness. È un che di impalpabile, di ineffabile, di difficilmente definibile, come il carisma. La sola cosa certa è che sta al lato opposto della volgarità. È  un’armonia fra interno ed esterno, fra essere e avere, fra come siamo e come ci presentiamo, laddove la volgarità è, a tutti i livelli, un uscire dai propri panni. Per questo un primitivo può essere rozzo ma mai volgare. Ha grazia, se si veste all’occidentale la perde. La volgarità è data da un contrasto, da qualcosa che stride. L’uomo moderno è quasi sempre volgare perché vuol essere diverso da quello che è e cercando in tutti i modi di far dimenticare la propria animalità finisce per sottolinearla. Lo si vede bene osservando una persona in strada che parla al cellulare: sembra una scimmia vestita e ammaestrata. Il gap fra l’altissimo contenuto tecnologico dell’oggetto, che può essere considerato un componente dell’abbigliamento, e la cultura e l’antropologia di chi lo sta usando ne evidenzia il carattere animalesco.

Nella grazia c’è qualcosa di primigenio, di infantile, di candido, di casto, di spontaneo, di non lezioso, di non manierato, di non artefatto e, insieme, di malizioso. La grazia, a differenza della bellezza, non è un fatto statico, ma dinamico, si esprime in uno sguardo, in un sorriso, in un gesto, in un movimento e talora anche in un’imperfezione birichina che anima il viso (Venere strabica). Le donne di oggi sono sicuramente più belle, più curate, più levigate, più perfettine di quelle di un tempo, ma raramente hanno grazia. Sono troppo catafratte nei canoni standard della bellezza. Col lifting si può essere belle ma è impossibile avere grazia. Del resto basta pensare che il prototipo attuale della bellezza femminile è la modella: “sotto il vestito niente” come recitava un best seller di qualche anno fa. E la grazia non può prescindere da una illuminazione interiore. Nessuna grazia hanno pressoché tutte le donne dello show business televisivo, in loro c’è sempre qualcosa di falso, di costruito, di artefatto, di plastificato, di inverosimile, una forzatura, un’esagerazione, un’enfasi che disturba e infastidisce.  

Peraltro la grazia è stata sempre rara anche fra le bellissime. La giovane Brigitte Bardot aveva grazia, Marilyn Monroe no, era anzi decisamente sgraziata, con quegli sfregi di rossetto, quei tacchi a spillo, quelle tette, quella capigliatura, quell’aria di donna umiliata dalla vita. Aveva il fascino di una domestica in libera uscita. Ava Gardner, una delle donne più belle di tutti i tempi, era troppo statuaria per avere grazia. Rita Hayworth troppo aggressiva. Sophia Loren è destituita di ogni erotismo, qualcuno, forse, la ricorderà nel tragico film Ieri, oggi, domani  dove in un négligé nero, ma con una deplorevole mutanda quasi ascellare, tenta inutilmente uno spogliarello davanti a un inerte Mastroianni. Julia Roberts è legnosa nei movimenti, può essere inquadrata solo di viso. Nicole Kidman è, a volte, una discreta attrice, ma, a conti fatti, resta una bella pupattola americana.

Il fatto è che la grazia non si concilia con la vamp. Va ricercata in ambiti più discreti. Grazia, un‘indimenticabile grazia, ha Bibi Anderson quando offre il cesto di fragole all’immalinconito Cavaliere nel Settimo Sigillo di Bergman. Ma altre bellissime del regista svedese, come Ingrid Thulin e Liv Ullmann, sono troppo intense, troppo drammatiche, per avere grazia che ha a che fare con la leggerezza. Audrey Hepburn aveva il manierismo della grazia, non la grazia, che non va confusa né con l’eleganza né con la classe in cui c’è inevitabilmente qualcosa di ricercato e di voluto. La grazia non è mentale.  È naturale. Grazia ha avuto Stefania Sandrelli – donna che ragiona, benissimo, con i cinque sensi-  finché non si è imbattuta nei film di Tinto Brass ed è diventata una culona come tante.

Grazia hanno certi monelli dall’aria ribalda. Una grazia canagliesca era del giovane Alain Delon. Grazia e garbo e simpatia aveva, da ragazzo e da vecchio, l’inimitabile Walter Chiari. La grazia di un angelo caduto aveva il divino Laurent Terzieff (Kapò, Peccatori in blue jeans, Il Deserto dei Tartari). Una sua foto in piedi, a torso nudo, glabro, con l’acqua del mare che gli arriva alle ginocchia dei jeans, mentre porta a cavalcioni, sul collo, come una bimba, una Brigitte Bardot solare, anch’essa in jeans e T-shirt bianca, è l’emblema della grazia, della giovinezza, della bellezza degli anni Sessanta e della loro innocente malizia.

Ma la sola donna dei nostri giorni sulla cui grazia mi sentirei di giurare è una giornalista di Sky, Chiara Martinoli, ulteriormente ingentilita da una deliziosa erre alla francese per cui, se mai la incontrassi, le farei dire cento volte “ramarro”.

È difficile trovare grazia anche nelle eroine della letteratura e in pittura, dove pur si può lavorare di fantasia. Nessuna grazia ha la Lucia del Manzoni, incatramata nella sua intollerabile modestia e castità. Anna Karenina è troppo signora, ed è troppo tormentata, per avere grazia. Emma Bovary troppo melodrammatica. Non ha grazia Odette de Crecy, eccessivamente concreta. Una sua misteriosa grazia ha invece Rachel o del Signore, la prostituta, ed è lo stesso tipo di grazia, legata alla sventatezza, della Bocca di rosa di De André. Una grazia astata ha l’adolescente di Cardarelli (“Non sanno le tue mani bianche il sudore umiliante dei contatti”).

Grazia ha la Venere del Tiziano ed è proprio quel movimento, pudico e malizioso, del braccio e della mano a coprire il pube, a donargliela. Una grazia antica ha La muta di Raffaello, anche perché si ha la garanzia che starà zitta. Grazia suprema, eterna, e quindi modernissima, ha l’eterea e sensuale Venere del Botticelli che, del genere, è l’assoluto.

Pur appartenendo, di norma, alla scabra e riottosa adolescenza o alla prima giovinezza, la grazia si può trovare anche in certe vecchiezze estreme che l’età ha prosciugato e rese essenziali. Perché, in definitiva, la grazia è fatta della qualità più difficile da ottenere in ogni campo: la semplicità. Che è proprio quanto il mondo contemporaneo ha perduto.

Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2023